Un'interessante riflessione di Panebianco sugli scandali recenti, che trovo lucida per il modo in cui tende ad affrontare il problema della disonestà, slegandolo da criteri moralistici controproducenti, e cercando invece soluzioni di tipo più pragmatico, che ritengo siano validi al di là dell'etichetta "liberale" che egli tende ad affibbiarvi:


La malattia di un Paese
Riflessioni sul caso dello spionaggio
di
Angelo Panebianco



Più ancora che la quantità di dossier messa insieme da quella che, secondo l'accusa, era una centrale occulta di spionaggio coordinata dal responsabile della security Telecom, Giuliano Tavaroli, colpisce il «ventaglio sociale» delle operazioni spionistiche: imprenditori, banchieri, manager pubblici e privati, giornalisti, politici, persino uomini dello sport. Le vittime, per limitarci a qualche nome di spicco, vanno dal segretario dell' Udc, Lorenzo Cesa, all' ex assessore e collaboratore di Clemente Mastella, Regino Brachetti, al sottosegretario del governo Berlusconi, Aldo Brancher, all'ex presidente di Confindustria, Antonio D'Amato, a banchieri come Ubaldo Livolsi o Gianpiero Fiorani. Per quel che al momento par di capire, le ragioni per cui si poteva finire nel mirino di Tavaroli e delle sue spie private potevano essere le più varie: dalle «esigenze» aziendali ai favori agli amici. Ai tribunali spetterà di chiarire se, oltre alle intercettazioni e alle indagini illegali, siano stati commessi anche altri reati, e di quale natura, e stabilire le responsabilità penali.

Già nei primi commenti sono state evocate altre vicende che hanno segnato la storia italiana, dal caso Sifar alla P2, a Tangentopoli. Per ora, il poco che si può dire è che il caso dello «spionaggio Telecom» ha due facce, l'una più generale (si inscrive, cioè, in un trend che ha investito da tempo le democrazie occidentali) e l'altra italiana. Il problema generale riguarda l'attacco alla privacy (e la minaccia che ciò comporta per la libertà personale) condotto con tecnologie di controllo sempre più potenti. È il progresso tecnico a rendere ovunque obsolete le leggi di difesa della privacy prima ancora che l'inchiostro con cui vengono scritte si sia asciugato. È un problema che i padri fondatori della democrazia liberale nemmeno immaginavano e che mette in forse molte garanzie tutelate dalle costituzioni. Talché, da questo punto di vista, siamo costretti a riconoscere che la differenza fra i regimi autoritari e le democrazie non è che il «Grande fratello» sia all'opera nelle prime e non nelle seconde: la differenza è che nelle democrazie non c'è un solo Grande fratello ma molti, fra loro in competizione. Nelle democrazie, insomma, c'è «pluralismo » anche in materia di soprusi.

Ma se questa è una tendenza generale il caso dello spionaggio Telecom ha anche molto di italiano. Ogni vicenda ha le sue specificità, eppure qualcosa accomuna quest’ultimo affaire ad alcuni dei suoi famigerati precedenti. La P2 era il caso di una rete affaristico-criminale che teneva insieme uomini delle istituzioni, della politica, dell'economia. Tangentopoli fu la vicenda di uno scambio istituzionalizzato di tangenti e favori fra politica ed economia. Ciò che a sua volta colpisce del caso Telecom è la folta presenza, fra gli spiati, di politici e collaboratori di politici.
All'origine di ciascuna di queste vicende ci sono i patologici rapporti fra la politica e l'economia. All'epoca di Tangentopoli chi scrive si attirò molte critiche sostenendo che la questione, al di là delle inchieste giudiziarie, non andava trattata in sede politica con criteri moralistici, che era sciocco metterla sul piano degli «onesti» contro i «ladri», che affrontare il problema significava da un lato fare leggi non ipocrite sul finanziamento dei partiti e dall'altro operare per liberare l'economia dai suoi intrecci con lo Stato, ottenere che nascesse una vera economia di mercato il più possibile separata dalla politica.

E accettare che a quest'ultima spettassero solo i compiti di disegnare regole efficaci (al fine di favorire la competizione sui mercati) e di vegliare sul loro rispetto. Tengo ancora lo stesso punto. Ladifferenza fra la critica moralistica e la critica liberale è che mentre la prima non sa diagnosticare la malattia, col risultato di favorire spesso terapie sbagliate (come l'accrescimento del controllo statale sull'economia) preparando così le condizioni per altri futuri «scandali», la seconda fa una diagnosi corretta ma poi non ha la forza, per la nota fragilità della cultura liberale in Italia, di imporre le terapie che sa essere giuste. All'origine di quasi tutti i guai italiani sta una doppia debolezza: di imprenditori, spesso con le spalle finanziariamente deboli, che si sentono sotto schiaffo da parte dei politici e sono alla ricerca di protezioni, e di politici che sentendo fragile la propria legittimazione cercano di ricavare dalle imprese risorse che compensino il loro senso di precarietà.

Al fondo, c'è la debolezza dell'economia di mercato. E, per essa, la circostanza per cui i rapporti fra élites economiche ed élites politiche non sono mai stati, come accade in altri Paesi, di tipo semplicemente lobbistico, ferma restando l'esistenza di un confine sufficientemente chiaro fra politica ed economia. In Italia, la debolezza dell'economia di mercato ha invece fatto sì che politica ed economia vivessero, e tuttora vivano, intrecciate. Ne risulta una opacità delle relazioni politico- economiche che incentiva i comportamenti di cui devono poi occuparsi i tribunali. Durante la guerra fredda, l'Italia diceva di avere una economia di mercato ma era una finzione: eravamo, in larga misura, un caso di socialismo reale camuffato. Tollerato dalla comunità occidentale a causa della posizione di frontiera che l'Italia, anche per la presenza del partito comunista, occupava nello scacchiere strategico.

Finita la guerra fredda, è sembrato che ci si potesse liberare del vecchio statalismo e impostare su basi diverse le relazioni fra economia e politica. Non è stato così. Per un insieme di ragioni che gli economisti conoscono. E anche perché la politica ha rifiutato di emendarsi dei suoi vizi dirigisti. Occorrerebbe un doppio cambiamento. Della politica, che accetti di ritirarsi entro i confini che in una democrazia liberale dovrebbero essere suoi. E delle imprese che, operando bene sui mercati, si diano autonomamente delle spalle forti. Così forti da sottrarle ai ricatti e metterle in grado di rivolgersi alla politica per esigere buone regole più che per strappare favori. Da quel che si vede, la strada è ancora lunga.





24 settembre 2006, articolo tratto dal Corriere della Sera