Lasciate stare l'opinione di Andreotti che fa davvero pena le analisi di Crociani Cardini e Negri sono molto interessanti!

Meeting per l'amicizia dei Popoli di Rimini, 2000

Scritti politici. Studio sulla sovranità
Presentazione del libro di Joseph De Maistre (ed. Cantagalli)
Martedì 22, ore 20.00
Relatori:
Lamberto CROCIANI,
dell’Ordine dei Servi di Maria
Franco CARDINI,
Docente di Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Firenze
Luigi NEGRI,
Docente di Antropologia Teologica presso l’Università Cattolica
Sacro Cuore di Milano
Giulio ANDREOTTI,
Senatore della Repubblica

Crociani:

Le due opere che stasera presentiamo ci permettono di conoscere pienamente un uomo del settecento che
ha vissuto tutti gli eventi tragici del secolo e che ha vissuto poi, dopo la rivoluzione, il tempo della restaurazione;
questo, sempre di più, pesa all’interno della sua produzione letteraria.
Quello che mi ha colpito profondamente – pur non essendo uno studioso di politica – degli scritti di De Maistre è
anzitutto la sua visione dell’ecclesiologia: la sua teologia ecclesiologica è tipicamente una visione secondo la tradizione
cattolica, ma che risente anche tipicamente del momento rivoluzionario e postrivoluzionario, quindi delle pesanti
posizioni che i rivoluzionari dopo l’età napoleonica hanno assunto contro la Chiesa cattolica, di cui De Maistre è un
grande estimatore. Il secondo aspetto che mi ha colpito è l’aspetto missionologico, che in questo autore va anche al di là
di quelle che erano le posizioni della stessa missionologia: nell’aspetto missionologico infatti De Maistre divide in
modo molto netto i buoni e i cattivi. I buoni sono i missionari, i quali vanno a portare ai figli del diavolo il verbo di
verità e che non sono accolti.
Riproporre un pensiero come quello di De Maistre credo sia importante dal punto di vista storico, perché ci porta a
chiederci se la sua posizione ecclesiologica o missionologica possono ancora essere accettate.

Cardini:
Il contenuto di questo libro sono due testi di De Maistre, due della sua enorme produzione, raccolta in
quattordici volumi: i due testi sono il saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle istituzioni
umane e lo studio sulla sovranità. De Maistre è un curioso personaggio, un figlio direi classico, da manuale, della
cultura settecentesca; non bisogna dimenticare la sua lunga militanza in un gruppo massonico martinista; nei suoi testi
appaiono infatti riferimenti anche alla tradizione massonica, aperta a letture gnostico-esoteriche del cristianesimo. De
Maistre è dunque suscettibile di una lettura integralmente settecentesca: è un uomo del giusnaturalismo cattolico, e
ritiene che esista una legge naturale e che questa legge naturale coincida con la tradizione della Chiesa. Egli ritiene
altresì che tutte le tradizioni religiose, per il fatto di esser tali, contengano una parte, un frammento di un discorso
universale che scende dall’alto e che è di per sé vero. Per De Maistre tutte le religioni in un certo senso sono autentiche,
mantengono una scintilla della verità divina: in questo De Maistre si avvicina anche ai grandi autori cristiani e non solo
ai mistici: un discorso di questo genere infatti è un discorso che i mistici e non solo i cristiani, ma anche gli ebrei, i
mussulmani ed altri ancora hanno sviluppato. De Maistre si avvicina coscientemente ad autori quali Nicola Di Cusa o
Erasmo da Rotterdam.
L’altro aspetto rilevante della sua produzione è la visione assolutamente realistica, disincantata, sperimentale, in lui
che non era certo un amante della filosofia sperimentale classicamente intesa: De Maistre è un cultore dello
sperimentalismo politico e della politica come sperimentazione, ritiene che all’interno della storia non esista un senso
immanente alla storia, esiste certo un senso trascendente. Non esistono delle leggi che siano inscritte nella storia e che
un buon politico debba conoscere: quando si agisce in politica il punto fermo deve essere semplicemente la coscienza di
una tradizione che viene dall’alto, che è stata data pietosamente all’uomo. L’uomo – e in ciò De Maistre si differenzia
profondamente da Rousseau – non può essere buono per sua natura, perché la sua natura è corrotta fin dall’inizio; da qui
nasce tutta un’antropologia, un’antropologia che prende in considerazione, per esempio, il mito del buon selvaggio
ribaltandolo, perché nessun uomo è buono per natura. Il razionalismo e la visione disincantata della natura umana in De
Maistre raggiungono una precisione, a volte, anche dura, amara e freddamente chirurgica.
De Maistre riesce a colpire nel segno l’elemento che scandalizzava Pascal e Giansenio, che invece non
scandalizzava affatto i padri della Compagnia di Gesù: la natura corrotta dell’uomo dopo il peccato originale e quindi
l’impossibilità di migliorarlo attraverso le stesse leggi che non servono tanto a migliorarlo quanto a contenerlo, a
mantenerne la natura entro un certo alveo. In questo De Maistre è di gran lunga più pessimista di Tommaso D’Aquino.
Tommaso infatti sottolinea che la virtù è un habitus, e quindi che l’uomo pur essendo corrotto dal peccato originale si
può abituare alle virtù. De Maistre in questo è più vicino a Thomas Hobbes, che non a Tommaso D’Aquino, perché non
crede troppo al fatto che la virtù possa diventare un habitus, e sa che l’uomo così com’è caduto si può rialzare. Il ruolo
del politico, in questo senso è il ruolo di colui che deve guidare gli altri, i governati, verso il bene, verso la felicità,
verso una salute che è anche la salus, in senso metafisico e non soltanto la salvezza o la felicità sul piano politico.
In questo senso De Maistre riprende argomenti che alcuni secoli prima di lui erano stati sviluppati da Dante nel
trattato politico sulla monarchia, che non a caso, insieme a Marsilio da Padova è una delle fonti del trattato demestriano
sulla sovranità.
Vorrei infine segnalare un ultimo aspetto di De Maistre e dei suoi scritti: l’importanza e la necessità di riascoltare
una voce del genere, oggi, in tempi di grande disorientamento e non solo dal punto di vista politico; De Maistre stesso
parla molto del disorientamento politico del suo tempo, il tempo in cui l’Europa è sembrata attaccarsi al dittatore
militare uscito dai fumi della rivoluzione francese, per vedere poi cadere anche quella speranza. In quella sorta di
deserto che si è fatto con la caduta di Napoleone De Maistre ha cercato disperatamente di raccogliere le fronde sparse
dell’Europa e di ripensare a chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Il disorientamento politico del primo ottocento
ricorda molto il disorientamento morale e scientifico-tecnologico dei giorni nostri. De Maistre stesso è passato
attraverso un momento di disorientamento analogo forse al nostro, quel disorientamento che noi abbiamo ad esempio di
fronte ai grandi problemi della genetica, della possibile morte del pianeta, della struttura dell’universo… De Maistre ha
avuto il medesimo disorientamento, proprio davanti alla domanda su come gli uomini devono aggregarsi, sulla base di
quale principio. In questo senso, sulla domanda circa la possibilità di fondare un ordine pubblico che sia il risultato di
una convergenza di volontà, oppure di fondare un ordine politico che sia il risultato della somma dell’eredità culturale e
nazionale e tradizionale dei popoli, c’è una linea sulla quale il primo Ottocento si è scontrato, come anche il Novecento
e come anche il ventunesimo secolo continua a scontrarsi.

Negri:
La preoccupazione di questo mio breve intervento, come del resto delle pagine di presentazione al testo, è
quella di individuare i suggerimenti che vengono da questa opera a noi uomini del ventunesimo secolo che leggiamo De
Maistre.
De Maistre – ed è la prima di tre osservazioni – certamente ha colto nel segno la natura totalitaria del potere
moderno e contemporaneo, ha visto con chiarezza che il potere ha sostituito la verità: la modernità nasce nella
dimenticanza della verità, come tensione al vero, al bene, al bello, al giusto, come tensione all’alterità e sostituisce a
questo la capacità di conoscere e di organizzare i dati della realtà. È assolutamente evidente, allora, che il potere sociale,
cioè la capacità di conoscere e di organizzare la dimensione sociale della vita diventerà il potere tout court. Il potere è il
potere politico, il potere è il potere di questa realtà sociale conosciuta scientificamente ed organizzata tecnologicamente,
cioè lo Stato. De Maistre ha visto chiaro che la modernità tendeva a costituire un totalitarismo di Stato in cui lo Stato è
il soggetto unico e definitivo della realtà perché la conosce adeguatamente e la realizza, ne realizza una conoscenza e
un’organizzazione scientifico-tecnologica. Oltre il potere non c’è niente, oltre lo Stato non c’è niente, tutto è nello Stato,
con lo Stato, per lo Stato, niente è fuori dello Stato. Il problema quindi non è la fondazione del potere perché il potere
non ha nessun bisogno di fondazione, il potere è autoimmanente ed è autoreferente, semmai il problema è individuare le
procedure più corrette: la grande differenza non è fra giusnaturalismo e assolutismo, perché la base di entrambi è
totalitaria; le due scuole modificano soltanto le procedure, le divisioni dei poteri, ma non mettono in discussione che il
fatto del potere è la radice del potere. E infatti la frase che la base del potere è la sua fattualità è una delle ottanta
proposizioni condannate da Pio IX nel Sillabo, che per l’aspetto dell’antitotalitarismo è certamente uno dei documenti
più profetici del secolo scorso.
Il potere è tutto: lo Stato in quanto detiene il potere sociale, cioè il potere di conoscenza e di organizzazione della
vita sociale, costituisce il punto di riferimento ultimo e definitivo della vita, sia personale che sociale. La polemica
contro la rivoluzione francese nelle sue premesse e nel suo sviluppo certamente assegna a De Maistre questa capacità di
leggere in profondità e per certi aspetti in modo profetico il movimento totalitario della modernità e di parte della
contemporaneità, la quale non ha assicurato il potere dell’uomo sulla realtà ma ha assicurato solo il potere dell’uomo
sull’uomo o il potere di gruppi di uomini e di gruppi di ideologie sulla realtà della vita sociale.
La seconda osservazione è lo spunto che mi è sembrato più suggestivo, anche se è il più complesso come
interpretazione. Non è su di sé che il potere si fonda, ma il potere si fonda in rapporto alla totalità dell’uomo. Il potere
deve essere fondato sulla totalità della vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue dimensioni. Qui c’è quella
intuizione che a me è sembrata assolutamente nuova: il potere si fonda sulla religione. Il potere si fonda su quella
esperienza fondamentale di pietas che è insieme pietas verso il mistero di Dio ed è insieme pietas nei confronti degli
altri uomini. È lì il punto di riferimento, il punto di raccordo. La verità della struttura politica non è in sé, ma la struttura
politica deve farsi in qualche modo giudicare. Qui il discorso si stempera. De Maistre in quel contesto non richiama la
necessità di una fondazione religiosa nel senso teologico o tradizionale della parola, ma apre il discorso a quella verità
del senso religioso come fondamento della libertà, fondamento della coscienza personale e quindi come quella realtà
con cui lo Stato non può sentirsi padrone, quello Stato che deve piegare la sua testa di fronte alla legge di Dio come di
fronte alla legge della coscienza personale, perché lo Stato non è tutto. Lo Stato è solo l’insieme delle condizioni per
organizzare una vita sociale che non esprime in maniera esauriente la personalità, ma mette soltanto le condizioni per la
sua espressione socio-politica. Questa sottolineatura è profondamente attuale: se si deve costruire una vita sociale che
non sia soltanto il confronto e lo scontro di procedure nell’esercizio del potere, ma che sia invece una base in cui le
varie tradizioni convivano, occorrerà andare a dialogare, a costringere le forme di esercizio del potere a misurarsi tutte
su quella – metafisicamente – natura umana, esigenza di senso e significato e di verità che De Maistre ha racchiuso
nella parola religione.
E da ultimo mi pare importante sottolineare che l’antitotalitarismo è stato certamente gestito da alcune grandi
personalità, ma è stato innanzitutto gestito dal magistero sociale della Chiesa. Pio IX nel 1864 mette nella proposizione
39 del Sillabo un’affermazione agghiacciante del potere statale, quella definizione di cui abbiamo fatto esperienza in
questo secolo e mezzo: “Lo Stato come fonte autonoma di tutti i diritti, gode di un diritto che non conosce confini”. Il
magistero sociale della Chiesa, non alla fine della vicenda moderna contemporanea ma all’inizio, in qualche modo
anticipando le versioni totalitarie che avrebbe avuto, ha messo in guardia cristiani e non solo cristiani da questo
decadimento della vita socio-politica che avrebbe significato la fine della libertà di coscienza, della libertà personale,
della libertà religiosa, della costruttività della vita sociale che esige, per essere salvaguardata, l’attiva promozione del
principio di sussidiarietà.
Alla fine di questo lungo cammino e senza nessuna contraddizione, il Concilio ecumenico Vaticano II nella
Gaudium et spes dirà: “Una società senza Dio, una società senza riferimenti religiosi è una società in cui l’uomo rischia
ogni giorno di essere trattato come particella di materia, come cittadino anonimo della città umana”. In questo senso c’è
una parentela fra De Maistre e la vita di base del popolo cristiano, così come è stata sempre autenticamente siglata dal
magistero supremo della Chiesa; è una parentela che deve essere ancora chiarita, perché forse sul concetto di religione
De Maistre rischia di essere più massonico che non cattolico, ma in questa battaglia contro il totalitarismo, De Maistre
si può tranquillamente ascrivere a quel filone antitotalitario che la Chiesa cattolica ha sostenuto coerentemente, pagando
il prezzo che ha pagato con il secolo dei martiri.

Andreotti:
La mia impressione leggendo questo libro è che senza dubbio si tratti di un grande personaggio, una
mente cospicua, di un uomo di letture, ma mi sembra che risenta all’origine di una caratteristica. Ognuno di noi forse ha
nella propria formazione l’influsso delle scuole che ha seguito. De Maistre è allievo a Sainte Marie dei gesuiti, in un
momento in cui i gesuiti erano particolarmente “turbolenti”, con alcune posizioni che portarono il Papa a sciogliere
l’ordine. La sua formazione risente di un certo dogmatismo gesuitico, una specie di certezza, anche se utilizza questo
dogmatismo per un alto scopo, per enunciare la dottrina cristiana. A questa formazione si aggiunge il suo periodo di
militanza massonica attiva: diventa un massone convinto e infatti arriva a ipotizzare “la possibile unione di tutte le
Chiese in un cristianesimo finalmente purificato dagli errori e dagli orrori della storia, nonché dalle superfetazioni
teologiche, giuridiche e disciplinari”. Un’affermazione del genere indubbiamente non è accettabile come tale, che se noi
accettassimo questa specie di indifferentismo, di una sorta di amalgama ottenuto con una quota di massoneria, una
quota di protestantesimo e una quota di cristianesimo, ne verrebbe fuori un modello inutilizzabile.
Come prima è stato detto molto bene, la dipendenza da Dio è il cardine sul quale De Maistre fonda il potere, con
un’immagine molto bella perché dice che se l’uomo ritiene di essere lui a creare, è come se la cazzuola si ritenesse
architetto.
Per quanto poi riguarda il concetto di sovranità, egli afferma che ogni specie di sovranità è per sua natura assoluta.
Un potere assoluto che potrà fare il male impunemente: questo concetto è pericoloso, bisogna metterlo nel giusto
contesto, come anche la divisione del potere che viene fortemente criticata. Un capitolo molto interessante è quello che
parla separatamente della monarchia, della aristocrazia, della democrazia, analizzando forme di potere con alcune frasi
che in realtà sono molto discutibili.
L’oggetto fisso di polemiche è Rousseau, concettualmente ma anche in modo spiritoso: “In tutta la vita Rousseau
non ha potuto perdonare a Dio di non averlo fatto nascere nobile e duca. Ha mostrato gran collera contro un governo
che non vive che di distinzioni: il momento soprattutto della successione ereditaria che espone i popoli al rischio di
darsi per capo bambini o mostri imbecilli per evitare l’inconveniente di litigare sulla scelta di buoni re. Non vogliamo
più rispondere a questa obiezione da cameriera”.
Nel capitolo che riguarda la aristocrazia, De Maistre sostiene che il governo aristocratico è una monarchia in cui il
regno è vacante, la sovranità sussiste come reggenza: ritorna anche qui l’idea del dominus, del monarca. La democrazia
non è altro che una aristocrazia soltanto elettiva.
Un’ultima considerazione che vorrei fare riguarda una questione di attualità. Come è la situazione in cui si pone De
Maistre e tutto un filone di scuola di questo tipo? È un filone piuttosto difensivo cattolico. Dinanzi all’urto della
rivoluzione, questo urto frontale per cui tutto viene messo in discussione, i cattolici si difendono; anche il citato Sillabo
è un documento per certi versi difensivo … ho scritto un libretto che esce in questi giorni su Pio IX, fatto uscire apposta
perché è necessario difendere un poco la santità di Pio IX e non far confondere il Pio IX politico con il Pio IX religioso.
Mi sembra importante che proprio questo Papa beatifichi Pio IX perché sotto alcuni aspetti, alcune delle frasi del
Sillabo metterebbero in una discussione di ortodossia, e si spiegano perché i cattolici avevano bisogno di una fase in cui
dovevano stare compatti, non avere rapporti con gli infedeli. In particolare, sulla questione di Mortara, il bambino ebreo
che Pio IX ha forzatamente convertito, c’era di fatto una norma che durava da secoli – non la fece Pio IX – per la quale
un bambino battezzato surrettiziamente, di famiglia ebrea, doveva essere preso e portato nel catecumenato e stare lì fino
a quattordici anni quando avrebbe dovuto scegliere. Nel caso specifico, quando questo bambino ha compiuto quattordici
anni ha scelto, e è diventato un ottimo sacerdote.
Giovanni Spadolini, che è stato presidente del Senato e presidente del Consiglio, ma anche uno studioso importante
del risorgimento, al quale dobbiamo anche alcune pagine che erano state volutamente tenute sotto silenzio dagli
anticlericali e dai clericali, parla di Pio IX in un suo articolo, con un titolo già di per sé abbastanza eloquente, “Lontano
dalla politica, vicino alla fede”. Così scrive: “C’è un fatto sul quale la storiografia cattolica non si è soffermata ancora
con l’attenzione che meritava e cioè che fra il 1860 e il 1870 Pio IX si dedica ad un’opera di restaurazione dottrinale di
tale intransigenza e di tale violenza da colpire e disorientare tutti i governi, anche i governi cattolici che favorivano la
Chiesa. Ma una Chiesa docile, duttile, servizievole verso lo Stato, inserita nel quadro del regime pronta a riconoscere e
a tutelarne gli interessi. Nella mente di Pio IX, uno dei Papi meno politici che la Chiesa abbia avuto nei tempi moderni,
nonostante i cliché del quarantotto e i canti della Rivoluzione sufficientemente smagati dalle ricerche recenti, la
preoccupazione religiosa prevaleva di gran lunga sulle considerazioni diplomatiche”. E ancora – ed è una di
grandissima attualità: “Poiché meravigliarsi del suo atteggiamento al momento di Porta Pia, rifiutandosi costantemente
di abbandonare Roma, come era accaduto nel quarantotto, di abbandonare Roma nonostante i consigli di prelati
influentissimi, Pio IX mostrava di comprendere che la causa del papato poteva essere salvaguardata soltanto sul piano
universalistico, sul piano della fede. Deluso da tutte le combinazioni diplomatiche, Papa Mastai non si volle più affidare
né all’Austria, né alla Germania, né alla Spagna per fare crociate politiche, rinnovando una santa alleanza e intravide
soltanto nelle masse cattoliche delle varie nazioni europee la vera base dell’unica santa alleanza che era ormai concessa
e feconda, alleanza della Chiesa con i popoli ben oltre quello che era l’ultima resistenza di Porta Pia”.
Ho voluto darvi questo elemento perché se sentite o leggete tutta una frase o una serie di frasi nei confronti di Pio
IX, queste non sono giuste. Ho visto oggi con grandissimo piacere la mostra che qui è stata fatta del risorgimento, con
spirito molto libero. Questo c’entra con il tema di oggi perché l’atteggiamento di una difesa coriacea del cattolicesimo
deve essere un atteggiamento che va inserito del quadro culturale del momento, va spiegato con quelle che erano le
interlocuzioni tra gli uomini importanti, intellettuali della stagione.