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    Omia Patria si bella e perduta
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    Arrow Italia e declino economico

    Posto un articolo dell'economista Marcello de Cecco sul declino economico dell'Italia e sulle sue cause.
    Io ho anche l'articolo del 1980 citato, ma in formato pdf e quindi non posso postarlo. Se qualcuno lo vuole leggere, mi scriva pure.


    ALLE RADICI DEI PROBLEMI DELL'INDUSTRIA ITALIANA NEL SECONDO DOPOGUERRA
    di Marcello De Cecco, RIVISTA ITALIANA DEGLI ECONOMISTI/a. IX, Supplemento al n. 1/2004

    Non è facile immaginare come il nostro paese possa affrontare il prossimo decennio potendo contare in misura sempre minore sul sistema delle grandi imprese, che dovrebbero uscire dalla fase di esasperata concorrenza internazionale che ci attende con le ossa definitivamente rotte. Tale previsione si giustifica sulla base di una semplice estrapolazione degli avvenimenti dell'ultimo decennio. Il sistema delle grandi imprese non è servito a tappare i buchi alimentare e petrolifero della nostra bilancia commerciale. Ma, da qualche anno esso serve sempre di meno anche ad accrescere l'autosufficienza nei settori in cui è presente... Quello che preoccupa nella situazione che si prevede per le grandi imprese è la sempre maggiore inevitabilità di una «soluzione all'inglese». Si può infatti facilmente immaginare il giorno in cui diverrà insostenibile il costo delle grandi imprese, non giustificato né da vendite all'estero né dal soddisfacimento della domanda interna. La decisione di smobilitarle dovrà necessariamente prevalere. Si sarà allora disceso un ulteriore gradino nel degrado dell' economia italiana
    iniziato nel 1964, ma le cui premesse si possono collocare nell'immediato dopoguerra.
    Con l'indebolimento relativo del sistema delle grandi imprese, diviene inevitabile il progressivo abbandono di settori produttivi nei quali è intensa l'attività di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti. Solo le grandi imprese possono, in collaborazione con lo Stato, condurre attività di ricerca di base e di applicazione della medesima sotto forma di nuove tecnologie, su scala abbastanza larga da consentire a un paese di rimanere nella «prima serie» delle economie sviluppate.
    Una organizzazione maggiormente decentrata delle attività di ricerca e sviluppo è prevedibile, ma si può realizzare solo in paesi nei quali le infrastrutture scientifiche e le strutture produttive sono su livelli assai più elevati di quelli che il nostro paese ha raggiunto o raggiungerà nel futuro. Il sistema delle grandi imprese è, paradossalmente, la risposta dei paesi di recente industrializzazione alla sfida proveniente dai paesi a industrializzazione più antica. Esso costituisce una concentrazione di risorse reali, finanziarie e umane che ha permesso di percorrere più velocemente il sentiero dello sviluppo e di difendersi dalla concorrenza internazionale...
    L'Italia ha seguito questa «ricetta di sviluppo» nel primo secolo della sua vita unitaria. Poi, a partire dal 1964, ma
    seguendo le premesse dell'immediato dopoguerra il «sentiero» è stato abbandonato gradualmente, a favore di una diffusione della industrializzazione.. .
    Sembra veramente azzardato prevedere un arresto del processo di degrado della collocazione internazionale
    dell'economia italiana. Esso potrà verificarsi solo se saranno costruite condizioni di vitalità per il sistema delle grandi imprese. In caso contrario, il degrado continuerà e non servirà a nulla accorgersene, come sembrano fare le autorità italiane, quindici anni in ritardo.

    Nell'unanimismo generale e nella incapacità dialettica che caratterizzano la cultura italiana, le frasi sopra riportate suonano oggi viete. Quel che in esse si afferma da qualche tempo lo si legge su tutti i giornali. È divenuto la vulgata corrente della classe dirigente italiana.
    Le cose cambiano, tuttavia, quando si noti la data che le stesse frasi portano. Le ho scritte e pubblicate sulla rivista «Note Economiche» nel lontano 1980.
    Questo non vuol dire che io fossi a quel tempo dotato di facoltà profetiche. Vuol dire invece qualcosa di molto meno piacevole: nel 1980 era possibile, a me ma anche ai redattori della Relazione Annuale della Banca d'Italia, antivedere chiaramente le conseguenze che la crisi sociale, economica e politica italiana del 1963-64 e quella mondiale del 1973, avrebbero avuto sul. l'economia italiana nel medio periodo. Avendone trattato la prima volta in un articolo del 1970, accusavo addirittura le autorità monetarie italiane di essersene accorte solo nel 1980. Quelle politiche non ne avevano avuto nemmeno sentore. Ne hanno preso coscienza solo da un paio d'anni, con un ritardo di un trentennio.
    L'esperimento di modernizzazione industriale dell'Italia, iniziato dopo l'Unità, e condotta sempre «dall' alto», entrò in una impasse, che si trasformò in crisi irreversibile, a partire dal 1963, quando il miracolo economico si trasformò in esplosione salariale, questa in inflazione e crisi fiscale, culminando in una grande fuga di capitali italiani verso l'estero che indusse una crisi di bilancia dei pagamenti, una violenta restrizione creditizia e di spesa pubblica, e un crollo degli investimenti privati che si protrasse per un quinquennio.
    In quel quinquennio, mentre le altre economie sviluppate continuavano a investire nelle aree geografiche a maggior concentrazione industriale, la qualità degli investimenti italiani si deteriorò rapidamente. Ai privati che praticavano lo «sciopero degli investimenti» subentrarono le iniziative delle imprese pubbliche e dello stato, concentrate nella siderurgia e nella petrolchimica, e realizzate in aree del Mezzogiorno prive di contesto industriale. La spesa pubblica si dedicò alla creazione a tutti i costi di nuovi posti di lavoro, che l'industria privata aveva cessato di produrre.
    L'economia italiana conobbe un nuovo breve boom di investimenti in coincidenza con la grande inflazione causata in America dalla guerra del Vietnam e dalla realizzazione del programma di spesa pubblica della «Great Society» Johnsoniana, durò solo due anni alla fine degli anni Sessanta.
    Quando l'inflazione americana condusse alla svalutazione del dollaro e questa, insieme all' aumento
    enorme di importazioni di petrolio americane dal Golfo Persico, e alla guerra dello Yom Kippur, innescò il grande balzo dei prezzi del petrolio, l'intera esperienza di sviluppo post-bellico del nostro paese fu messa improvvisamente in dubbio. I settori nei quali gli italiani avevano concentrato più risorse, siderurgia, petrolchimica e meccanica automobilistica, si rivelarono incapaci di resistere vittoriosamente alla concorrenza scatenata dai grandi produttori mondiali nella nuova fase protezionistica instauratasi a causa della crisi del petrolio, quando anche i maggiori paesi tornarono a pratiche commerciali, difensive e offensive, che sembravano essere state abbandonate per sempre.
    Vennero così a fine ingloriosa i tentativi italiani di trovare un posto onorevole nei settori di punta dell'industria mondiale. I tempi erano cambiati e gli oligopoli mondiali dominanti non potevano accettare l'arrivo di un nuovo concorrente, mentre dovevano, per superiori esigenze di strategia politica, fare spazio al Giappone, l'alleato fedele degli Stati Uniti in Asia, un quadrante strategico in subbuglio nel quale serviva un paese simbolo, che si sviluppasse, almeno superficialmente secondo il modello capitalista, facendo da contraltare alla Cina comunista. In un periodo storico nel quale l'Europa cominciava a costituire una preoccupazione per l'economia americana, la crisi di un paese come l'Italia non aveva rilevanza strategica per gli Stati Uniti anzi, azzoppando l'Europa, poteva da essi considerarsi addirittura in luce positiva.
    Le conseguenze della crisi del petrolio furono dunque particolarmente pesanti per il nostro paese. La bolletta petrolifera e il peso degli aumenti dei prezzi delle altre materie prime aprirono una gigantesca falla in tutte le bilance dei pagamenti dei paesi industriali. Per chiuderla, si fece ricorso a tutti gli strumenti, in particolare a quello del cambio, che era restato quasi escluso fino all'Agosto 1971. Nel 1964 italiani e inglesi non lo usarono per uscire dalle loro difficoltà, mentre nel novembre 1967 la sterlina fu costretta a svalutare da una ventata speculativa che apparve a tutti come l'anteprima della svalutazione del Dollaro.
    La possibilità di svalutare la lira conferì alla classe dirigente italiana, dopo il 1973, uno strumento per dare una soluzione superficialmente indolore ai propri problemi economici, esplosi nella seconda metà degli anni Sessanta. Inflazione e svalutazione furono la via maestra scelta dall'Italia per continuare a crescere nelle condizioni difficili nelle quali si venne interrottamente a trovare l'economia mondiale dopo la crisi del petrolio. In tale contesto fiorì l'industrializzazione leggera, condotta «dal basso» da centinaia di migliaia di piccole imprese, sorte attorno a quelle grandi e successivamente anche in aree fino ad allora mai toccate dall'industrializzazione. Insieme agli indubbi vantaggi di questa nuova tipologia di sviluppo, in termini di crescita e occupazione, affiorarono ben presto problemi di mantenimento della qualità dello stesso sviluppo, che si resero evidenti appena si cercò di interrompere il circolo vizioso inflazione svalutazione. Le frasi che ho sopra riportato furono motivate dalla consapevolezza delle conseguenze che per il nuovo episodio di industrializzazione dal basso avrebbero avuto gli accordi di cambio tra paesi europei che portarono, a fine 1978, alla inaugurazione del Sistema monetario europeo. La fine delle svalutazioni competitive in Europa e la stabilità della Lira avrebbero necessariamente comportato, negli anni Ottanta, pesanti razionalizzazioni della grande industria italiana, che si trovava a combattere senza l'aiuto della Lira debole contro i maggiori produttori mondiali di beni intensivi di capitale e ricerca. Milioni di lavoratori delle grandi imprese furono messi in pensione in età ancor giovane e il peso di tale passaggio degli oneri del loro mantenimento dalle imprese alla comunità nazionale avrebbe contribuito pesantemente ad aggravare i conti pubblici, già appesantiti negli anni Settanta dal costo degli incentivi industriali, della politica dei lavori pubblici, della edificazione del Welfare State (sanità, scuola, trasporti, ecc.).
    Negli anni Settanta e ottanta l'ingresso di centinaia di migliaia di piccole imprese italiane nella competizione internazionale coincise invece con l'abbandono progressivo dei settori in cui operavano da parte dei grandi paesi europei come Francia, Germania, Inghilterra. Le condizioni concorrenziali che i nostri piccoli imprenditori dovevano affrontare erano quindi assai diverse da quelle che le grandi imprese italiane si trovarono a fronteggiare. Il cambio forte di Franco e Marco, infatti, riduceva la competitività delle imprese tedesche e francesi nei settori a bassa intensità di capitale e ricerca. Né esistevano in quei paesi incentivi giuridici e istituzionali per le imprese che le spingessero a restare piccole.
    Queste ragioni, tuttavia, se bastano forse a rendere conto del travolgente successo delle piccole imprese italiane in campo internazionale, non sono certamente sufficienti a spiegare la graduale ma inesorabile debacle delle grandi imprese nella stessa competizione. La lira era debole sia per Agnelli che per Benetton. Certo, la concorrenza di Volkswagen e Renault era più difficile da battere per la FIAT di quanto lo fosse quella che i piccoli imprenditori italiani avevano di fronte in settori produttivi che i grandi paesi europei stavano abbandonando e dove non ci si aspettava l'arrivo degli italiani, che in effetti si verificò, ma dei produttori di paesi in via di sviluppo, che potevano godere di costi di manodopera assai inferiori.
    Ai milioni di nuovi imprenditori italiani che in quei decenni si affermarono sui mercati mondiali per la loro intraprendenza produttiva e commerciale e specialmente per i bassi costi che la Lira debole permetteva non si offrivano altre alternative se non di farsi largo nei settori a bassa intensità di capitale e tecnologia lasciati progressivamente liberi dai paesi europei. Fu una grande e irripetibile opportunità ed essi seppero coglierla appieno.
    La grande industria italiana, e insieme ad essa tutta la dirigenza italiana, scelse invece una strategia opposta a quella degli altri paesi sviluppati. Il salto qualitativo nei settori di punta avevano provato a farlo negli anni Cinquanta e fino al 1963. Erano stati sconfitti e ricacciati indietro da una concorrenza spietata e dalla propria inadeguatezza ad affrontarla. Nei decenni successivi cambiarono radicalmente strategia. La grande impresa cercò dapprima di combattere sullo stesso terreno degli altri concorrenti mondiali, intensificando il contenuto tecnologico delle proprie produzioni, e talvolta anche dei propri prodotti. Si sostituirono macchine a lavoratori per far fronte all' aumento dei costi del lavoro, e da ciò nacque uno dei rari episodi di crescita tecnologica del dopoguerra, lo sviluppo del settore delle macchine utensili e dell' automazione.
    Successivamente si cambiò musica. Nella filiera automobilistica, in particolare, si cercò di razionalizzare la scelta delle macchine piccole, che era risultata vincente negli anni Cinquanta e Sessanta, facendone una specializzazione produttiva esportabile. La FIAT, che aveva vinto nella prima automobilizzazione italiana, cercò di esportare nei paesi in via di sviluppo quella sua esperienza, stabilendosi, dopo un primo successo in terra di Russia, in numerosi paesi emergenti, come il Brasile, Argentina, Turchia, Jugoslavia, mentre, in Europa, si arroccava nel mercato italiano, difendendo il suo quasi monopolio con tutti i mezzi. Non sembrò allora improbabile alla dirigenza italiana l'unicità della situazione del mercato automobilistico del nostro paese nel panorama europeo e mondiale. Alla FIAT fu permesso di restare sola a produrre in Italia, acquistando addirittura la Lancia e l'Alfa Romeo quando furono messe in vendita. Doveva sembrare una situazione malsana, ma nessuno parve accorgersene. Alla più importante filiera produttiva del paese, quindi, fu permesso di continuare la corsa su un binario che nessun altro nei paesi sviluppati stava percorrendo o aveva percorso in passato. Come per il caso della piccola impresa, si rivendicò la specialità italiana, si pretese che noi sapessimo fare a modo nostro, arrivando allo stesso traguardo degli altri paesi industriali europei.
    All'inizio degli anni Settanta ebbi modo di scrivere che questa strategia italiana era perdente. Alla fine del decennio questa mia opinione fu confortata da una indagine statistica della Banca d'Italia, che mise in rilievo come, in quindici anni, la struttura delle produzioni e delle esportazioni italiane si fosse modificata in modo abnorme rispetto a quella degli altri paesi europei. L'Italia aveva decisamente imboccato la via della industrializzazione leggera, a basso contenuto di capitale e tecnologia, abbandonata dagli altri grandi europei e delle microstrutture industriali, anch'esse in progressivo regresso nel resto d'Europa.
    Non bisogna trascurare, nel verdetto che si deve pronunciare sul comportamento della dirigenza italiana, l'elemento importantissimo del disordine sociale che negli anni Settanta e Ottanta ha attanagliato l'Italia in una morsa di ferro e sangue e reso assai più problematica che altrove la sopravvivenza di una struttura esposta in prima linea come la grande impresa. Forse qualche storico di grande acume e buona volontà potrà in futuro spiegarci le ragioni di tale stato semi-insurrezionale, di nuovo unico tra i grandi paesi europei per intensità e durata. Fu in quel clima che i grandi imprenditori italiani decisero di adottare la strategia di minimizzazione delle perdite e di graduale disimpegno che hanno seguito nel successivo ventennio.
    La pressione della concorrenza prima solo giapponese e poi, negli anni Novanta, anche delle Tigri Asiatiche, li ha ulteriormente confermati in tale decisione, costringendoli anche a tentare di entrare in settori protetti dalla minaccia asiatica, come l'elettricità, le telecomunicazioni e la fornitura di altri servizi essenziali, sostituendosi alle imprese di stato che tali settori avevano, con grande dispendio di risorse pubbliche, edificato e portato a livelli di efficienza europei, dopo averli salvati dalla debacle privata degli anni Trenta.
    Di nuovo vale la pena guardare alla maggiore impresa italiana. La FIAT, come si è già detto, trovandosi a beneficiare più di ogni altra impresa dell' effetto ricchezza che il rientro dall'inflazione nella seconda metà degli anni Ottanta indusse nei consumatori italiani, si guardò bene dall'impegnare i propri capitali in una strategia di penetrazione sistematica degli altri mercati europei. Realizzò nuovi impianti solo a costo zero nel Mezzogiorno d'Italia e in altre aree dove poteva beneficiare di poderosi incentivi statali. A partire dai primi anni Novanta, poi, la FIAT ha esasperato ulteriormente tale politica di disimpegno, limitandosi a sfruttare al massimo la svalutazione della Lira senza cercare di aumentare le proprie quote del mercato italiano, anzi perdendo consapevolmente addirittura il 30% di esso in un decennio mediante l'aumento dei prezzi. Da quando, in ultimo, si è profilata la concreta possibilità di una moneta unica europea, è stato assunto un CEO che tentasse di replicare la strategia condotta da Jack Welch alla General Electric, modificata però per permettere alla FIAT di uscire in pochi anni completamente dal mercato dell' auto, vendendo alla General Motors, mentre diversificava in altri settori con una grande campagna di acquisizioni di imprese. Ne sono sortiti i risultati che oggi tutti conosciamo, ma non ci pare che gli azionisti di riferimento abbiano sofferto eccessive perdite finanziarie private.
    Purtroppo, dunque, le previsioni che, sulla base delle mie ricerche e dieci anni dopo con il conforto delle analisi statistiche della Banca d'Italia, avevo potuto fare sulla fragilità del sistema industriale italiano e in particolare sul declino della grande impresa in Italia, si sono puntualmente avverate.
    Quel che però è altresì intervenuto a rendere la situazione più grave è la escalation del debito pubblico, che trae le sue origini oltre che da politiche di Keynesismo bastardo (definizione che dobbiamo a Joan Robinson) e di Keynesismo delinquenziale (definizione alternativa di tangentopoli della quale rivendico la paternità), condotte per far fronte alla crisi degli anni Settanta e che caratterizzarono gli anni Ottanta, da una decisione molto grave (il divorzio del Tesoro dalla Banca d'Italia) assunta dalle autorità italìane nel 1981, e da una coincidente decisione da parte di Paul Volcker, presidente della Federal Reserve, di rompere la schiena alla grande inflazione americana con una politica di restrizione monetaria selvaggia che fece saltare fino a livelli inauditi i tassi di interesse mondiali a partire dal 1982.
    Sulle motivazioni che indussero due persone prudenti come Ciampi e Andreatta a realizzare un epocale divorzio tra Tesoro e banca centrale, ho scritto nel 1982 un articolo su «Note Economiche» suggerendo che esse fossero da rinvenirsi nel vergognoso attacco che la parte peggiore del mondo politico e affaristico italiano aveva portato alla Banca d'Italia proprio in quegli anni. Nello stesso articolo, e in altre occasioni, trovavo modo di esprimere anche il mio più profondo scetticismo sulla elasticità della offerta di debito pubblico ai tassi di interesse. La classe politica che stava preparando tangentopoli non si sarebbe fatta intimidire da tassi di interesse elevati, e avrebbe imperturbabilmente continuato ad accumulare debito pubblico. Così fu e gli effetti sul debito italiano furono composti per via della ricordata decisione, concomitante, di alzare i tassi di interesse da parte di Volcker. Il debito pubblico italiano cominciò di conseguenza a crescere autoalimentandosi, giungendo a superare per entità il PIL di parecchi punti percentuali nei primi anni Novanta.
    Il peso degli interessi portò durevolmente a fondo i conti pubblici italiani. I tassi di interesse elevati necessari per continuare ad emettere raggiunsero anche lo scopo deleterio di «drogare» i risparmiatori del nostro paese, assuefacendoli a rendimenti che li portarono ad illudersi sulla esiguità del capitale sufficiente a ottenere rendite future che bastassero a finanziare una forma di previdenza integrativa quale sembrava essere il possesso di titoli di stato in prossimità degli anni della pensione per molti grandi e piccoli borghesi italiani. E, insieme ai risparmiatori, la proprietà individuale di titoli di stato, ormai quasi unica nel panorama internazionale, che si ottenne in Italia negli anni Ottanta, contribuì a drogare le banche italiane costituendo per loro una cospicua fonte di redditizie operazioni fuori bilancio, senza impegno di capitale, con le quali migliorare il conto economico.
    Quando la grande battaglia contro l'inflazione fu dichiarata vinta dalla Federal Reserve e i tassi di interesse, di conseguenza, caddero pesantemente, il loro declino cadde come manna sui conti pubblici italiani, ma fu fonte di grande costernazione per i risparmiatori italiani, che dovettero rassegnarsi ad accrescere il capitale sufficiente a fornire le rendite desiderate per la previdenza complementare, tanto generosamente fornite fino ad allora dallo stato italiano, o ad accettare, più o meno consapevolmente, livelli di rischio assai più elevati.
    Da tale diversificazione dei portafogli dei risparmiatori le banche italiane trassero nuova fonte di lauti introiti senza rischi, investendo la liquidità ottenuta dal rimborso dei titoli di stato in collocazioni alternative, molte volte di assai improbabile sicurezza.
    Risultato netto dell' operazione è la trasformazione profonda della struttura della proprietà del debito
    pubblico italiano, che è per il 50% detenuto oggi da investitori finanziari stranieri e per il resto da investitori finanziari italiani. Il che aumenta molto notevolmente la volatilità dello stesso debito, con prevedibili conseguenze negative in caso di subitaneo aumento dei tassi di interesse internazionali.
    I seguaci del signor Pangloss, dei quali l'Italia abbonda, possono tuttavia obiettare che, in questo quadro a tinte decisamente fosche, un dato risulta costantemente positivo, quello del reddito pro-capite degli italiani, che non è mai stato tanto vicino a quello di Francia e Germania come nell'ultimo decennio. Miracoli del cambio stabile - si potrebbe rispondere - e della dinamica demografica mai come ora flebile in Italia rispetto agli altri paesi europei (se si eccettua la Germania). Ma la dinamica demografica flebile ha anche aspetti negativi. Aiuta il PIL pro-capite a crescere ma rovina i conti della sanità e della previdenza privata e pubblica. Tutti gli schemi previdenziali sia a ripartizione che a capitalizzazione funzionano male in presenza di scarse masse di contribuenti in entrata. Il peso relativo dei vecchi e dei pensionati inevitabilmente aumenta e solo un boom permanente di borsa può evitare che i conti di qualsiasi schema sanitario o previdenziale a capitalizzazione si tingano di rosso.
    Queste considerazioni valgono a prescindere dal colore dei governi. Si può dire tuttavia che l'attuale governo italiano deve considerarsi il risultato delle gravi difficoltà in cui l'economia italiana versa. È certo vero che più esso resta in carica e più si trasforma, da conseguenza, in causa dei nostri mali, ma è altrettanto vero che, se il degrado dell' economia italiana non fosse tanto a lungo durato senza che alcuno ci ponesse rimedio, nessuno si sarebbe sognato di affidare il proprio destino a Bossi, Fini e, specialmente, a Berlusconi. .
    A questo punto la domanda è, naturalmente: che fare? Non ci sono ricette miracolose. L'economia italiana deve risalire una china che ha disceso senza che la gran parte della popolazione italiana se ne rendesse conto. Come ho detto, tuttavia, sia la Banca centrale che qualche studioso individuale se ne sono accorti da tempo e da almeno trent'anni la grande industria privata ha deciso di separare le fortune personali dei suoi proprietari da quelle delle loro imprese, ed ha approfittato di ogni occasione per farlo. I grandi imprenditori italiani si sono da tempo trasformati in rentier, accumulando poderose fortune finanziarie, investendo invece nelle proprie imprese i denari degli altri, ma allo stesso tempo restandone al timone con artifici finanziari assai ingegnosi.
    Ora delle difficoltà future si sono purtroppo accorti anche i piccoli imprenditori. Il momento cruciale è
    giunto nel 2001, con la fine del boom americano. Ma già l'arrivo dell'Unione monetaria europea, a metà del 1998, aveva fatto capire a molti di essi che, con la fine dell'era delle svalutazioni competitive verso gli altri paesi europei, la vita sarebbe divenuta molto difficile. Per questo nessuno ha approfittato dell' euro debole per cercare di guadagnare quote di mercato. Non potendo più farlo in Europa, avrebbero dovuto cercare di farsi spazio sui mercati extra-europei, sui quali è arrivata in forze la potenza produttiva asiatica. Fino al 2002, l'aggancio della moneta cinese alla moneta americana che i dirigenti di Pechino hanno deciso a metà degli anni Novanta ha in qualche misura riparato i produttori italiani dei settori più esposti dalla concorrenza cinese. Ma il crollo del dollaro è stato puntualmente seguito dal quello della moneta cinese e anche quel fragile ostacolo è caduto. I prodotti cinesi dilagano ovunque. Ed è veramente ironico, ma forse è solo triste, vedere gli italiani, che in tutta la loro storia industriale hanno fatto della copia dei prodotti stranieri una abitudine consolidata, ergersi a un tratto a difendere il Made in ltaly ora che i cinesi li ripagano della stessa moneta. Questo non deve meravigliare quando a protestare sono i produttori. Ma giornalisti ed economisti dovrebbero avere un più spiccato senso della storia e, invece di inveire o pensosamente stigmatizzare la Cina, che ci copia, dovrebbero ricordare quante variazioni della parola «Timberland» gli scarpari italiani sono stati capaci di inventare in anni anche recenti, e quanti finti o addirittura veri (ma comprati da italiani) marchi inglesi o americani sono comparsi sui capi di abbigliamento sia formale che casual prodotti in Italia.
    Che fare, dunque? È difficile far tornare sui suoi passi un paese che si era convinto, con la complicità
    ammirata anche di alcuni osservatori stranieri, da Porter a Putnam e addirittura a Bill Clinton, di aver trovato una «terza via» allo sviluppo. Ma solo cercando di eliminare quelli che erano visti come «tratti originali» mentre erano solo anomalie facilmente mutanti da benigne in maligne col passare del tempo, e col cambiare del contesto economico e politico mondiale, si può tentare di ritrovare la strada.
    Ora che le grandi imprese italiane del settore manifatturiero sono state quasi tutte definitivamente demolite, bisogna, innanzitutto, difendere a spada tratta quelle poche che restano. Questo, tuttavia, non vuol affatto dire difenderne gli attuali assetti proprietari e manageriali. Abbiamo visto, infatti, che i proprietari italiani hanno ormai da decenni separato le proprie fortune personali da quelle delle loro imprese. Se essi non hanno mostrato molto patriottismo non si capisce perché debba essere destinato denaro pubblico a farli restare a controllare e gestire le imprese alle quali hanno tanto coscienziosamente sottratto capitali.
    Ben venga dunque la grande proprietà straniera, se essa dà precise garanzie di mantenere intatto o addirittura accrescere il patrimonio tecnologico e la dimensione critica delle imprese stesse.
    È necessario elaborare una capacità di contrattazione con le imprese straniere che vogliono subentrare alla proprietà italiana, e addirittura promuovere tale subentro, quando ci si accorga che i produttori italiani attuali stanno coscientemente, o solo per incapacità dissanguando le proprie imprese o semplicemente rinunciando a farle crescere.
    Sarà questo, per chi se ne fa carico, compito difficile. Il nazionalismo di bassa lega è difficile da battere, specie quando i mezzi di comunicazione di massa sono tanto capillarmente e diffusamente penetrati e dunque tanto poco affidabili come portatori di messaggi veramente patriottici e non solo occhiutamente o stolidamente nazionalistici.
    Il secondo sentiero, anch'esso arduo, è quello che porta alla crescita qualitativa di quei numerosi gruppi di imprese che ora esistono in Italia. L'industria italiana era fatta solo di giganti e nani, ora conta invece numerose aggregazioni, sempre familiari, di medio livello, anche se, per motivi giuridico-istituzionali, esse sono costituite da piccole componenti.
    Come si può riuscire a far compiere a questi medi industriali un salto tecnologico? Innanzitutto, favorendo la delocalizzazione verso i paesi a basso costo di manodopera di quelli tra loro che producono merci che in nessun modo possono essere ancora prodotte profittevolmente in un paese che vuol mantenere caratteristiche sociopolitiche ed economiche di paese sviluppato.
    Negli ultimi dieci anni, invece, si è troppo spesso a livello di Parlamento e di Governo, cercato con assai poca ragionevolezza, di esaudire le richieste di tale ceto di imprenditori attuando riforme che tendono a far uscire l'Italia dal novero dei paesi civili. Si è cercato di indurli in ogni modo e con ogni agevolazione a spostare le proprie produzioni nel Mezzogiorno. Ma nel Mezzogiorno i salari effettivi sono attorno al 40% inferiori a quelli del CentroNord, mentre nei paesi dell'Est Europa e del Nord-Africa essi sono tra un decimo e un quinto di quelli italiani. Come si può sperare di vincere una battaglia tanto impari anche con Patti territoriali estremamente innovativi? Molto meglio sarà tentare di separare gli interessi di questi imprenditori, il cui futuro può essere solo a Est o a Sud dell'Italia per il troppo scarso livello tecnologico delle loro produzioni, da quelli che operano in settori a tecnologia più elevata e che quindi possono resistere validamente anche ad assalti dei produttori asiatici.
    Essi sono molti più di quanto si creda o tema. Al contrario della grande impresa, che negli ultimi decenni ha inesorabilmente demolito i propri capisaldi tecnologici, molti piccoli imprenditori, sotto il pungolo della concorrenza internazionale, sono riusciti a spostarsi verso la «parte alta» della produzione del loro settore, quella a maggior valore aggiunto.
    Ora è arrivato anche per loro il momento della crisi. La moneta unica li spinge a spostarsi non verso i paesi a bassi salari ma verso i nostri concorrenti europei che meglio funzionano come «sistema paese». O per essere più vicini alle grandi imprese delle quali sono divenuti fornitori di parti e componenti.
    A controbattere questa tendenza devono concentrarsi gli sforzi di chi ha a cuore il destino del nostro paese. Devono essere elaborate proposte che favoriscano in modo concreto la crescita delle imprese in questione, che col loro oggettivo comportamento hanno mostrato orgoglio industriale e che ora si trovano di fronte a decisioni di ulteriore crescita dimensionale e qualitativa che non possono trovare facile realizzazione in Italia.
    Particolare attenzione deve essere dedicata a inventarsi un nuovo e proficuo rapporto tra centri di ricerca, specie ma non solo, universitari e piccola e media industria.
    Inventare è la parola giusta, perché nulla è esistito in passato. Per quanto riguarda le, purtroppo poche, piccole e medie imprese italiane che somigliano alle start-up americane, e che quindi vedono come protagonisti ricercatori che tentano la fortuna come imprenditori, il problema è solo quello di favorirne la crescita numerica, togliendo ai pochi residui laboratori italiani quella distanza dal mondo dell'impresa che tradizionalmente essi, per vari motivi, mantengono. Questo, tuttavia, non si fa con le chiacchiere, le buone intenzioni e le minacce, come hanno fatto finora i governi italiani. Si fa invece incentivando le avventure imprenditoriali dei ricercatori, e incentivare vuol dire coscientemente accettare che procedimenti elaborati in laboratori pubblici vengano sfruttati privatisticamente da chi li ha, coi soldi pubblici, inventati. Troppo spesso, invece, si cerca, ottusamente, di voler trattenere i frutti di tali ricerche in mano pubblica, minacciando sanzioni anche penali ai contravventori. Il risultato è che gli onesti si scoraggiano e le ricerche restano chiuse nei laboratori senza passare alla fase industriale. O che vengono utilizzate da stranieri intraprendenti, raiders delle riviste scientifiche sulle quali i risultati delle ricerche compaiono.
    Non è facile trasformare gli scienziati in imprenditori. Ma in passato ci si riuscì brillantemente. Questo è stato il paese di Giuseppe Colombo, di Francesco Brioschi, di Guglielmo Marconi, di Achille Sclavo, dei Bertarelli e di tanti altri. Essi riuscirono a trasformare la propria scienza in intraprese industriali di successo.
    Ora è tutto più difficile, rispetto ai loro tempi. Specie perché, e qui è un altro punto dolente, le banche che aiutarono questi scienziati a trasformarsi in imprenditori sono molto meno disponibili a farlo. Si parla molto, fino alla nausea di venture capital. Ma come mi disse qualche anno fa Enrico Cuccia «il mio maestro di banca, Alberto Brughera, mi insegnò che il banchiere dell'inventore è sempre fallito». Egli tuttavia me lo disse per giustificare il proprio scarso interesse passato al problema, del quale si pentiva, al punto di iniziare, alla sua verde età, un episodio di venture capital, con esito immediatamente assai più brillante di quelli di molti e molto più giovani finanzieri italiani.
    Bisogna individuare chi sono gli uomini di finanza disposti a imitare il loro decano. Ma, come fece lui,
    disposti a operare privatamente e senza clamore di conferenze stampa, convegni e pubblicazioni in carta patinata.
    Una vera classe dirigente vuole realizzare le proprie strategie e poi, semmai, rivelarle al pubblico dei media. Non il contrario, come sembra essere divenuta la norma. In Italia così come all' estero. La tradizione italiana, nel campo dell'uso dei fondi pubblici per la ricerca, è che le grandi imprese li monopolizzino, usandoli al posto dei propri fondi invece di aggiungerli ad essi. Vale la pena, visti i risultati assai scarsi finora ottenuti con tale metodo, invertire il processo: dare i fondi ai laboratori universitari o a quelli del CNR e permettere ai ricercatori che lì lavorano di usare liberamente le proprie invenzioni trasformandole in processi industriali. Lo Stato deve ulteriormente incentivare tali attività fornendo cospicui sgravi fiscali alle istituzioni finanziarie che aiutano i ricercatori pubblici a trasformarsi in imprenditori, fornendo loro le risorse necessarie. Imbrogli e abusi saranno numerosi, ma lo sono anche in altri paesi, e il rischio deve essere corso, perché l'alternativa è un cieco affidamento di fondi alle grandi imprese che, come si è già detto, li sostituiscono invece che aggiungerli, ai propri.
    Si deve altresì promuovere coraggiosamente una politica di incentivazione finanziaria dei giovani che
    vogliono iscriversi a facoltà scientifiche. Questi sono in declino sia in Italia che in tutto l'Occidente sviluppato. Se si destinano alcune diecine di miliardi a borse di studio per gli iscritti a facoltà scientifiche che provino di meritare, si otterranno risultati assai corposi in tempo breve. Naturalmente, tali borse di studio devono essere aperte agli stranieri e propagandate nei paesi dell'Europa centro-orientale, del Nord Africa del1'Asia e dell'America Latina. L'amministrazione effettiva di tali programmi deve essere affidata alle singole università, premiando quelle che mostrano di riscuotere successi coi fondi sottratti, nei round successivi al primo, a quelle che si rivelano incapaci di ottenere risultati.
    È bene che tali fondi vadano veramente a studenti di facoltà di hard science e che le facoltà di scienze
    umanistiche giuridiche e sociali si astengano una tantum dal reclamare la loro «libbra di carne», come fanno (o meglio, facciamo) abitualmente.
    Sto in definitiva suggerendo l'elaborazione di una strategia di crescita industriale e culturale per il nostro paese. È un programma i cui risultati si vedranno a medio termine. Ma non sembra avere alternative, dato il contesto economico italiano attuale, per cercare di impedire l'ulteriore e definitivo degrado del nostro paese. Ricordiamo che il declino dell'Italia è già avvenuto due volte, al tempo di Roma antica e dopo il Rinascimento. Ricordiamo ancora che l'Argentina, paese popolato da italiani per lo più settentrionali era, ancora mezzo secolo fa, un paese assai più ricco del nostro. Guardiamo alla sua esperienza, per cercare di evitarcela nel futuro prossimo. Già alcuni segni di argentinizzazione del nostro paese sono evidenti. Come John Ruskin additava agli inglesi le pietre di Venezia per ammaestrarli sulla decadenza, noi possiamo guardare al «secondo paese italiano» per capire quel che ci attende se non mettiamo celermente mano a politiche che frenino il degrado e suscitino la rinascita.
    Se questa politica di rinascita non comincia in brevissimo tempo, alla prossima conta statistica, il numero degli italiani che hanno privato interesse a favorire l'ulteriore declino economico del paese sarà divenuto maggioritario. Allora, sarà veramente troppo tardi.

  2. #2
    Omia Patria si bella e perduta
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    Posto un articolo scritto da due economisti, al di là del particolare punto di vista degli autori, mi sembra che spieghi bene e in modo chiaro i principali caratteri della finanziaria.
    Da www.lavoce.info
    Un rientro dal lato sbagliato
    Di
    Tito Boeri e Piero Garibaldi

    I numeri della manovra
    In attesa che vengano resi pubblici la nota di variazione al Dpef e la Relazione Previsionale e Programmatica, proviamo a riassumere, sulla base delle informazioni disponibili, gli effetti macroeconomici della manovra.
    Al Governo servivano 14,8 miliardi di euro di aggiustamento netto per riportare il deficit tendenziale nel 2007 dal 4 al 2.8 percento, rispettando gli impegni presi con l’Unione Europea. La manovra è molto più consistente (33,4 miliardi) perché altri 18,6 miliardi servono a finanziare scelte discrezionali di politica economica. Si tratta di un insieme di misure – definite col termine equivoco "politiche a sostegno dello sviluppo" – tra le quali rientrano sia il taglio del cuneo fiscale che semplici iniziative di spesa, come il rifinanziamento dei cantieri e delle ferrovie dello Stato, il rinnovo del contratto del pubblico impiego, nuovi finanziamenti alle Poste, la missione in Libano nonchè dotazioni a vari "fondi" pubblici a disposizione dei singoli ministeri, come il fondo infrastrutture, il fondo per la famiglia, quello dell’occupazione, etc.. Il Governo raccoglie queste risorse senza ricorrere ad una tantum. Ma utilizza misure di finanza creativa, come il trasferimento all’Inps dei flussi di Tfr che i lavoratori non dirotteranno ai fondi pensione. Discutibile inoltre l’inserimento nella manovra di entrate (per più di 7 miliardi) da misure anti-evasione e anti-elusione, per loro natura difficili da quantificare.

    La vera sfida
    Come non avevamo mancato di rimarcare su questo sito, la vera sfida della Finanziaria era quella sulla qualità dell’aggiustamento, la sua composizione tra maggiori entrate e minori spese. Temevamo un leggero sbilanciamento dell’aggiustamento a favore delle entrate. Ci siamo sbagliati. Lo sbilanciamento a favore delle entrate non è leggero: si va ben oltre il 50% paventato qualche giorno fa. E solo in rari casi si sono attivati meccanismi virtuosi che porteranno a risparmi crescenti nei prossimi anni. Quindi si è fatto pochissimo per riprendere controllo della spesa pubblica.
    La tabella qui sotto cerca di riassumere i dati sulla composizione della manovra, sulla base delle informazioni disponibili. Non è possibile quantificare il contributo delle entrate con precisione dato che parte di queste (o dei risparmi) non dipende dal Governo, ma da come gli enti locali utilizzeranno i maggiori margini di autonomia impositiva loro concessi. Nel caso in cui gli enti locali rispettassero i vincoli imposti dal Patto di Stabilità interno e dall’accordo sul contenimento della spesa sanitaria per metà con tagli di spesa e per metà con incrementi delle tasse (facendo, dunque, molto meglio delle amministrazioni centrali dello stato) le entrate contribuirebbero per ben 24 miliardi alla manovra, limitando i tagli alla spesa a soli 9 miliardi. Ciò significa un contributo delle entrate superiore al 70 percento della manovra complessiva e, comunque, mai inferiore al 64%. Ma la percentuale potrebbe essere anche più alta, arrivare fino all’84%.

    Il contributo delle entrate alla manovra in diversi scenari




    Scenari Diversi

    Aggiustamento Lordo
    Solo tagli a livello locale
    Scenario intermedio
    Solo entrate a livello locale





    Comparto Stato (1)
    11,9
    7,0
    7,0
    7,0
    Enti Locali (2)
    4,7
    0,0
    2,4
    4,7
    Sanità (3)
    3,0
    0,5
    1,5
    2,5
    Previdenza (4)
    9,5
    9,5
    9,5
    9,5
    Entrate Fiscali (5)
    4,2
    4,2
    4,2
    4,2
    Totale
    33,3
    21,2
    24,6
    27,9
    Contributo entrate (%)

    64%
    74%
    84%





    (1) Entrate da studi di settore,inasprimenti controlli.



    (2) Entrate da addizionali di imposte applicate dagli enti locali.


    (3) Entrate da incrementi di ticket sulle prestazioni sanitarie e addizionali Irpef per regioni che non rispettano l'accordo.
    (4) Entrate da trasferimento Tfr all'Inps, allineamento aliquote di computo e aliquote contributive, aumento contributi co.co.pro.
    (5) Entrate da armonizzazione tassazione rendite finanziarie, revisione imposte catastali...


    Questo sbilanciamento dal lato delle entrate si deve al contributo delle amministrazioni centrali dello stato alla manovra: almeno 7 miliardi provengono dagli studi di settore e da inasprimenti dei controlli fiscali, mentre la manovra sulla previdenza consiste pressoché interamente nel trasferimento del Tfr all’INPS (5,3 miliardi, di cui discutiamo sotto) e nell’aumento dei contributi previdenziali, volto a riallineare aliquote di computo ed aliquote effettive, coerentemente con il metodo contributivo adottato nel 1996. Per il pubblico impiego sono state accantonate generose risorse (3 miliardi) per il rinnovo dei contratti, in cambio di una generica promessa sindacale a "riformare il comparto".
    L’operazione sul cuneo fiscale agisce sull’Irap e non sui contributi previdenziali. Si tratta di una scelta condivisibile. Più discutibile invece la distribuzione temporale dello sgravio. Immediato per i cittadini e diluito nel tempo per le imprese.
    Torneremo sugli effetti distributivi della riforma dell’Irpef. Sembra favorevole agli individui con redditi inferiori ai 40.000 euro. Più complesso valutare il suo effetto sui bilanci delle famiglie.

    TFR: i debiti sono debiti
    Il lato più inquietante della manovra, quello che la avvicina di più alle tante operazioni di finanza creativa varate nella scorsa legislatura, consiste nel trasferimento all’Inps (e poi ad un fondo per il finanziamento delle infrastrutture) della parte di trattamento di fine rapporto ( Tfr) accumulato dagli individui ogni anno, e non dirottato ai fondi pensione. Si tratta, in altre parole, di un prestito forzoso per finanziare spese infrastrutturali ottenuto trasferendo dalle imprese allo stato un debito nei confronti dei lavoratori dipendenti che non eserciteranno l’opzione di trasferire il Tfr ai fondi pensione.
    Come discusso altrove questa misura rischia di diventare la pietra tombale sulla speranza di creare dei fondi pensione in Italia perché indurrà questo Governo e quelli successivi ad ostacolare in tutti i modi i flussi verso i fondi pensione (significa meno entrate per lo Stato). Dunque e’ un’operazione che va svantaggio dei lavoratori più giovani, quelli che hanno maggiormente bisogno di previdenza integrativa per garantirsi un reddito adeguato quando andranno in pensione.
    L’operazione porta un beneficio temporaneo per i conti pubblici (perché inizialmente vi sono solo entrate, vale a dire i flussi di Tfr), ma crea un debito crescente dello Stato nei confronti dei lavoratori, scaricando i costi sulle gestioni future. Le liquidazioni, infatti, prima o poi dovranno essere pagate offrendo un rendimento che oggi è solo lievemente più basso di quello offerto da titoli pubblici relativamente liquidi, come i Bot. Sul piano dei conti pubblici, si otterrebbe perciò una riduzione dell'indebitamento, ma non necessariamente del debito pubblico. Infatti, è difficile che il debito associato al Tfr possa essere considerato come debito implicito, soprattutto perché è esigibile dal lavoratore. Le imprese iscrivono il Tfr come passività nello stato patrimoniale. Perché non dovrebbe lo stato fare altrettanto? I debiti sono debiti. Speriamo che Bruxelles, come in passato, bocci questa operazione di finanza creativa.


  3. #3
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    Purtroppo la tabella è venuta una schifezza, comunque l'originale si può vedere all'indirizzo http://www.lavoce.info/news/view.php...374&from=index

 

 

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