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  1. #1
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    Predefinito immigrazione / due lettere, leggendo il Maestro

    A chi oggi si agita tanto nell'esprimere valutazioni sulla politica adottata dall'attuale governo nazionale relativamente alla cittadinanza extracomunitaria acquisita in un solo lustro, vorrei ricordare quanto segue.
    Una dozzina d'anni or sono, quasi clandestinamente, molti intellettuali e semplici cittadini - tra i quali il sottoscritto -, si prodigavano a scrivere e ad analizzare con la massima precisione quello che stava accadendo e a cui nessuno aveva il coraggio di porre contrasto a qualsiasi livello: un fenomeno migratorio assolutamente incontrollato e dalle mille incognite.

    Perfino la Lega Nord, intenta con tutta se stessa ad ottenere i posti di potere che ha ottenuto senza però più dare nulla in cambio se non sterili proclami, snobbava il fenomeno extracomunitario, ed anzi all'epoca i suoi soli problemi erano i "terroni", "Roma ladrona" e la "secessione del Paese". Prova ne sia che mai, dicasi mai, questo movimento politico ha indicato alla popolazione come reagire realmente e fermamente alla crescente ondata migratoria che era e resta regolamentata esclusivamente dalla beceraggine che è sotto gli occhi di tutti: un po'come dire non siamo all'altezza di gestire il fenomeno e quindi pensiamo a imbonire le coscienze dei poveri di spirito "padani" con ninne nanne ululate. Oggi come non mai, tra le altre, si verifica che il fenomeno extracomunitario ha il suo apice di presenze proprio nel nord Italia, dove progressivamente ci viene detto che gli ex "terzomondisti" stanno diventando addirittura imprenditori! A questo punto, a mio avviso i casi sono due: o si accetta definitivamente la realtà che queste persone lavorino in un territorio dove la reattività autoctona equivale nei fatti a zero e li si lasciano quindi vivere in santa pace, oppure si abbia il coraggio di affibbiare le responsabilità a chi questa situazione l'ha voluta e creata a tavolino e li si condanni moralmente per come la "cosa" la hanno gestita e per tutte le conseguenze storiche ed economiche che ne derivano e ne deriveranno in futuro.

    Nel suo saggio "Per una rivoluzione italiana" l'antropologa Ida Magli asserisce che: "L'ansia distruttiva della Chiesa nei confronti dell'Italia la spinge ad incitare a tutti i costi le autorità italiane e l'opinione pubblica ad accogliere gli immigrati ". Perché, mi chiedo, questo sta avvenendo? In "Immigrazione extra comunitaria tra realtà e demagogia" del dottor Giorgio Da Gai (edizioni Zoppelli - 1994) vi è questo passo: "Secondo dati del demografo Gabriel Marc, nel 2000 i cattolici occidentali saranno 346 milioni e i non occidentali 954 milioni: un rapporto quasi di uno a tre. Più di due terzi dei membri del cattolicesimo appartengono già ora alle Chiese del Sud mondiale. Il cattolicesimo in Africa conta 300 milioni di fedeli e ogni anno battezza circa 2,5 milioni di persone. La "roccaforte" del cattolicesimo si sposta così dall'Europa occidentale all'Africa Nera e all'America Latina o a paesi dell'Asia come le Filippine. Questo spiega perché oggi la Chiesa si schieri con il terzo mondo, diversamente dal passato quando permise o fece ben poco contro il genocidio e l'annientamento dei popoli e delle culture amerinde, o legittimò il colonialismo". La Chiesa quindi come può razionalmente rispondere a questo stravolgimento storico di cui è oggettivamente corresponsabile? Per avallare infine quanto sopra, ricordo ulteriormente che qualche tempo fa il Ministero dell'Interno forniva dati sulla presenza extracomunitaria sul nostro territorio. Il dato era fornito sull'ordine delle "decine di migliaia": quindi un dato generico! La Caritas corresse immediatamente dopo però i dati del citato ministero fino all'ultima unità: ne sapeva e ne sa evidentemente più delle cosiddette Autorità Nazionali

    Gian Luigi Soldi

    Conegliano

    ***

    Massimi Fini, di cui apprezzo gli interventi, scrive che "un immigrato deve avere la facoltà di scegliere se integrarsi o meno nella cultura del luogo in cui vive"; l'unica condizione è "che rispetti le leggi del Paese in cui vive, cosa questa sulla quale non si può transigere".L'apparente ragionevolezza di tale assunto contiene, a mio avviso, un piccolo errore: le leggi non sono affatto qualcosa di assoluto, tanto è vero che possono cambiare dall'oggi al domani. Quando fra due o tre secoli il parlamento italiano, per due terzi islamico, abolirà i nostri codici e darà forza di legge al Corano, sarà il tramonto della nostra civiltà e il sorgere di un altro mondo, pienamente legittimo e democratico, in cui si impiccheranno fanciulle monelle e donne adultere.Con questo voglio dire che forse abbiamo qualcosa da difendere oltre alla semplice legalità del sistema e dovremmo mettere le mani avanti, cercando di evitare che le nostre leggi democratiche diventino strumento per la sopraffazione da parte degli invasori.
    Plaudo, pertanto, alle ipotesi di disciplinare adeguatamente l'integrazione culturale degli immigrati ; ma siccome noi non siamo in grado di disciplinare un bel nulla, ritengo che l'unica difesa che abbiamo è semplicemente quella di resistere nel modo più strenuo possibile all'invasione in atto. Se poi il filosofo Umberto Galimberti ci recita la solita litania che ci troviamo nella condizione di aver bisogno degli immigrati , perché nessuno di noi vuol fare il lavoro che svolgono loro, dobbiamo allora ricordare un altro aspetto fondamentale della nostra civiltà: e, cioè, che abbiamo da secoli condannato e abolito la schiavitù. Non dovrebbero, pertanto esistere persone tenute a pulire, al posto nostro, il sedere ai nostri vecchi o lavorare nelle nostre fabbriche: dobbiamo noi riscoprire il dovere di badare ai nostri familiari e dobbiamo rendere più salubri e meno pesanti le nostre fabbriche. Se invece lasciamo fare tutti ai nuovi schiavi, i figli di costoro, che prenderanno la laurea e dirigeranno l'Italia del futuro, costringeranno i nostri lontani discendenti ad andare a fare i badanti e i facchini in Cina e in Marocco.

    Paolo Migneco

    Pieve di Cadore (BL)

  2. #2
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    Predefinito

    Le due lettere sono il seguito polemico dell'articolo di Massimo Fini, pubblicato nei giorni scorsi anche nel nostro Forum.

    Raffaele

  3. #3
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    Predefinito

    Anche sotto la spinta dell'emozione suscitata dal caso di Hina Salem, la giovane pakistana che, in contrasto con le tradizioni del suo Paese, si rifiutava di sposare l'uomo che la famiglia le aveva assegnato e conviveva more uxorio con un italiano, e per questo è stata barbaramente uccisa dal padre con la complicità di altri parenti, anch'essi residenti, come Hina, nel nostro Paese, da molte parti si sono levate voci perché siano rese più severe le condizioni previste dal decreto Amato per la concessione della cittadinanza italiana agli immigrati. In particolare sul Corriere della Sera l'autorevole Ernesto Galli della Loggia chiede che gli immigrati che vogliono ottenere la cittadinanza italiana dimostrino di essersi integrati nella nostra cultura, di voler inviare o di aver inviato i propri figli alle scuole italiane e propone l'istituzione di corsi speciali di cultura italiana e di alfabetizzazione che costoro dovrebbero frequentare.


    «È un vero e proprio "piano Marshall culturale"», come egli stesso scrive, quello che ipotizza Galli della Loggia.
    A mio avviso è una strada sbagliata e iniqua. Quelle che vanno richieste agli immigrati devono essere solo condizioni di fatto, per così dire tecniche, senza esamini culturali: l'aver soggiornato regolarmente nel nostro Paese per un certo numero di anni (che per il decreto Amato sono cinque ma potrebbero, se lo si ritiene opportuno, anche essere aumentati) e il pagarvi le tasse. Punto e basta. Le «rieducazioni» forzate lasciamole all'esperienza cinese dell'epoca di Mao e della sua «Rivoluzione culturale».
    A Brooklyn ci sono migliaia di italiani che vivono a tutti gli effetti, che votano negli Stati Uniti, e che non sanno spiccicare che poche parole d'inglese. Americani e tedeschi che vivono in un Paese diverso dal loro, e magari vi han preso la cittadinanza, mandano i loro figli alla scuola americana o tedesca, se ci sono. Le comunità ebraiche sparse per il mondo conservano gelosissimamente la loro cultura e le loro tradizioni.
    Un immigrato, pur diventato cittadino di un Paese diverso dal suo di origine, deve avere la libertà di scegliere se integrarsi o meno nella cultura del luogo in cui vive. È una sua facoltà. Se sente il bisogno di rimanere legato alla propria storia, alle proprie tradizioni, alla propria cultura, agli schemi mentali della sua comunità d'origine deve essere libero di farlo, sempre che, ovviamente, rispetti, come tutti gli altri cittadini, le leggi del Paese in cui vive, cosa questa sulla quale non si può transigere nemmeno per faccende di dettaglio, infini tamente meno gravi di un omicidio.
    Ma questa smania di educare o «rieducare» è una questione che va ben al di là del problema dell'immigrazione e riguarda quello che io ho chiamato «il vizio oscuro dell'Occidente»; vale a dire la pretesa di omologare tutto l'universo mondo alla nostra storia, alla nostra cultura, alle nostre concezioni, ai nostri princìpi, ai nostri schemi mentali, alla nostra «way of life», alle nostre istituzioni. È anche (dico anche) per «democratizzare» l'Iraq e, con effetto domino, il Medio Oriente, cioè per omologarlo a noi, che abbiamo invaso e occupato quel Paese provocando uno sconquasso inenarrabile. Ed anche (dico anche) per «democratizzare» l'Afghanistan, cosa totalmente assurda per un popolo che ha storia, tradizioni, vissuti, cultura, metodi di selezione delle leadership diversissimi e lontanissimi dai nostri, che teniamo in piedi un governo-fantoccio come quello di Karzai che non è altro che una diretta emanazione dell'Amministrazione americana. I talebani saranno stati quello che saranno stati, ma erano una storia afghana. Noi abbiamo espropriato la storia di quel popolo per sostituirla con la nostra.
    Il fatto è che l'Occidente, che si dice liberale, non è più in grado di accettare, e nemmeno di tollerare «l'altro da sè», «il diverso da sè». Accettiamo il «diverso» solo nella misura in cui si omologa a noi. Che è un modo molto facile e molto comodo di relazionarsi col diverso. Il «diverso» va accettato nella sua diversità (sempre che, s'intende, non pretenda a sua volta, di imporla a noi).
    Un mondo omologato ad un unico modello culturale, che è quello verso cui stiamo stolidamente andando, sarebbe una sciagura. Perché la diversità, con tutto il suo carico di conflittualità, non è solo, come sappiamo tutti, il sale della vita. È la vita stessa. Già Eraclito (VI secolo a.C.), polemizzando con Omero (altro era, a quei tempi, il livello delle polemiche e dei suoi protagonisti) sosteneva in un famoso frammento: «Quando Omero scrive "Possa la discordia sparire fra gli Dei e fra gli uomini" non si accorge che egli prega per la distruzione dell'universo; se la sua preghiera fosse esaudita tutte le cose perirebbero». Per Eraclito l'universo è energia e l'energia è resa possibile solo dalla incessante tensione fra gli opposti. Su un piano meno cosmico questo vale anche per le culture. Un mondo monoculturale non sarebbe solo infini tamente noioso, sarebbe un mondo morto.

    Massimo Fini, 20 agosto 2006

  4. #4
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    Predefinito il maestro risponde ai due lettori

    I lettori Maria Teresa Secondi e Paolo Migneco pongono due questioni di fondo. Secondi si chiede se noi abbiamo il diritto, o addirittura il dovere, di intervenire, anche fuori di casa nostra, nelle altre culture e negli altri mondi eliminandone, con le buone o con le cattive, dispotismi e crudeltà (che elenca minuziosamente facendo peraltro un "poutpourrì" tratto da tradizioni diverse) al che sono appartenuti in certi casi, anche alla storia europea ed occidentale ma che abbiamo fortunatamente superato. E si dà una risposta senza dubbi: noi occidentali abbiamo il diritto e il dovere, da buoni samaritani quali siamo, di eliminare quei dispotismi, quelle crudeltà, quegli orrori omologando le altre culture alla nostra e esaminando come "diversità", bontà sua, "i piatti tipici, le sagre, i costumi tradizionali" che poi andremo a goderci da turisti. A parte che omologando alla fine sparirebbero anche i piatti tipici la questione non è così lineare e semplice come crede Secondi convinta di appartenere a una cultura più evoluta e "superiore".

    Lévi-Strauss, che non è un terrorista islamico ma un filosofo e antropologo che, come tale, ha conosciuto molti popoli, sostiene che ogni cultura è un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti strettamente collegati fra loro per cui qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si possono estrapolare e cancellare dalle culture "altre" gli aspetti che non ci piacciono senza modificare profondamente tutto il sistema e, quasi sempre, farne crollare l'intera impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intrusione occidentale nelle società del Terzo Mondo ancor più "primitive", anche quelle animate dalle migliori intenzioni, per non parlar delle altre, ha portato sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e distrutto, di fatto, quelle società, quelle culture e quelle civiltà.

    È vero che in molte - non in tutte - culture diverse dalla nostra ci sono pratiche dispotiche e crudeli per noi incomprensibili. Ma sono compensate da altri aspetti. Noi mettiamo su tutto la libertà individuale (anche se poi ci sarebbe da vedere che cos'è realmente la libertà in Occidente - vedi la lettera di Migneco), loro privilegiamo i legami, familiari (quelli che Migneco, conttradicendosi, lamenta siano venuti meno da noi), cronici, tribali e, quando non sono completamente imbastarditi dalle nostre intrusioni, mirano all'equilibrio e all'armonia "in ciò che c'è già" a scapito dell'efficenza economica e tecnologica. Sono società tendenzialmente statiche laddove quella occidentale è dinamica. È la loro storia. Non è la nostra.

    Ma non basta. Siamo davvero sicuri, come lo è Secondi e quasi tutti in Occidente, che il nostro sia "il migliore dei mondi possibili", la "cultura superiore", la società più evoluta dove è "migliorato il nostro modo di stare insieme" e dove, insomma, si vive meglio? Prendiamo dei dati, che sono più solidi delle opinioni, e facciamo un raffronto fra l'Europa preindustriale e preilluminista, dove si viveva, grosso modo, come vivono attualmente le società che ci fanno orrore, e l'Occidente di oggi. Nell'Europa del 1650, industriale, i suicidi erano 2,5 per 100 mila abitanti, in quella del 1850, un secolo dopo il "take off" industriale, erano 6,9. Triplicati oggi sono 20 per 100 mila. Decuplicati. Nevrosi e depressione, pressoché sconosciute nel mondo di ieri, sono malattie della modernità. Si affacciano all'inizio dell'Ottocento, non a caso negli ambienti borghesi, mercantili, e quindi agiati, diventano un problema sociale delle classi cosiddette benestanti fra Ottocento e Novecento, tanto che nasce la psicoanalisi (Freud), per esplodere poi come segno di un disagio acutissimo, che preme l'intero Occidente in tutti i suoi ceti, più o meno dopo la seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti 566 americani su mille fanno uso abituale di psicofarmaci. Cioè nel Paese di punta del nostro modello di vita, il più forte, il più potente, il più ricco, più di un abitante su due non sta bene nella propria pelle, non regge la società in cui vive. Il fenomeno dell'alcolismo di massa nasce con la Rivoluzione industriale. Quello della droga è sotto gli occhi di tutti.

    Vogliamo sostenere, seriamente, che questo è "il migliore dei mondi possibili"? Abbiamo eliminato alcune crudeltà e alcuni dispotismi (sostituendoli con altri, più sottili e meno visibili), ma al prezzo del vuoto esistenziale e di una formidabile perdita di senso. E ora pretendiamo di esportare la nostra nevrosi in tutto il resto del vasto mondo.

    Migneco si chiede invece che cosa dobbiamo fare per fermare quelli che chiama "gli invasori" (per la verità ad essere invasi, per ora, sono l'Afghanistan, l'Iraq, l'Arabia Saudita, la Bosnia, il Kosovo, ma lasciamo perdere non è questo l'argomento).

    Dobbiamo innanzitutto fermarci noi, fermare le nostre di invasioni, quelle economiche, anzi ritirarci. Non mi riferisco qui al colonialismo classico, ma a quello attuale, economico. Fra i due c'è una differenza sostanziale, di qualità. Il primo si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le comunità dei colonizzatori e dei colonizzati rimanevano sostanzialmente separate poco cambiava per questi ultimi che continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo le proprie tradizioni, costumi, mentalità, socialità, economia. E infatti, non si erano mai visti prima degli ultimi decenni, poniamo, neri del Centro Africa venire verso l'Occidente - eppure le navi esistevano anche allora - caso mai eravamo noi che andavamo a prenderli per trarli schiavi. Il colonialismo economico invece non conquista territori ma mercati (di cui l'Occidente ha un bisogno estremo, anche dei più modesti e poveri, perché i suoi sono saturi) e per farlo deve omologare gli abitanti del Terzo Mondo ai nostri costumi, alla nostra "way of life", ai nostri valori, ai nostri schemi mentali e possibilmente ai nostri costumi. Privati delle loro tradizioni, della loro socialità, di quel tessuto di solidarietà, familiare, il nostro modello, ha lacerato irrimediabilmente, ridotti a vivere in desolate periferie dell'Impero con i suoi materiali di risulta, resi eccentrici rispetto alla propria cultura, che non esiste più o è finita nell'angolo, milioni di uomini e di donne del Terzo Mondo perdono ogni punto di riferimento e la loro identità (è da questo, soprattutto, che cerca di difendersi l'Islam, più strutturato rispetto ad altre culture terzomondiste). E quindi vengono verso il centro dell'Impero per cercavi una vita migliore. Questa è una delle cause della miseria e poi c'è la fame.

    Che è anch'essa un fatto nuovo, prodotto dall'avanzare della globalizzazione del nostro modello. Prendiamo l'Africa nera. Nessuno crederà seriamente, spero, che l'Africa sia sempre stata alla fame. Agli inizi del novecento era talmente autosufficente dal punto di vista alimentare e lo è rimasta, nella sostanza (al 98\%), sin verso la fine degli anni sessanta. Poi l'autosufficenza è andata rapidamente decrescendo e oggi è abbondantemente sotto il 50\% l'integrazione economica mondiale costringe i neri africani, come le altre popolazioni del Terzo Mondo, ad abbandonare le economie di sussistenza, cioè di autoproduzione e autoconsumo, su cui avevano vissuto, e a volte preparato, per secoli e millenni, per entrare nella globalizzazione. Adesso i Paesi africani esportano qualcosa (dal Continente Nero ci arrivano squisite primizie), ma queste esportazioni sono lontanissime da compensare il deficit alimentare che si è creato con l'abbandono delle economie tradizionali. E quindi la fame. E quelle migrazioni bibliche che tanto inquietano l'Occidente.

    Ma chi è favorevole alla globalizzazione non può essere contro l'immigrazione . Se i capitali e le merci possono andare a cercare il luogo della Terra dove ritengono di trovare la migliore remunerazione, questa possibilità deve essere consentita anche agli uomini che, oltretutto, sono stati quasi sempre ridotti a miserabili proprio dall'arrivo di quei capitali. A meno che non si voglia arrivare al punto veramente infame, di sostenere che il denaro ha più diritti degli uomini.

    Se vogliamo evitare le immigrazioni di massa dobbiamo smetterla con le nostre intrusioni, economiche e non, che non fanno altro che destrutturare i Paesi del Terzo Mondo. Dovremmo anzi ritirarci da quei Paesi. Ritirare i nostri missionari, le nostre armi, i nostri rifiuti tossici, le nostre fabbriche puzzolenti, i nostri imprenditori che vanno lì a "portare lo sviluppo", i nostri prodotti, il nostro denaro. Dovremmo lasciarla in pace, quella gente. Ecco tutto. Ma non possiamo farlo perché questa economia internazionale di rapina ci serve per mantenere quei livelli di benessere cui non siamo in grado di rinunciare anche se si è rivelato uno straordinario malessere.

    E nemmeno gli aiuti in loco, quand'anche non siamo (?), servono a nulla. Sono anzi dannosi perché integrando ulteriormente questi Paesi al nostro sistema finiscono per strangolarci del tutto.

    L'Africa, per prendere il Continente Nero come emblema di una situazione complessiva, stava molto meglio quando si aiutava da sola. Durante un G7 di anni fa i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin organizzarono un contro summit al grido "Per favore, non aiutateci più!".

    Quanto a Migneco che teme che fra qualche tempo gli islamici, divenuti maggioranza nel nostro Paese ne detteranno le leggi, vorrei fargli notare che questa era esattamente la situazione del Kosovo dove la minoranza albanese, a furia di figliare, era diventata maggioranza e pretendeva di impadronirsi, con l'indipendenza, di una regione che era da sempre, storicamente e giuridicamente serba. La Serbia non ci stava ovviamente a cedere una terra che era stata lavorata per secoli da serbi per regalarla ai nuovi arrivati. Ma intervenimmo noi occidentali, "uomini di buona volontà", già "uomini della pace", in favore dei terroristi dell'Uck finanziati dagli americani, con l'Italia nel poco dignitoso ruolo del "palo", bombardammo per 72 giorni la Jugoslavia e una città europea come Belgrado facendo, cara Secondi, anima candida, 5.500 morti.

    E poi, per buona misura, trascinando, col ricatto economico, a quel che restava della Serbi, l'ex presidente Slobodan Milosevic davanti al Tribunale internazionale dell'Aja dove è morto d'infarto.

    Spero proprio che i timori di Migneco si avverino e che la Storia ci renda la pariglia.

    Massimo Fini

 

 

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