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    Predefinito Il ruolo del socialismo nella società ingiusta di FAUSTO BERTINOTTI

    Il ruolo del socialismo nella società ingiusta
    di FAUSTO BERTINOTTI

    Il ruolo del socialismo nella società ingiusta

    Caro direttore,

    il fatto stesso che un dibattito sul socialismo guadagni nell'Italia di questo tempo, su un grande quotidiano di opinione come La Repubblica, il rilievo di una questione politica cruciale può essere interpretato come segno di tempi. Potrebbe essere la spia di una ripresa di interesse pubblico per le questioni di cultura politica, se non la fine, almeno la crisi di un lungo ciclo, quasi un quarto di secolo, in cui la politica si è rinchiusa nella sfera della governabilità, sfuocata e subalterna versione di una "politique d'abord" senza neppure l'ambizione dell'impatto forte sulla realtà del momento. E' stata, ed è ancora per tanta parte, un politica che si è pensata, anche per aver contratto una fobia nei confronti delle ideologie, priva di culture politiche forti e dimentica sia dei grandi interrogativi sulla natura della società che della ricerca sulle cause motrici nella determinazione della condizione umana del proprio tempo. La crisi della politica credo affondi proprio in questo oscuramento delle culture politiche una delle sue ragioni di fondo. Non sembrano in grado di uscirne coloro, e sono parecchi in questo dibattito, che propongono alla sinistra riformista un approdo neo-liberale o, come meglio la definisce Riccardo Bellofiore, social-liberista.

    Il tema del socialismo, con il solo suo porsi, evoca un cammino nella direzione opposta a quel ciclo, riapre questioni dure e persino drammatiche che erano state accantonate o usate strumentalmente nel mercato politico, ma lo fa in quanto torna ad interrogarsi sulla società, sul suo divenire, sulle relazioni sociali e umane che vi si stanno definendo.

    Aveva ben avvertito l'esistenza del problema che, anzi, si sarebbe poi venuto drammatizzando, un'intellettuale come Noberto Bobbio, che pure socialista non è stato. L'aveva avvertito nel punto più rovinoso della crisi del socialismo e l'aveva osato chiamare con il suo nome, il problema dell'uguaglianza (con il suo opposto della disuguaglianza).

    Siamo ora giunti ad un crocevia. Il tema del socialismo solleva quello della ricerca di una diversa idea di società rispetto a quella che viviamo e chiama la politica ad un compito non ordinario, quello della trasformazione. Esso ha segnato in Europa una storia politica secolare entro cui dure smentite della storia si sono intrecciate con l'irruzione delle masse nella politica e con storie politiche le più diverse. Se il secolo passato si chiude con la loro sconfitta, il nuovo riapre la questione oggettivamente (la natura dei problemi della società del capitalismo contemporaneo) e soggettivamente (la nascita del movimento dei movimenti).

    Il dibattito de La Repubblica offre un significativo assaggio di come possa svilupparsi, nel campo riformista, una nuova edizione del confronto tra socialisti e liberali, un confronto tra tesi ormai ravvicinate e tuttavia non riducibili ad una. In Italia questo carattere ravvicinato è accentuato dal processo aperto verso le costituzione di un partito democratico, peraltro più debitore nei confronti della tradizione politica nord-americana che di quella Europea.

    Del resto da noi non è mai esistita una autonoma storia politica social-democratica. Eppure, appena messo all'ordine del giorno il tema del socialismo, qualcosa si è mosso, fino a mettere in luce una tematica che riveste un interesse per tutto il campo delle sinistre.

    Ma che cos'è il socialismo che vuole definire una nuova politica in Europa per chi lo sceglie come propria connotazione in questo dibattito sulla Repubblica? Non è, mi pare chiaro, un'idea di attualizzazione del tema della fuoriuscita dal capitalismo, della configurazione, cioè, di una diversa organizzazione sociale. Non è neanche l'assunzione, nella sfera della politica di partito, dell'ispirazione "un altro mondo è possibile" che ha caratterizzato il nuovo movimento. Tuttavia, pare di capire che questi anni non siano passati invano anche nel campo riformista. Essi hanno mostrato il volto della crisi della coesione sociale, dell'instabilità e della crisi del consenso nel popolo. Così socialista, per questa tesi, oggi vuol dire avversione al liberismo, e in particolare a quella sua forma che si è venuta definendo come neo-liberista.

    Nasce da qua il bisogno di un diverso (da quello degli ultimi decenni) spazio per la politica e per il pubblico, visto che il mercato viene considerato del tutto inadatto ed incapace di perseguire gli obiettivi di società invece necessari se si vuole fronteggiare la crisi che esso genera. La denuncia delle intollerabili ingiustizie che in maniera crescente investono la nostra società viene messa a fondamento dell'esigenza attuale di dirsi socialista, per esempio, da Dominique Strauss-Kahn, un dirigente del Psf pure considerato particolarmente attento al tema del mercato.

    A fornire una sorta di sorgente a cui attingere l'acqua per accompagnare la ripresa del cammino, viene chiamata, mi pare, la tradizione del socialismo europeo del dopo guerra, dopo la sconfitta del nazi-fascismo e in particolare la sua opera per l'edificazione dello Stato-sociale ( il modello sociale europeo). È significativo che così però si dimentica che questa risultante non è una prerogativa dei socialisti, basti pensare, da un lato, al modello renano e, dall'altro, al contributo potente dei partiti comunisti al conseguimento di questi risultati. Mentre il contributo dei socialisti, a sua volta, non sempre si è caratterizzato solo sul fronte dello stato sociale, si pensi ai temi delle riforme di struttura e della programmazione nell'elaborazione dei socialisti italiani degli anni '60, o all'anticapitalismo del Mitterrand d'Épinay o alle proposte svedesi di socializzazione della proprietà di grandi imprese, o alla formula di Willy Brandt secondo cui la socialdemocrazia non può essere l'officina di riparazione dei guasti del capitalismo.

    Venti che non mi paiono soffiare, però, nelle vele dei partiti socialisti nell'Europa odierna. Tuttavia si può intendere il richiamo alla storia del socialismo europeo come ad una sua dichiarata irriducibilità, per il futuro, al pensiero liberale e ad una pratica politica omologata. Bene. Ma c'è qualcosa di importante che così resta fuori e c'è qualcuno che può portare ciò che così resta fuori dentro la politica e dentro il confronto sul socialismo? E si può dire che senza questo qualcosa il dibattito tra liberali e socialisti resta inadeguato?

    Credo di sì. In quel ragionamento, infatti, c'è un'omissione che balza agli occhi ed è quella che riguarda il modo di produzione, cioè l'interpretazione della società come sistema. Che razza di bestia è la società in cui viviamo? Una chiave interpretativa si può costruire, anche vivificando le appartenenze ed il confronto tra ideologie e culture diverse, a partire proprio dalla natura e dal peso che sono venute assumendo in essa le ingiustizie e le disuguaglianze.

    Esse sono divenute così profonde e strutturate non solo da produrre conflitti e rotture sociali radicali ma anche da far nascere, come è accaduto anche recentemente in Francia, nuove scuole sociologiche che, pur proveniendo da culture liberali, fanno della ricerca sulle nuove ingiustizie sociali un terreno di fondazione di scuole di pensiero. Il punto dirimente sulla connessione tra le diseguaglianze ed il modello economico e di società è il loro rapporto con la modernizzazione e con l'innovazione.

    Si può constatare che in genere, anche in questo dibattito, tanto più una posizione si ripropone come socialista tanto più è indotta a denunciare, a differenza di quella liberista, la crescente gravità delle disuguaglianze e la loro insostenibilità per il futuro della democrazia e della civiltà.

    Scriveva appunto Dominique Strauss-Kahn, nel suo intervento su La Repubblica, che l'innovazione in atto produce, oltre che delle opportunità, "anche" sconvolgenti ingiustizie sociali. Ma è qui che il problema si fa aspro e duro. Se quell'"anche" fosse rimovibile, se fosse cioè una superfetazione, una patologia che interviene e si aggiunge a un corpo che addirittura vivrebbe meglio qualora gli venisse asportata, le cose sarebbero alla portata dell'intervento riformista. Ma ben altro, invece, sarebbe il problema se l'innovazione che conosciamo, se la modernizzazione in atto, fossero invece proprio fondate sulla strutturazione e sull'uso sistematico delle disuguaglianze, se cioè esse funzionassero proprio in quanto produttrici di disuguaglianze. Se utilizziamo molte delle analisi critiche che sono venute compiendosi sull'economia della conoscenza nel capitalismo della globalizzazione, credo che dobbiamo approdare a questa seconda tesi.

    Con il capitalismo della globalizzazione e della conoscenza si vuole definire una sua fase specifica, quella in cui si produce una integrazione delle economie e una loro unificazione in un mercato mondiale sotto il segno di un predominio dei processi di finanziarizzazione e con la messa in opera della conoscenza come fattore potente dell'accumulazione.

    In esso il lavoro organizzato nella produzione materiale non solo non diventa marginale ma viene sospinto dentro un nuovo e aspro conflitto di classe segnato dalla propensione, non generalizzabile ma molto forte, dell'impresa a ridurlo a pura variabile dipendente. L'inseguimento nel mondo, con poderose allocazioni di investimenti in nuove grandi aree di sviluppo a basso costo del lavoro e le delocalizzazioni industriali in aree non-union, inseguendo la forza lavoro dove la si può trovare al suo prezzo più basso, sono tendenze assai indicative della natura del processo in atto che trova una drammatica conferma nelle inedite voragini di sfruttamento che si aprono nei nostri stessi paesi, quando viene meno l'argine della cittadinanza.

    Gli immigrati clandestini ridotti alla schiavitù nelle raccolte del pomodoro nel foggiano, come ha rivelato l'inchiesta di un giornalista coraggioso come Fabrizio Gatti, sono la prova vivente di quali spiriti animaleschi si possono sprigionare in questo processo. Bisogna sapere che, nel rapporto tra capitale e lavoro, nessuna conquista di civiltà è acquisita per sempre e che, al contrario, sempre e ovunque si possono spalancare gli inferni della prima industrializzazione. Del resto, non per caso, la cifra del lavoro in questo processo di modernizzazione è diventata la precarietà: una replica tecnico-organizzativa e sociale alla crescente difficoltà delle imprese di programmare e prevedere uno stabile rapporto tra la produzione e il mercato.

    Ma si tratta di una risposta regressiva sul terreno sociale (quello della definizione delle condizioni di lavoro e di cittadinanza sociale) e gravida di drammatiche conseguenze sull'intero assetto della società, sul suo grado di civiltà, sul senso del lavoro e della vita delle persone. Proprio questo spiega la rivolta generazionale contro questa condizione e questa prospettiva.

    Eppure la precarietà sembra stare al lavoro contemporaneo come la parcellizzazione sta al lavoro taylorista. Come gli investimenti che cercano il "prato verde" (l'impresa non-union) e come le produzioni che cercano la via di fuga verso territori senza contratti di lavoro e al di fuori della legislazione sul lavoro, quel che anche la precarietà cova è la sistematica messa in discussione della possibilità per le lavoratrici e per i lavoratori di costituirsi in coalizione del lavoro al fine di affermare collettivamente un punto di vista autonomo e un potere di intervento sulle proprie condizioni e sui propri destini.

    Ritorna cioè una tentazione del capitalismo a ricondurre tutto dentro di sé, ritorna una sua vocazione totalizzante. L'economia della conoscenza costituisce il tetto di questa costruzione, un tetto che è destinato a retroagire condizionando, nel futuro che già si prepara, l'intero edificio sociale. Andrè Gorz nel suo recente "L'immateriale" ci aiuta a capire di che si tratta. Il passaggio è indubbiamente rilevante: si delinea una nuova tappa nella storia del rapporto tra il lavoro, l'economia e la società. Quella conoscenza che nella fase del macchinismo si presentava separata dagli esecutori e incorporata invece nelle macchine e nella gerarchia, si presenta ora come un bene diffuso nella popolazione lavorativa e nella società. È ben vero che la conoscenza non è il saper fare, non è l'intelligenza dell'esperienza e tuttavia essa attinge a questi serbatoi e si rende molteplice, ambigua e sfuggente.

    Si viene configurando così una potenzialità liberatoria del-dal lavoro e di erosione delle basi materiali e culturali della privatizzazione della ricchezza prodotta. Il prodotto del lavoro potrebbe presentarsi non più così separato dai lavoratori, mentre la fonte della ricchezza e la ricchezza stessa si avvicinerebbero. Marcello Cini ha documentato con grande rigore analitico come, invece, avvenga il contrario, come , cioè , l'economia della conoscenza si accompagni ad una acutizzazione estrema delle disuguaglianze. È proprio con l'avvento dell'economia immateriale che ha preso corpo una specie di Kombinat politico-finanziario, un'oligarchia mondiale che governa pressoché l'intero movimento dei capitali, che ne sospinge la gran parte del risparmio raccolto sull'intera scala mondiale verso la potenza imperiale e in direzione di una sua allocazione tesa al profitto più alto e immediato e perciò indifferente alle conseguenze che determina nel rapporto tra povertà e ricchezza, sulla natura, sull'uomo, sulla civiltà. Esse dovrebbero essere ridotte a pure variabili dipendenti della competitività.

    Ma così matura una crisi di civiltà, così si costruisce la scena in cui prendono corpo guerra e terrorismo, mentre all'interno dell'economia della conoscenza il monopolio e le barriere all'accesso sono erette a difesa del privilegio, del potere e dunque al rafforzamento dell'ineguaglianze con tanta maggiore durezza quanto maggiore è l'insidia che il ricorso alla conoscenza, come fattore di produzione, porta all'accumulazione privata.

    Tanto meno diventa giustificabile la contraddizione tra la messa all'opera di una risorsa generale non riconducibile ad un valore di scambio e la natura privata del suo sfruttamento, tanto più essa deve essere riprodotta artificialmente, cioè attraverso la politica. Ma in un sistema che vive perdendo progressivamente ogni giustificazione, e quindi consenso attivo, c'è tutto il rischio del nostro tempo.

    Chi si richiama al socialismo farebbe bene oggi a ripartire dalla rilettura di "Sul concetto di storia" di Walter Benjamin. Capisco che ci si possa interrogare sulla componente messianica di quella interpretazione della storia, ma non capisco come una cultura del cambiamento possa ignorare il rischio di catastrofe che si inscrive in una modernizzazione siffatta. Sembrano invece avvertirlo solo delle ricerche che si muovono dentro ispirazioni religiose che spesso, tuttavia, replicano al pericolo con una drammatica pulsione integrista e persino fondamentalista. Invece no, nel capitalismo della globalizzazione e della conoscenza c'è inscritto in primo luogo un "dipende". Esso è aperto ad una corsa verso una sorta di pan-capitalismo ma anche, al contrario, verso una fuoriuscita da esso.
    Il "dipende" non è ascrivibile alla sola sfera del politico, ma si colloca in un determinato rapporto tra i processi economico-sociali, il formarsi in essi di soggetti protagonisti della storia futura e la costruzione di una volontà politica capace di cogliere la natura più profonda della contesa. La ricerca di quel determinato rapporto che dà luogo alla trasformazione è il compito oggi della grande politica. Se abdica a questo il socialismo si eclissa, ma temo con esso anche la civiltà.

    Se la natura dei processi attuali è quella indicata, allora il tema del socialismo, ben oltre l'eredità pur importante della sua storia europea, è oggi quella del cambio del paradigma dell'organizzazione dell'economia e della società. È quello, si può dire, del socialismo come liberazione. L'immissione nel dibattito meritoriamente avviato, di questo diverso punto di vista, non pretende di costituirsi in un nuovo monopolio dell'idea di socialismo, nella rivendicazione di un'esclusiva, ma allarga il campo della ricerca e lo sospinge verso il confronto fra tutte le definizioni possibili di socialismo, verso il confronto sulle cause di sistema delle ingiustizie e delle ineguaglianze al fine di poterle combattere realmente.

    Confida, questa tesi, di mostrare che coesistono nella modernizzazione sia le basi di una nuova storia di oppressioni e di spoliazioni (con il rischio della catastrofe), che i germi di una possibile fuoriuscita. Questo perché come dice Gorz: "L'economicizzazione di tutte le attività e di tutte le ricchezze diventa distruttrice di senso, impoverisce i rapporti sociali, degrada l'ambiente urbano e quello naturale, genera esternalità negative di cui il sistema non può nè vuole valutare il costo. Il legame tra 'più' e 'meglio', tra 'valorè (nel senso economico) e 'ricchezzà si rompe". Ma allora può tornare a valere la profezia dei Grundrisse: "Che cosa è [la ricchezza] se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato?". La profezia del socialismo della liberazione.

    (13 settembre 2006)

    http://www.repubblica.it/2006/08/sez...ertinotti.html

  2. #2
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    Bertinotti pensasse a mandare avanti l'iter per togliere il suo esimio collega Previti da Montecitorio, dato che quest'ultimo è stato interdetto dai pubblici uffici ma solo la Camera può dare l'autorizzazione a farlo decadere da parlamentare.
    Bertinotti pensi a questo invece delle fregnacce sul socialismo e trascorrere le sue vacanze sulla barca a vela di Cecchi Gori.

 

 

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