Per "political correctness" si intende l'atteggiamento dogmatico e rigido con cui gruppi radicali e di sinistra americani affrontano nel linguaggio e nei comportamenti quotidiani il modo di rapportarsi alle minoranze e ai gruppi oppressi. Problema sollevato dai conservatori nei primi anni novanta come vessillo contro le richieste del multiculturalismo, il termine è rimbalzato anche da noi soprattutto nella chiacchiera giornalistica e usato variamente nella politica di casa come mostro illiberale da cui difendersi. Il pamphlet di Baroncelli è il primo lavoro, a mia conoscenza, che cerca di fare ordine e giustizia in questa controversia pompata a dismisura, mostrando tra l'altro che condividere le ragioni di un linguaggio non offensivo nei confronti di donne, omosessuali, minoranze culturali varie non implica necessariamente l'abbandono del senso dell'umorismo. In sintesi la tesi di Baroncelli è la seguente: il fastidio che la modificazione di alcune forme linguistiche e atteggiamenti inveterati genera in noi è il prezzo, in fondo modesto, che le maggioranze culturali e morali devono pagare per trattare con rispetto gli individui appartenenti a gruppi oppressi, al di là delle esagerazioni e delle sciocchezze dei fanatici di un linguaggio purificato.
La tendenza alla correttezza politica serve veramente a qualcosa? Voglio dire: chiamare una cosa sgradevole con un nome gradevole che, in qualche modo, ne nasconde i lati negativi, non sembra un po un modo di non voler vedere?
Cosa ne pensate?