Ali Shari'ati (1933-1977).
Nato in una famiglia religiosa, Shari'ati va a studiare a Parigi, dove entra in contatto con i combattenti per la resistenza algerina. Farà quindi entrare nel corpus sciita tutti gli ideali che scopre tra gli intellettuali di sinistrae irivoluzionari del terzo mondo, da Sartre a Guevara e Franz Fanon. Per qusto propone una rilettura della dottrina religiosa, contendendone l'interpretazione ad un clero da lui definito reazionario. Uno degli assi dottrinali dell'islam sciita è la commemorazione del martirio dell'imam Husseun,figlio di Alì, quarto califfo dell'islam e nipote del Profeta. Egli fu sconfitto e messo a morte a Kerbala nel 680 dalle truppe del califfo sunnita di Damasco, che gli sciiti, sostenitori della famiglia di Alì, consideravano un usurpatore. Tradizionalmente questa cerimonia è l'occasione per esprimere quello che viene definito "dolorismo" sciita: i fedeli compiono riti di flagellazione, piangono disperatamente evocando il martirio di Hussein e della sua famiglia e si rimproverano per non essere acorsi in suo aiuto.
Per tutta la Storia, il clero ha assunto questa cerimonia a smbolo del rifiuto del mondo, in particolare del potere e della politica, ritenuti malvagi e spregevoli. Tanto più che, secondo la maggioranza degli sciiti, il dodicesimo imama, discendente di Alì, Mohammed alMahdi, è scomparso nell'874, e ritornerà solo alla fine dei tempi. Durante il suo "occultamento", il mondo è stato avvolto dalle tenebre e dall'ingiustizia, e ritroverà la luce e l'equità solo al momento del ritorno del "messia". Sulpiano politico, tale interpretazione ha avuto come conseguenza un atteggiamento quietista: i fedeli considerano il potere iniquo, ma esprimono una condanna di facciata, la cosiddetta taqiyya,senza ribellarsi apertamente.Seguono invece con ardore e devozione i religiosi, organizzati in maniera gerarchica dietro i grandi esegeti dei Testi sacri, la cui indipendenza è garantita dalla zakat, l'obolo legale, versato direttamente dai fedeli.
E' contro questo equilibrio politico-religioso di stampo millenarista, cadenzato dai lutti e dalle celebrazioni del martirio degli imam e contro la sua accettazione di un potere iniquo sulla terra in attesa di ricompense nell'aldilà e del ritorno di Mahdi, che si scaglia Shari'ati. Ma mentre i suoi amici marxisti-leninisti avrebbero respinto tutto il sistema bollandolo come oppio dei popoli, lui riserva le sue critiche solo al "clero reazionario", rispetto al quale rivendica un'interpretazione autentica della dottrina sciita, che non doveva ridursi a flegellazioni, quietismo e attese messianiche, ma doveva predicare la continuazione della lotta di Alì e di Hussein contro il potere ingiusto. Non era più il caso di piangere la loro sorte: bisognava seguire il loro esempio e, come essi si erano battuti contro i monarchi sunniti usurpatori, prendere le armi contro il sovrano iniquo del momento, lo scià. La sua strategia ricorda quella di Qutb, che incitava i suoi discepoli ad abbattere lo stato empio e riproporre le gesta del Profeta, trionfatore sugli idolatri della Mecca. In entrambi i casi, si predica un ritorno al "messaggio fondamentale" della religione.
A differenza di Qutb, il cui lessico deriva essenzialmente dalla dottrina islamica, Shari'ati lascia trasparire nei suoi scriti e nei suoi discorsi l'influenza del marxismo, e in particolare della teoria della lotta di classe. Non esita a sostituire la formula usata tradizionalmente da ogni buon musulmano all'inizio di un discorso:"in nome di Dio clemente e misericordioso" con quella , considerata blasfema negli ambienti tradizionalisti, "In nome del Dio dei diseredati". Inolre in occasione della sua traduzione in persiano dei Dannati della Terra di Frantz Fanon, utilizza, per rendere l'opposizione tra "oppressi" e "oppressori", i termini coranici mostadafine (indeboliti o diseredati) e mostakbirine (arroganti), trasponendo in tal modo la teoria della lotta di classe nel lessico islamico e dandole un posto centrale che normalmente non avrebbe nell'insegnamento della dottrina religiosa.
L'atteggiamento di Shari'ati è dettato dalla fede (egli era sinceramente e profondamente credente), ma anche dal calcolo politico; secondo lui, se i movimenti progressisti, generalmente atei, non sono riuscii a mobilitare le masse e a prendere il potere nel mondo musulmano degli anni 1960-70, è stato a causa della loro distanza dalla cultura delle popolazioni con cui volevano entrare in contatto, il cui universo era definito da categorie di pensiero impregnate di religione.
La fortuna del pensiero di Shari'ati fu postuma alla sua morte avvenuta in esilio a Londra, fortuna che si concretizzò in diverse riedizioni dei suoi scritti dopo la rivoluzione del 1979. L'influsso che Shari'ati e la sua dottrina ebbero su Khomeini è indubbio; le sue idee, o meglio larga parte di esse, furono riprese dall'ayatollah Khomeini che le inserì nel corpus della tradizione islamica iraniana sciita. Durante i giorni della rivoluzione per le strade di Teheran la gente scendeva per le strade con ritratti di Khomeini ma anche con ritratti di Shari'ati.
Allo stesso tempo alle idee rivoluzionarie di Shari'ati si inspirarono i fedayn del popolo, il movimento terzomondista e guevarista che durante gli anni precedente la rivoluzione cercò la propria strada alla liberazione dell'Iran dallo Scià.
A luta continua