Lucido la carta d’identità. C’è il nome, il cognome ma non i segni particolari. Non c’era nulla che ritenessi più particolare di qualcos’altro. Ma ripensandoci una cosa c’è, e sotto ci avrei fatto scrivere “particolarmente Conservatore”. Sempre con la maiuscola.
Ora la custodia trasparente è tornata lucida come prima. E la mia carta può tornare a dormire in una tasca del portafogli. E’stato un gesto da niente, senza importanza, eppure quella scelta che non ho fatto mi rimane impressa. Avrei potuto rendere meno banale quel documento se ci avessi scritto “particolarmente Conservatore”. Ma non l’ho fatto. E cosissia.
La carta dorme nel portafogli e il portafogli dorme in tasca. Mi metto a leggere Libero, l’unico quotidiano che, da italico destro molto depresso, non mi fa crollare il morale a terra. Tra un Feltri e un Farina, un Socci e un Giannino, scopro che forse questa destra molto minuscola un cuore ce l’ha ancora. Non so per quanto possa continuare a battere se a rianimarla – di idee, slanci, urla, provocazioni – ci deve pensare un giornale diretto da un bergamasco pessimo e meraviglioso. Non sono un tipo da “Foglio”, mi urta parecchio quell’impaginazione così volutamente sghemba e intellettualoide. Degli altri fogli centrodestri è meglio non parlare: si finirebbe in un cimitero editoriale diviso fra sepolture lucidate a colpi di lingua e marmi ormai in frantumi. Il Corrierone va letto, è quasi un obbligo morale per un “borghese”, ma Via Solferino merita di più di un direttore a rimorchio delle mortadelle. Non uno che regga la sella al Cavaliere, ma uno che rispolveri la tradizione di quel quotidiano nato per parlare agli antenati di Longanesi. Vabbé, resta Libero.
Inizio a sfogliarlo: preghiera al Cav che ritorni presto, il dopo-Silvio, i Casini del Centrodestra, la scuola di Gubbio per piccoli Bondini e poi quel titolo pensato e scritto per rapirmi gli occhi. Non che sia folgorante per bellezza, è solo che è così spietatamente diretto. “Cercansi disperatamente giovani leader di destra”. Ritorna la depressione. Penso: da chi e da cosa dovrebbero essere spinti a farsi il mazzo a tarallo per diventare leader? Dallo Stato minimo, dalla Thatcher, dal pensiero forte, da Sharon? Dal diritto naturale o da Reagan? Macché. Da Berlusconi e Fini se va bene. Da Follini, Ronchi e Schifani se va malissimo. E allora il liberista radicale, il borghese longanesiano, il cattolico “intransigente”, il conservatore duro e puro affonda nell’uggia più nera. E non trova nessun appiglio che sappia anche sbiaditamente di italiano. L’unico gancio, solido come pochi, è fatto di ottone anglo-americano.
Pensa, l’orfanello del Belpaese, a chi lo rappresenta in Parlamento e viene travolto da un insolito destino di prurigine. Pensa ai nostri a cui interessa la “cultura del fare” e non certo quella del “fare cultura”. Sono tutti abili demiurghi, tutti carpentieri della politica. Che però costruiscono fondamenta talmente fragili che alla prima brezza il Castello delle libertà finisce in pezzi. Niente: i manovali del Palazzo non hanno idea di chi siano i loro padri spirituali. Figurarsi se conoscono Burke o Kirk, ma non sanno neppure chi sia stato Gentile, Evola, Celine, Spengler o Mishima. Gente che mi piace poco ma di cui riconosco il – seppur originale – pedigree non sinistro. Ma ai nostri basta sapere l’inno di Forza Italia a memoria o leggere i ricordi giamaicani di un presidente subacqueo.
Ora l’elettrocardiogramma del centrodestra sta per suonare a lutto. E il conservatore italiano è troppo stanco di seguire l’agonia di un fallito, che merita – lucida spietatezza reazionaria o infinita carità cristiana – di crepare finalmente. Così da poter tifare solo per i suoi miti, che mai – forse e purtroppo – potranno essere italiani. Lo Stato minimo, la Thatcher e il pensiero forte. Sharon, Reagan e il diritto naturale. E cosissia.
Italianhawk