Pechino. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha lasciato
ieri la Cina con destinazione New York, dove – a margine
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite – incontrerà
il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. La politica
estera è stata al centro dei colloqui conclusivi di Prodi
con la leadership cinese, che però non ha concesso molto
sul piano economico. Nella sua prima tappa a Nanchino,
Prodi era stato accolto dal China Daily con un supplemento
dedicato all’amicizia sino-tedesca, suggellata dall’annuncio
dell’apertura di una nuova fabbrica Daimler Chrysler in Cina.
Il giorno successivo a Canton, sulla prima pagina dello
stesso quotidiano capeggiava una foto del primo ministro cinese,
Wen Jiabao, con il premier britannico, Tony Blair:
mentre Prodi promuoveva le piccole e medie imprese – un
giro d’affari di qualche milione di euro – Jiabao era a Downing
Street per sottoscrivere un contratto da 425 milioni di
sterline tra Rolls-Royce e Air China. Qualche giorno prima,
a Helsinki, Wen aveva annunciato un lucroso accordo con il
gigante della telefonia finlandese Nokia. Mentre l’Italia arrivava
in pompa magna in Cina e annunciava che grazie a
Prodi “l’Italia sarà presente” nella nuova potenza mondiale,
il premier Wen scorrazzava per “l’Europa che conta” a firmare
contratti e fare business.Rispetto agli altri paesi europei “l’Italia è in ritardo”, ha
ammesso più volte il ministro per il Commercio internazionale,
Emma Bonino. A Nanchino, dove è presente con diversi
stabilimenti, il gruppo Fiat ha lanciato ambiziosi obiettivi
industriali. Ma per le strade della Cina le automobili
Fiat e i furgoni Iveco si contano sulle dita di una mano: le migliaia
di taxi di Canton, Pechino e Shangai sono Volkswagen
e Hyundai, mentre la nuova borghesia compra tedesco, americano
e coreano. “Non abbiamo Airbus”, ha spiegato Bonino,
per cui l’Italia punta sulla risorsa delle piccole e medie
imprese e cerca di diventare la “porta della Cina” per le
merci da esportare in Europa: cinquemila incontri organizzati
dall’Ice tra imprenditori italiani e cinesi e la promessa
di porti efficienti nella penisola. Ma tutta questa “insalatona
non serve a niente” – hanno lamentato al Foglio diversi
imprenditori – perché l’Ice “è troppo burocratica” e le pmi
preferiscono “fare da sé”. Quanto ai porti per accedere all’Europa,
gli enti locali italiani non riescono a superare i
pregiudizi sui metri cubi di cemento e gli investimenti cinesi
rischiano di essere dirottati verso Grecia e Spagna.
Quello che Prodi vende come “sistema paese” si è sfaldato
nel corso della sua prima importante missione extraeuropea.
Il presidente del Consiglio si è “auto-oscurato” con la
maldestra gestione politica e mediatica del caso Angelo Rovati,
che ha monopolizzato l’attenzione fino all’annuncio di
dimissioni a pochi istanti e a pochi metri dalla conferenza
stampa con il premier cinese. Domenica, Confindustria ha
disertato la cena d’onore all’ambasciata italiana di Pechino,
a causa di uno scontro tra il presidente, Luca Cordero di
Montezemolo, e i prodiani sull’insufficiente valorizzazione
della Fiat. Ieri, negli incontri con il premier Wen e il presidente
Hu Jintao, Prodi ha scelto di rifugiarsi nella politica
estera. Ha parlato “a lungo” di diritti umani, ottenendo “rassicurazioni”
di rito. Ha annunciato che “guarda con favore
all’abolizione dell’embargo sulle armi” imposto dopo Tienanmen
– con il resto della delegazione accigliata – ed è toccato
a Federico Rampini ricordargli che l’Europa ha cambiato
idea dopo la legge antisecessione con cui Pechino minaccia
di attaccare Taiwan. “Sui problemi che riguardano
l’umanità, la Cina non può non assumersi le proprie responsabilità”,
ha spiegato Prodi, salvo scordarsi il dossier dei
missili della Corea del nord, su cui non ha “notato fatti nuovi”.
Del nucleare iraniano si è accennato perché “non è che
si possa pensare di parlare di medio oriente senza parlare
di Iran”. I cinesi “hanno ribadito la loro tradizionale posizione”
contro le sanzioni, ieri rafforzata dalle parole del presidente
francese, Jacques Chirac, che ha chiesto di non fare
pressioni sul Consiglio di sicurezza – come sta facendo Washington
– mentre sono in corso le negoziazioni.