DOPO LE PAROLE DEL CAPO, IL DIFFICILE SALTO GENERAZIONALE TRA I DIRIGENTI
«Io comincio a essere non più giovane ma sarò sempre con voi. Non sono andato al Monviso perché ho voluto che andassero i nostri ragazzi»
19/9/2006
di Marco Castelnuovo
Umberto Bossi
CHE Bossi lasci non ci crede nessuno. Che possa fare però un passo indietro nella gestione ordinaria del partito riservandosi il ruolo di grande padre è possibile. Domenica a Venezia l’ha quasi ammesso: «Comincio a essere non più giovane, ma sarò sempre con voi, fino alla fine. Non sono andato fin su alle foci del Po perchè ho voluto che ci andassero i nostri ragazzi. Dal prossimo anno dovremo portarci anche i nostri figli». È un’idea questa che ciclicamente ritorna nella testa del senatur.
Già in campagna elettorale aveva annunciato «che tra tre o quattro anni saranno maturati i tempi per tornare a fare il vecchio saggio» e allora verrà scelto il successore. La strada sembra già segnata. Il «grande capo» ha individuato due delfini (Giorgetti e Reguzzoni) che hanno due caratteristiche in comune: sono entrambi varesini e hanno meno di quarant’anni. La questione anagrafica è molto importante per il movimento. Al di là dei cosiddetti colonnelli che dai giorni immediatamente dopo la malattia di Bossi hanno cominciato una guerra sotterranea per la leadership del partito, crescono in tutte le regioni nuove leve.
Non è escluso, e l’ha fatto balenare con la dichiarazione in favore di Giorgetti e Reguzzoni, che quando arriverà il momento, la spada di Bossi possa posarsi sulla spalla di uno di questi quarantenni, scavalcando di fatto i vari Maroni, Calderoli o Castelli. Matteo Reguzzoni e Giancarlo Giorgetti sono ovviamente in pole. Il primo è il presidente della provincia di Varese, «uno con la dote del comando», dice Bossi. È un ingegnere di 35 anni molto freddo. Da quando il capo lo ha messo tra i papabili, è diventato ancora più accorto. Sempre controllato, non rilascia interviste e si fa vedere poco in giro. Si sa, Bossi dà e Bossi toglie. Basta una parola fuori posto per bruciarsi la carriera. Giancarlo Giorgetti è «il più bravo tra tutti noi», dicono alla Camera.
Rispettato più che amato dalla base, è un commercialista di Busto Arsizio ex presidente della commissione Bilancio alla Camera. Compirà quarant’anni a dicembre e ha una passione smodata per l’Inghilterra. Un atteggiamento british che riflette in politica e nel tifo per la squadra del cuore, il Southampton. Sembra ci sia lui anche dietro alla pubblicazione su «La Padania» del programma del nuovo leader tory David Cameron. Sia Reguzzoni sia Giorgetti sono varesotti, la più forte «lobby etnica» della Lega. Pur prendendo i voti nelle valli bergamasche, è dalle parti di Varese che nascono i capi del partito. Bossi ovviamente, ma anche Maroni e Speroni, tanto per citarne alcuni.
È uno dei motivi di più alta frizione all’interno del Carroccio. Tutti i posti che contano all’interno del partito sono appannaggio dei lombardi. E il nervosismo cresce sia in Veneto che in Piemonte. Con sviluppi diversi però. In Piemonte la classe dirigente non è particolarmente numerosa. Il segretario nazionale del Piemonte (nella Lega le regioni sono nazioni) è Roberto Cota, un avvocato penalista già sottosegretario alle attività produttive. Ha 38 anni ed è in piena sintonia con Calderoli. Sa essere sia un uomo di governo sia di lotta. Per questo piace alla base, anche fuori dal Piemonte. In Veneto invece la questione è più delicata. Non esistono veri leader nazionali. I tumulti di questi ultimi giorni sono dovuti proprio a una mancanza di leadership. Il salto generazionale viene compensato da «piccoli senatur che crescono»
tra cui Luca Zaia e Federico Bricolo. Il primo è vicepresidente del Veneto, ha trentotto anni e fin dai primi passi nella Lega studia per un incarico di rilievo. Sempre in giacca e cravatta anche nelle occasioni più casual, cioè quando Calderoli si presenta in camicia verde e shorts, Zaia ha già amministrato la provincia di Treviso ed è l’unico ad ammettere qualche colpa per i magri risultati degli ultimi anni. «Ci mancano i voti, con il 3,9% non andiamo da nessuna parte. Il primo nemico del Nord è il Nord», ha detto a Venezia.
Il suo amico Federico Bricolo è un veronese alla prima esperienza in Parlamento. Un quarantenne stimato nel Nord Est e che, ammettono pure i lombardi, farà strada. Ma c’è anche parte della Lombardia nella quale non ci si rassegna alla leadership varesina. A Milano è nato e cresciuto il più famoso dei giovani leghisti. Matteo Salvini ha 33 anni, ed è già europarlamentare. Frequenta molti salotti televisivi, è stato capogruppo in Comune a Milano, tiene un filo diretto con gli ascoltatori dalle frequenze di Radio Padania Libera, di cui è stato direttore.
Divenne un «personaggio» quando, nel 1999, in piena fase secessionista si rifiutò di stringere la mano a Carlo Azeglio Ciampi: «No grazie, dottore, lei non mi rappresenta» disse all’allora presidente della Repubblica mentre questi gli tendeva la mano. E anche in Emilia crescono potenziali leader. Anzi, forse vista la difficoltà del territorio, ogni sforzo viene premiato in misura maggiore. È emiliano il Presidente Federale, Angelo Alessandri. Per spiegare la sua carica dice: «Io sto alla Lega come D’Alema ai Ds». Forse il paragone è esagerato ma questo tretasettenne non si ferma certo al Po. È recentissima la sua spedizione a Lampedusa insieme al comitato anti-sbarchi di clandestini. Chissà se si sta portando avanti in vista di un futuro da segretario nazionale. Federale, pardon.