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  1. #1
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    Predefinito Bucharin E La Nep...............cinese

    Penso che se Bucharin rinascesse domattina non potrebbe non constatare il successo delle sue idee vedendo quanto succede in Cina.

    Sarebbe contento ?

  2. #2
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    Mi sfugge il legame tra Bucharin e la Cina. Perchè Bucharin avrebbe dovuto essere contento del successo del capitalismo in Cina???

  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da GendoIkari Visualizza Messaggio
    Mi sfugge il legame tra Bucharin e la Cina. Perchè Bucharin avrebbe dovuto essere contento del successo del capitalismo in Cina???
    Perche' Bucharin voleva che allo Stato restassero solo l'industria pesante, la produzione di energia et materie prime ,l'industria degli armamenti , i trasporti
    la chimica di base.

    Tutto il resto ai privati !

    La Cina ha applicato la dottrina Bucharin e sta avendo un grande successo.
    E' indiscutibile ! Del resto lo stesso Lenin aveva sostenuito la NEP inclusa la prorieta' privata in agricoltura ed era stata propio la campagna a dargli la vittoria contro gli eserciti czaristi.I kulaki temevano che i bianchi volessero ridare la terra ai latifondisti.

    Poi i kulaki lo presero etc.etc. da Stalin !

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Ferruccio Visualizza Messaggio
    Perche' Bucharin voleva che allo Stato restassero solo l'industria pesante, la produzione di energia et materie prime ,l'industria degli armamenti , i trasporti
    la chimica di base.

    Tutto il resto ai privati !

    La Cina ha applicato la dottrina Bucharin e sta avendo un grande successo.
    E' indiscutibile ! Del resto lo stesso Lenin aveva sostenuito la NEP inclusa la prorieta' privata in agricoltura ed era stata propio la campagna a dargli la vittoria contro gli eserciti czaristi.I kulaki temevano che i bianchi volessero ridare la terra ai latifondisti.

    Poi i kulaki lo presero etc.etc. da Stalin !
    Confondere la NEP con quello che sta succedendo in Cina è un errore abnorme.
    Sono due cose enormemente differenti sia dal punto di vista delle intenzioni, sia dal punto di vista oggettivo della portata concreta.
    La NEP fu una "ritirata strategica" temporanea rispetto alla presunta (PRESUNTA) creazione del socialismo. Il centro della NEP non sono le imprese, ma sono le campagne. Ovvero l'abolizione della terribile e assurda guerra contadina legata alle requisizioni. Vi furono anche incluse norme di regolamento del mercato, che favorirono lo sviluppo di una piccola e numericamente inconsistente industria. Ma il grosso rimaneva saldamente sotto il potere diretto degli organi del partito-stato.
    La Cina non solo ha abbandonato nella sostanza ogni ambizione comunista, non solo nella Cina esiste una classe capitalista enormemente potente e sviluppata, collusa con il partito tramite mezzi di corruzione, non solo esistono determinate aree in cui tutto e lasciato in mano al capitalismo selvaggio, ma il partito si sta velocemente distaccando da forme di controllo economico anche nel resto del paese. Il processo cinese è di capitalizzazione a tutti gli effetti.
    Nulla di paragonabile alla "ritirata strategica" momentanea della NEP.

  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da Ferruccio Visualizza Messaggio
    Perche' Bucharin voleva che allo Stato restassero solo l'industria pesante, la produzione di energia et materie prime ,l'industria degli armamenti , i trasporti
    la chimica di base.

    Tutto il resto ai privati !

    La Cina ha applicato la dottrina Bucharin e sta avendo un grande successo.
    E' indiscutibile ! Del resto lo stesso Lenin aveva sostenuito la NEP inclusa la prorieta' privata in agricoltura ed era stata propio la campagna a dargli la vittoria contro gli eserciti czaristi.I kulaki temevano che i bianchi volessero ridare la terra ai latifondisti.

    Poi i kulaki lo presero etc.etc. da Stalin !
    ma bucharin scriveva in un mondo in cui l'industria pesante, la produzione di energia e l'estrazione di materie prime erano la amggior aprte dell'economia

    sicuramente non avrebbe potuto prevedere l'esplosione dei servizi e delle società puramente finanziarie

  6. #6
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    Parto da questo saggio di Andrea Catone:
    “Problemi economici del socialismo” :
    le questioni poste alla società sovietica

    di Andrea Catone


    Con il suo sistema, tante volte giudicato irrazionale, l’URSS aveva raggiunto, negli anni decisivi 1938-1940, un potenziale industriale che le permise di condurre e vincere la guerra. Un sistema più razionale, secondo qualsiasi criterio (anche quello di Oscar Lange 1936-1937) avrebbe posto le sicure basi di una sconfitta e portato al dominio nazionalista e alla relativa economia fondata sulla schiavitù.

    Giulio Pietranera[1]

    Il testo di Stalin Problemi economici del socialismo in URSS del 1952 si colloca strategicamente al centro della storia dell’URSS, è l’ultimo testo significativo di Stalin prima della sua morte, è a metà strada della parabola della storia sovietica, a 35 anni dalla grande rivoluzione d’ottobre e quasi altrettanti dall’ascesa di Gorbačev e l’inizio di quella cosiddetta perestrojka che nel volgere di pochi anni porterà l’URSS alla dissoluzione.

    È una fase che richiede necessariamente una riflessione sul cammino percorso e su quello ancora da compiere: i bolscevichi al potere hanno superato con successo, anche se al prezzo di grandissimi sacrifici, prove difficilissime. Non solo – e non era certo un fatto scontato – hanno mantenuto il potere, impedendo che la rivoluzione russa facesse la fine della Comune di Parigi, hanno saputo resistere alle aggressioni esterne e consolidare il potere; ma hanno altresì vinto la difficilissima battaglia di fuoriuscita dall’arretratezza che sembrava condannare il paese a rimanere ai margini dello sviluppo economico mondiale e quindi, in definitiva, a svolgere il ruolo di un’economia dipendente da quelle imperialistiche più forti.

    Tra il 1929 e il 1941 l’economia del paese passa da prevalentemente agricola a industriale, con un tasso di sviluppo che susciterà l’incredulità o la rabbiosa denigrazione degli studiosi borghesi, ma anche l’ammirazione e lo studio di quanti vedono nell’URSS un modello di superamento dell’arretratezza che potrebbe essere seguito con successo dai paesi in via di sviluppo, con la sua pianificazione volta a privilegiare gli investimenti nel settore della costruzione dei mezzi di produzione (settore I) e dei grandi impianti. Scrive ad esempio N. Spulber:

    A partire dagli anni ’50, che videro la formazione di molti paesi di nuova indipendenza impegnati nella ricerca di una rapida crescita economica, i problemi connessi con l’intervento massiccio dello Stato in economia, con l’industrializzazione forzata e con la pianificazione, hanno dato origine in Occidente a tutta una serie di pubblicazioni sullo sviluppo economico. Molti dei problemi discussi in queste pubblicazioni occidentali e nei paesi emergenti furono già affrontati nella Russia degli anni ’20. Di qui l’interesse a conoscere le tesi allora dibattute in questo paese[2].

    Per quanto si possano mettere in discussione i metodi della statistica sovietica, per quanto si possa dubitare di questa o quella cifra, incontestabile è il dato della costruzione di un grande apparato industriale, corredato di giganteschi impianti e della nascita ex novo di grandi città industriali disseminate nel paese e, durante e dopo la guerra, anche nelle zone più arretrate transuraliche dell’Asia centrale. Solo nel corso del I piano quinquennale, terminato a grandi linee in anticipo (1° ottobre 1928-31 dicembre 1932)

    furono costruite 1.500 grosse aziende industriali, in media una al giorno. A ritmi particolarmente rapidi si svilupparono le regioni nazionali prima arretrate: il volume della produzione nelle vecchie regioni industriali aumentò di 2 volte, mentre nelle repubbliche nazionali si ebbe un incremento di 3,5 volte […] Mutamenti sorprendenti si ebbero anche nelle vecchie regioni industriali le cui aziende furono radicalmente ammodernate […] La costruzione di un enorme numero di aziende, miniere, pozzi petroliferi, la valorizzazione di nuove regioni nel Nord, nel Kazachstan, in Siberia, nell’Estremo Oriente portarono alla creazione di centri industriali che prima non esistevano. Sulla carta geografica del paese apparvero 60 città e grosse borgate operaie […] Nei primi quattro anni del primo piano quinquennale […] l’incidenza della popolazione urbana aumentò rapidamente fino al 24% […] Durante questo breve periodo di tempo la popolazione delle città si accrebbe quasi tanto quanto nel trentennio compreso fra i censimenti del 1897 e del 1926[3].

    Il successo sovietico è tanto più rilevante se confrontato con la grande crisi di sovrapproduzione che negli anni Trenta investe le principali economie capitalistiche falcidiando posti di lavoro, seminando miseria e fame e generando, infine, la guerra imperialista quale sbocco obbligato per la fuoriuscita dalla recessione. I sovietici erano riusciti a realizzare questi grandiosi risultati in condizioni difficilissime, di accerchiamento internazionale, praticamente senza crediti esteri, contando solo sulle proprie forze[4]. Per di più eliminando la disoccupazione e riducendo la giornata lavorativa a sette ore[5]. Il paese aveva dovuto superare pesanti carestie, aveva dovuto risollevarsi con grandi difficoltà dai danni e mutilazioni infertigli dalla prima guerra mondiale. E aveva vinto la prova, aveva sviluppato l’industria, aveva spostato nell’arco di un decennio decine di milioni di contadini dalle campagne alle città, che era riuscito ad approvvigionare degli alimenti necessari. E aveva trasformato in pochi anni una massa di analfabeti in persone istruite, in tecnici e ingegneri in grado di progettare nuove fabbriche e costruire nuove immense città industriali:

    Nella popolazione tra i 9 e i 49 anni di età la percentuale di analfabeti scende dal 43% del 1926 al 13% del 1939; la percentuale di studenti universitari provenienti da famiglie operaie sale dal 30% nel 1928-29 a quasi il doppio nel 1932-33. 17 milioni di contadini tra il 1928 e il 1935 passano dalle campagne nelle città o nei nuovi poli industriali. La disoccupazione operaia fu riassorbita nei primi due anni del primo piano quinquennale[6].

    Se fossero stati solo questi i risultati di un potere rivoluzionario che nasceva sulle ceneri del disfacimento dello zarismo, ereditandone una struttura sociale arretrata e semifeudale, con un tasso elevato di analfabetismo, di miseria, i dirigenti bolscevichi avrebbero potuto dirsi più che soddisfatti. La struttura industriale dell’URSS aveva dimostrato di poter superare anche la prova dello scontro militare con l’esercito hitleriano che aveva sgominato nelle sue guerre-lampo l’Europa continentale: le corazze dei carri armati sovietici si erano dimostrate più resistenti di quelle prodotte dalla grande industria di uno dei paesi capitalistici più forti del mondo.

    I bolscevichi al potere, tuttavia, non si erano posti solo l’obiettivo di superare l’arretratezza economica, ma quello, ben più ambizioso e difficile, di costruire una società socialista, di organizzare un’economia pianificata sulla base della proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Affrontavano, dunque, un compito ben più arduo, senza modelli di riferimento nella storia, rispetto a cui anche le indicazioni teoriche dei classici del marxismo erano poche e rare. A distanza di poco meno di un secolo dall’inizio di quella straordinaria impresa, i compiti che il piccolo nucleo dirigente dei bolscevichi si pose sulle spalle appare ancor più immane e gigantesco: essi dovevano inventare sul campo una nuova economia, organizzare una nuova formazione economico-sociale, rendere egemone nella società il modo di produzione dei produttori associati. E dovevano compierlo, tra l’altro, in condizioni di estrema difficoltà, dovevano pianificare non in condizioni di un normale sviluppo, ma nell’arretratezza, per fuoriuscire da essa e industrializzare il paese.

    Quello del passaggio al socialismo è un discorso tutto da costruire anche sul piano teorico. Alcuni testi di Marx ed Engels (in particolare l’Antidühring) fornivano delle indicazioni di carattere generalissimo, non di più. Marx aveva forgiato gli strumenti per la critica della società borghese, aveva armato ideologicamente le avanguardie politiche rivoluzionarie di ragioni per rovesciare il capitalismo, ma si era giustamente rifiutato di scrivere ricette per le osterie dell’avvenire. Nei loro lavori più politici, Marx ed Engels avevano chiaramente indicato la necessità di conquistare il potere politico, di istituire una dittatura rivoluzionaria del proletariato (Il Manifesto del partito comunista, La guerra civile in Francia, La critica del programma di Gotha), come premessa indispensabile per avviare la transizione a un nuovo modo di produzione. E ciò perché il proletariato inevitabilmente subalterno nella società borghese - a differenza della borghesia, che fece la sua rivoluzione antifeudale avendo il possesso dei mezzi di produzione, essendo già egemone nell’economia - non ha altra scelta che la conquista del potere politico per avviare attraverso esso la trasformazione dei rapporti di produzione. Ma tra la conquista del potere politico e il passaggio ad un nuovo ordine economico-sociale c’è un abisso, di cui Lenin si dimostra ben consapevole nei suoi scritti degli anni postrivoluzionari, in cui si collocano la sua riflessione fondamentale sulla distinzione tra modo di produzione e formazione economico-sociale (individua ben 5 modi di produzione all’interno della formazione economico-sociale della Russia sovietica)[7] e alcune indicazioni strategiche per la transizione al socialismo (ad esempio, sul piano, sul ruolo della cooperazione). Ma si tratta di un lavoro essenzialmente preliminare.

    È noto il dibattito e lo scontro che nel gruppo dirigente bolscevico (con riflessi anche nell’Internazionale Comunista) si avvia negli anni venti sulle strategie da seguire[8]. Tanto la linea dell’opposizione di sinistra, quanto quella della destra, ruotavano intorno alla questione del rapporto tra decollo economico e alleanze di classe (rapporto operai-contadini, città-campagna): dunque, prima di tutto avevano una valenza politica: la possibilità stessa di mantenimento del potere. Se le città morivano di fame, se i contadini non consegnavano il grano perché ritenevano non remunerativo lo scambio coi prodotti dell’industria, se la prevista crisi generale del capitalismo ritardava e si avviava una fase di relativa stabilizzazione, se le rivoluzioni in occidente e in Cina venivano sconfitte, isolando l’URSS, questioni ben più pressanti si ponevano ai bolscevichi che non quelle del passaggio a un nuovo modo di produzione. In primis c’era la questione politica del mantenimento del potere, del rapporto che i gruppo dirigente bolscevico intratteneva con la base comunista e con la classe operaia, coi contadini, con la popolazione.

    Per lunghi e difficilissimi anni il potere sovietico vive in uno stato di emergenza permanente, per uscire dal quale era conditio sine qua non il superamento dell’arretratezza. Nessun potere può reggere a lungo in condizioni di miseria, tanto meno il potere bolscevico, la cui legittimazione politica e morale si giocava sul terreno del soddisfacimento dei bisogni vitali: pane, lavoro, pace erano iscritti sulle bandiere della rivoluzione del ‘17. Ma, al contempo, uscire dall’arretratezza senza tradire gli ideali del socialismo.

    Erano consapevoli del problema che come un macigno si parava davanti a loro i dirigenti bolscevichi? Il dibattito degli anni venti ci dice di sì. E la violenza dello scontro che si svolge in seno al gruppo dirigente, lungi dall’essere una sordida lotta per il potere personale – come una buona parte della storiografia demonizzante tende a presentarlo – non è che il riflesso delle terribili contraddizioni in cui si trovava la rivoluzione sovietica. Posta di fronte all’alternativa: avanzare o soccombere.

    La scelta intrapresa per affrontare il duplice immane problema di superare l’arretratezza avanzando sulla strada del socialismo risultò vincente, anche se il prezzo pagato fu altissimo, con l’esercizio di una dittatura severissima su una parte del mondo contadino (kulaki e parte dei contadini medi) e il ricorso a metodi amministrativi e repressivi eccessivi (come Stalin stesso denuncia nell’articolo Vertigine di successi)[9].

    Numerosi sono i lavori sulla storia dell’URSS che condannano questa scelta e le attribuiscono il peccato originale che avrebbe alla fine condotto al “tradimento della rivoluzione” e alla disfatta finale. Migliaia di pagine sono state scritte per denunciare – talora con scarso apporto documentale, talora in modo puntuale – le repressioni, il GULAG, le morti e le fucilazioni, le deportazioni dei kulaki e dei contadini medi ad essi assimilati da troppo zelanti attivisti. Anni terribili in cui col ferro e col fuoco si forgiava una nuova società. Vasto è anche il dibattito sulle possibili altre scelte che avrebbero potuto essere praticate, sulla “via buchariniana”, sul rapporto operai-contadini da salvaguardare (ma come, se le campagne non davano pane alle città?). E, tuttavia, storici dell’economia come Maurice Dobb, ragionando sul contesto complessivo, convengono sulla estrema difficoltà di praticare altre scelte, se si voleva uscire dalla morsa dell’arretratezza: “Negli anni che seguirono il 1920 non vi fu alcuna possibilità di manovra e i programmi dovettero in gran parte essere subordinati alle necessità. Un paese sviluppato può sfidare le incognite e procedere per tentativi: un paese povero può puntare solo sulla carta sicura”[10].

    Cosa appare prioritario negli anni trenta al gruppo dirigente bolscevico diretto da Stalin? Anche dai documenti più recenti desecretati delle riunioni del massimo organo dirigente del partito, il Politbjuro, emerge il quadro di un partito teso ad assicurare i risultati economici, a portare avanti l’industrializzazione del paese. Nelle lettere che si scambiano i massimi dirigenti sovietici, oberati da un lavoro immane, emerge la preoccupazione di assicurare il raccolto[11], di costruire ferrovie, canali e ponti, di sviluppare l’industria, di assicurarsi persino del tipo di motori per i camion acquistati all’estero! Realizzare gli obiettivi posti dal piano diviene l’obiettivo prioritario. Negli anni trenta l’emergenza continua; sulla realizzazione o meno del piano si misura il successo della politica bolscevica e la sopravvivenza o meno del potere sovietico. L’acuirsi dei pericoli di guerra e di aggressione all’URSS da parte delle potenze fasciste spinge il gruppo dirigente sovietico ad accelerare i tempi dell’industrializzazione.

    E i risultati dei piani quinquennali vengono riconosciuti apertamente anche dal più severo nemico di Stalin, Trockij, nel primo capitolo de La rivoluzione tradita:

    Gli immensi risultati ottenuti dall'industria, l'inizio molto promettente di uno sviluppo dell'agricoltura, lo svilupparsi straordinario delle vecchie città industriali, la creazione di nuove, il rapido aumento del numero degli operai, l'elevamento del livello di vita e dei bisogni, tali sono i risultati incontestabili della rivoluzione d'Ottobre, in cui i profeti del vecchio mondo videro la tomba della civiltà. Non è più il caso di discutere con i signori economisti borghesi: il socialismo ha dimostrato il diritto alla vittoria non nelle pagine del Capitale, ma su un'arena economica che comprende la sesta parte della superficie del globo; non con il linguaggio della dialettica, ma con quello del ferro, del cemento e dell'elettricità. [...] Solo la rivoluzione proletaria ha permesso a un paese arretrato di ottenere in meno di vent'anni risultati senza precedenti nella storia[12].

    Il superamento dell’arretratezza veniva ottenuto attraverso strumenti e forme economiche diverse da quelle di uno stato capitalistico-borghese: una proprietà statale di tutta l’industria, forme di proprietà collettiva nelle campagne e la pianificazione centralizzata, come recita la Costituzione sovietica del 1936:

    La base economica dell’URSS è costituita dal sistema socialista dell’economia e dalla proprietà socialista degli strumenti e mezzi di produzione, affermatisi in seguito alla liquidazione del sistema capitalista dell’economia, all’abolizione della proprietà privata degli strumenti e mezzi di produzione e all’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo [art. 4]. La proprietà socialista nell’URSS ha la forma di proprietà statale (patrimonio di tutto il popolo), oppure la forma di proprietà cooperativo-colcosiana (proprietà dei singoli kolchoz, proprietà di associazioni cooperative) [art. 5]. La vita economica dell’URSS viene determinata e diretta da un piano statale dell’economia nazionale, allo scopo di aumentare la ricchezza sociale, di elevare costantemente il livello di vita materiale e culturale dei lavoratori, di consolidare l’indipendenza dell’URSS e di rafforzare la sua capacità di difesa [art. 11][13].

    Sono note le tappe fondamentali che portano a queste due principali forme di proprietà – statale e cooperativo-colcosiana – governate da un piano generale: tra i primi provvedimenti del nuovo potere sovietico vi è la nazionalizzazione delle banche (dicembre 1917) e dell’industria (giugno 1918)[14]; il primo “lavoro serio fatto sulla questione del piano economico unico è il “piano di elettrificazione della RSFSR” […] presentato all’VIII Congresso dei soviet dal Goelro (commissione di stato per l’elettrificazione della Russia), pubblicato nel dicembre 1920”[15]. Il XV Congresso del partito comunista (dicembre 1927) approva le direttive per l’elaborazione del primo piano quinquennale. La XVI Conferenza del PC(b) ne approva la variante massima, che prevede nel suo insieme di raggiungere traguardi superiori del 20% a quelli della variante minima. Il 20 maggio 1929 Kržižanovskij, presidente del Gosplan, illustra al V congresso dei Soviet dell’URSS gli obiettivi del piano[16], che, nelle sue linee essenziali, viene realizzato in anticipo, alla fine del 1932. La “collettivizzazione delle campagne” - scelta obbligata, secondo Stalin[17], per superare la crisi degli ammassi del 1927-28 e quella ancor più grave del 1928-29 - avviata col primo piano quinquennale, viene realizzata per l’essenziale in tempi ben più rapidi di quelli previsti dalla variante massima del piano e, – nel corso del II piano quinquennale - fra il 1934[18] (XVII congresso del partito, il “congresso dei vincitori”), il 1935 (febbraio, II congresso dei colcosiani d’avanguardia) e il varo della nuova costituzione sovietica (1936), il processo è praticamente concluso. Il II piano quinquennale (1933-1937), avvalendosi dell’esperienza del precedente e traendo insegnamenti da alcuni errori di calcolo, viene realizzato, dopo le difficoltà dell’anno iniziale, con maggiore regolarità e con un aumento consistente della produttività del lavoro (anche grazie al movimento stachanovista). Alla fine degli anni ’30, la costruzione del sistema economico sovietico, fondato sui tre pilastri – proprietà statale, proprietà cooperativo-colcosiana e pianificazione –, che la costituzione del 1936 riconosce esplicitamente nei suoi articoli, è per l’essenziale ultimata.

    Fondamentale è il ruolo svolto dalla pianificazione. Essa è imprescindibile dal concetto stesso di proprietà socialista. Se la contraddizione tra capitali - insita nel concetto stesso di capitale come autorepulsione[19] - e, dunque, l’anarchia della produzione costituiscono uno degli elementi fondamentali e ineludibili del modo di produzione capitalistico, che ne determina le leggi di movimento, la “conformità al piano” appare intimamente inerente ad una società che abbia superato la contraddizione della proprietà capitalistica, come afferma Marx nelle prime pagine del Capitale: “La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano”[20]. Mentre nella società capitalistica “l’intelletto sociale si fa valere soltanto post festum”, in una società comunista il calcolo di quantità di lavoro, mezzi di produzione, mezzi di sussistenza, avviene in anticipo[21], secondo un piano. “La contabilità, come controllo e sintesi ideale del processo, diviene tanto più necessaria quanto più il processo si svolge su scala sociale e perde il carattere puramente individuale [… essa è] più necessaria nella produzione collettiva che in quella capitalistica”[22]. I bolscevichi riprenderanno ampiamente questi concetti e faranno del piano lo strumento fondamentale di gestione dell’economia socialista che la distingue nettamente dall’anarchia del mercato capitalistico. Lenin, come si è già detto, guarda al piano di elettrificazione come a un primo passo verso l’elaborazione e l’attuazione di un piano unico dell’economia del paese. Tuttavia, come osserva M. Dobb

    Il sistema di pianificazione economica dell’URSS non scaturì già bell’e fatto dal cervello di Lenin, come alcuni mostrano di credere. Il suo sviluppo e i suoi assestamenti ebbero una storia che si protrasse per due decenni e che, talvolta, seguì un cammino tortuoso […] Nei primi anni della rivoluzione, la pianificazione era presente più nei discorsi e negli scritti che nella pratica realtà. Essa costituiva più una frase propagandistica che una forza economica. Anche dopo la creazione di un apparato pianificatore centrale passarono diversi anni prima che la situazione obiettiva e la capacità soggettiva di tale apparato ad adempiere il proprio compito consentissero a questo di dar vita ad un realistico piano unitario che inquadrasse l’economia nazionale nel suo complesso[23].

    È col varo del primo piano quinquennale che comincia a delinearsi effettivamente un sistema di pianificazione centralizzata per tutto il paese, anche se il meccanismo, “non essendo stato costruito in anticipo un sistema completo di gestione pianificata”, si forma strada facendo, in piena azione[24], tra errori e carenze come denuncia Valerian Kujbyšev, presidente dell’Alto Consiglio per l’economia nazionale (VSNCh) dal 1926 al 1930 e presidente della Commissione statale per la pianificazione (Gosplan) dal 1930 al 1934:

    Le carenze fondamentali riscontrabili nell’attività degli organismi della pianificazione sono senza dubbio la separazione dalla vita economica concreta, la frequente predilezione per le astrazioni metodologiche in sede di elaborazione dei piani, la mancanza di sistematicità nell’impostazione del piano, la straordinaria mediocrità della tecnica della pianificazione, l’inconsistenza della pianificazione a livello di distretto e comprensiva, l’assenza di collettivi di pianificatori operai e di massa, nonché di organismi della pianificazione a livello locale, e infine la debolezza del sistema degli organismi della pianificazione a tutti i livelli[25].

    La pianificazione, quale emerge dai primi piani quinquennali, si basa sul “metodo dei bilanci”: è il mezzo più importante per stabilire legami ed evitare sproporzioni tra i vari settori e le diverse istanze dell’economia sovietica. Esso trova una formulazione generale nel decennio ’30-’40 e “consiste nell’uso di un complesso sistema di equazioni tra le varie grandezze di un piano prese come dati di una interna coerenza fra i suoi vari elementi”[26]. Il metodo delle “bilance materiali” elaborato da Strumilin è uno dei principali strumenti della pianificazione: non fa ricorso a un meccanismo di prezzi, ma si basa su un conto previsionale equilibrato degli impieghi e delle risorse fisiche in natura di un prodotto. Esistono anche delle bilance di lavoro e di capacità produttive[27].

    I piani sono teleologici e imperativi, indicavano cioè lo scopo da raggiungere, prescindendo in sostanza da problemi di equilibrio. Infatti, intorno alla metà degli anni venti si confrontano due scuole di economisti, “scuola genetica” e “scuola teleologica”. I primi (Bazarov, Kondrat’ev, Groman), intendono enucleare gli avvenimenti passati per proiettarli nell'avvenire, in modo tale che i risultati economici ottenuti lungo un arco significativo di anni, una volta analizzati, servano da modello per l'elaborazione delle proporzioni fondamentali del piano nella costruzione del socialismo. In tal modo si può adottare un ordine rigoroso nella connessione dei diversi settori del piano tra loro. I “teleologici” (Leont'ev, Strumilin) sostengono che il compito principale dei piani in tutto il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo risiede nella costruzione del socialismo stesso, definendo i ritmi produttivi necessari, stabilendo il fine, il telos, proposto. La critica che i “teleologici” rivolgono ai “genetici” è quella di non volere veramente la transizione al socialismo, di operare nei fatti per un ritorno al capitalismo. Lì dove non c'è il fine verso cui tendere - scrive nel ‘28 A. Leont’ev - non si può, a rigore, neppure parlare di piano: “un piano senza obiettivi è una contraddizione interna, è come un piano senza piano”[28]. Il XV Congresso del partito comunista (dicembre 1927) si pronuncia duramente contro la concezione “genetica”, sancendo la vittoria dei “teleologici”: i piani saranno elaborati sulla base del progetto e della concezione di socialismo. Stalin ne I problemi economici del socialismo ribadirà la concezione teleologica.

    La pianificazione che si realizza negli anni trenta in URSS non può essere assunta a modello generale: il suo fine principale è il superamento dell’arretratezza, scopo rispetto al quale si possono sacrificare altri aspetti, di razionalità economica, proporzionalità o equilibrio nello sviluppo. Nell’esigenza di raggiungere i risultati nei fatidici dieci anni indicati da Stalin per portare il paese a un livello tale da poter resistere alla prevista aggressione[29] (una valutazione che si rivelò pienamente fondata), alcuni obiettivi furono esagerati, irrealistici, mal calcolati.

    Nella tumultuosa avanzata verso l’industrializzazione furono compiuti errori anche notevoli, cui sopperivano il grande entusiasmo dei “costruttori del socialismo”, la mobilitazione permanente dei quadri del partito e della gioventù comunista (komsomol), il lavoro d’assalto degli udarniki e degli stachanovisti. Il primo piano quinquennale

    era incorso in un serio errore di previsione e di calcolo per quel che concerneva l’aumento della produttività del lavoro. I calcoli erano stati fatti in modo eccessivamente ottimistico e i riflessi negativi di questo errore non tardarono a manifestarsi. Infatti, poiché la produttività media per operaio alla conclusione del quinquennio invece di essere raddoppiata era aumentata solo del 41% non si poté concretizzare l’auspicata riduzione dei costi e dei prezzi industriali in grosso […] questo fenomeno provocò ripercussioni negative sul saggio generale di accumulazione. D’altro canto, i bassi livelli di produttività richiesero l’impiego di manodopera supplementare. Già alla fine del 1930 si manifestarono le prime tensioni nel mercato del lavoro che provocarono un aumento generale dei salari ben oltre i livelli stabiliti dal piano e una espansione globale della domanda. Conseguenze ultime di questo processo a spirale furono la forte ascesa dei prezzi al minuto e la relativa riduzione del potere d’acquisto delle masse[30].

    Le trasformazioni intervenute tra il 1929 (I piano quinquennale) e il 1941 (aggressione hitleriana) sono impressionanti. Ma la pianificazione che le aveva guidate e il sistema economico che si era costruito intorno ad esse erano largamente imperfetti. Assumerle come un modello già maturo di socialismo realizzato sarebbe un errore. Poiché non si terrebbe conto delle condizioni eccezionali nelle quali si è svolto il processo di accumulazione primitiva e di industrializzazione in URSS. In cui volontari, lavoratori d’assalto, stachanovisti, ingegneri, tecnici, dirigenti, erano tesi con tutte le forze al raggiungimento degli obiettivi ambiziosi posti dal piano. Cosa che provocava anche notevoli squilibri, cadute produttive, sprechi. L’URSS degli anni trenta non vive in condizioni normali, ma in una continua mobilitazione: campagne produttive, mobilità sociale, che consente la promozione di milioni di analfabeti a tecnici, quadri, membri di partito (che segna il riconoscimento di uno status raggiunto, ma mai permanentemente: ascese e cadute costituiscono una caratteristica dell’instabilità e della mobilitazione di questi anni).

    Uno stato d’emergenza permanente caratterizza la vita sovietica degli anni trenta. La rapidissima industrializzazione provoca scosse telluriche nella società, che il partito si propone di controllare e indirizzare; provoca un sommovimento nella composizione stessa del partito. Gli anni trenta sono anni di una rivoluzione sociale senza precedenti e la Russia compie in 10 anni il percorso che altre società hanno fatto in oltre un secolo.

    La guerra introduce un ulteriore fattore di instabilità con il rischio di disgregazione e distruzione dello stato sovietico programmata da Hitler. La struttura sociale sovietica riesce a superare la difficilissima prova. Gli anni successivi sono dedicati con successo alla ricostruzione postbellica, intrapresa in un paese che ha subito i danni più pesanti della guerra distruttiva hitleriana e senza alcun aiuto esterno, nelle condizioni di una nuova guerra – la “guerra fredda” - che gli USA avevano intrapreso contro l’URSS.

    Problemi economici del socialismo si colloca dunque ad uno snodo cruciale della storia dell’URSS: si può guardare alla strada percorsa, alle realizzazioni, alle vittorie ottenute in un periodo tumultuoso e senza tregua; si deve guardare al futuro, allo sviluppo della società socialista, ponendo infine l’accento sulla sua necessaria “regolarizzazione”, “stabilizzazione”, fuoriuscita dallo stato d’emergenza. Non è un caso che nel testo si insista tanto sulle leggi oggettive del socialismo. E che cos’è una legge se non regolarità, fine di uno straordinario e prolungato stato d’eccezione?

    Il “testamento economico-politico” di Stalin è una riflessione sulla struttura economico-sociale che si è costruita, ma non ha assolutamente il carattere di uno scritto sistematico e compiuto, sì quello di un testo “reattivo”, “occasionale”, di risposta e puntualizzazioni (al pari di celebri precedenti nella storia del marxismo, da Miseria della filosofia alla Critica del programma di Gotha, dall’Antidühring alle Osservazioni di Lenin al libro di Bucharin Economia del periodo di transizione). Raccolti in un piccolo libro, furono pubblicati quattro scritti di Stalin, prodotti in un arco di tempo di alcuni mesi, dal 1 febbraio 1952 al 28 settembre dello stesso anno: 1. Osservazioni sulle questioni economiche relative alla discussione del novembre 1951; 2. Risposta al compagno Aleksandr Il’ič Notkin; 3. Sugli errori del compagno Jarošenko; 4. Risposta ai compagni A. V. Sanina e V. C. Vensger[31].

    Il primo, e più corposo, prende spunto dalla discussione per giudicare il progetto di manuale di economia politica. L’invito a pubblicare un manuale ufficiale del partito per la formazione comunista dei quadri era stato espressamente formulato in una direttiva del CC del partito comunista (bolscevico) pansovietico del 14 novembre 1938, in concomitanza con la pubblicazione del Breve corso di storia del VKP(b): era necessario, si diceva, impostare le questioni teoriche attuali, generalizzare l’esperienza della costruzione del socialismo, rispondere alle questioni poste dai quadri, elaborare nuovi problemi teorici e sviluppare creativamente il dibattito teorico. L’invito segnalava indirettamente le grandi carenze teoriche degli economisti sovietici, che la rivista Problemy Ekonomiki qualche mese dopo (nel n. 3 del 1939) denunciava apertamente: gli economisti si limitano ad una descrizione elementare della costruzione socialista e alla ripetizione di qualche formula dei classici del marxismo, ma non sanno applicare creativamente il marxismo-leninismo allo studio “delle leggi dello sviluppo della società, delle leggi di movimento della nostra società sovietica” [32]. Era questa la ragione per cui il manuale che l’Accademia delle Scienze dell’URSS aveva programmato di terminare nel 1938, non poté essere soddisfacentemente redatto. Nel gennaio 1943 fu pubblicato un articolo redazionale della rivista Pod znamenem marksizma (Sotto la bandiera del marxismo), dal titolo Alcune questioni dell’insegnamento dell’economia politica, in cui si poneva la questione di definire chiaramente l’oggetto dell’economia politica, “scienza dello sviluppo dei rapporti di produzione tra gli uomini”, e di spiegare il carattere delle leggi economiche del socialismo: “negare l’esistenza di tali leggi economiche significa scadere nel più volgare volontarismo, che, in luogo di un processo regolare, conforme a legge (zakonomernyj)[33] di sviluppo della produzione, pone l’arbitrio, la casualità, il caos. È chiaro che con tale approccio alla questione si perde ogni criterio per valutare la correttezza di questa o quella linea, di questa o quella politica, si perde la comprensione della regolarità di questi o quei fenomeni nel nostro sviluppo sociale”[34]. L’articolo suscitò grande interesse e dibattiti, non solo in URSS, ma anche all’estero[35], e nella seconda metà degli anni quaranta si intensificò la discussione sovietica tanto sullo statuto teorico dell’economia politica, sul suo oggetto, sulla sua possibilità di estendere tale scienza a tutti i modi di produzione e non solo a quello capitalistico, come aveva invece sostenuto N. Bucharin in Economia del periodo di transizione[36], quanto sulle leggi economiche del socialismo[37]. Questa discussione, che può apparire al lettore odierno artificiosa, “bizantina”, giocata spesso sull’interpretazione di alcuni termini, su puntualizzazioni esasperate di chi sembra dilettarsi nel mestiere di spaccare il capello in quattro, ha invece – come si può ben intuire – un risvolto pratico-politico di importanza cruciale, che risponde sostanzialmente alla domanda: si procederà nella pianificazione e nella direzione e organizzazione dell’attività economica sulla base del “lavoro d’assalto”, di un volontarismo che rispondeva all’esigenza e all’emergenza di una fase tumultuosa di passaggio che dovette essere – per quanto sinora detto - forzatamente rapido da una società agricolo-industriale ad una industriale-agricola, o si pianificherà e organizzerà la produzione e distribuzione di beni sulla base di una valutazione oggettiva e non arbitraria delle condizioni reali del paese, in modo che il socialismo diventi “regolarità”, abitudine, costume nella pratica dei milioni e milioni di cittadini sovietici? Stalin avverte il bisogno di intervenire in prima persona, con tutta l’autorevolezza di cui dispone[38], nella battaglia contro il volontarismo in economia. La prima delle sue osservazioni sulla bozza di manuale di economia politica presentato nel 1951 riguarda proprio la questione del carattere delle leggi economiche del socialismo. Esse, ribadisce Stalin più volte, hanno carattere oggettivo, “riflettono le leggi di sviluppo dei processi della vita economica, i quali si compiono indipendentemente dalla nostra volontà”[39] e precisa:

    Si dice che la necessità dello sviluppo pianificato (proporzionale) dell’economia del nostro paese dà la possibilità al potere sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e di crearne delle nuove. Ciò non è affatto vero. Non si possono confondere i nostri piani annuali e quinquennali con la legge economica obiettiva dello sviluppo pianificato, proporzionale, dell’economia nazionale. La legge dello sviluppo pianificato è sorta come contrapposizione alla legge della concorrenza e dell’anarchia della produzione nel capitalismo [...] è entrata in vigore perché un’economia nazionale socialista si può avere soltanto sulla base della legge economica dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale. Questo significa che la legge dello sviluppo pianificato dell’economia nazionale dà la possibilità ai nostri organi pianificatori di pianificare in modo giusto la produzione sociale. Ma non si deve confondere la possibilità con la realtà. Per far sì che questa possibilità diventi realtà occorre studiare questa legge economica, impadronirsene, occorre imparare ad applicarla con perfetta cognizione di causa, occorre elaborare dei piani che riflettano per intiero l’esistenza di questa legge. Non si può dire che i nostri piani annuali e quinquennali riflettano per intiero le esigenze di questa legge economica[40].

    Questo riferimento esplicito ad errori nella pianificazione e a interventi arbitrari del Gosplan assume – nello snodo cruciale in cui questo scritto appare, quale passaggio di fase ad una riflessione su quanto e come si è costruito – particolare importanza. Vi sono nel testo staliniano altri riferimenti estremamente critici di plateali errori cui possono essere indotti i pianificatori dall’assenza di una visione oggettiva e realistica e di una teoria del calcolo economico:

    I dirigenti d’azienda e i dirigenti della pianificazione avanzarono una proposta che non poté non riempire di stupore i membri del Comitato centrale perché, secondo questa proposta, il prezzo di una tonnellata di grano doveva essere quasi uguale a quello di una tonnellata di cotone, e il prezzo di una tonnellata di grano veniva eguagliato a quello di una tonnellata di pane[41].

    Lo scritto staliniano non ha qui assolutamente un tono trionfalistico e vi si possono leggere, direttamente o in controluce alcune note critiche, che aprono squarci significativi sulle prospettive dell’URSS in questo passaggio cruciale, in cui appare sostanzialmente terminata la fase della costruzione d’assalto e a qualsiasi costo, nonché la ricostruzione postbellica. Nel 1938, a qualche anno di distanza dall’annunciata vittoria dei rapporti di produzione socialisti in URSS, vittoria sancita dalla Costituzione del 1936 (ed è questa la data che economisti e storici sovietici, ancora negli anni ’80, indicavano come fine del “periodo di transizione” e passaggio al socialismo[42]), Stalin scriveva che “i rapporti di produzione corrispondono perfettamente allo stato delle forze produttive, perché il carattere sociale del processo della produzione è rafforzato dalla proprietà sociale dei mezzi di produzione”[43], nello scritto del 1952, pur ribadendo questa corrispondenza generale, ne indica anche il carattere ancora imperfetto:

    I nostri attuali rapporti di produzione attraversano un periodo in cui, corrispondendo appieno alla crescita delle forze produttive, le fanno procedere in avanti a passi da giganti. Ma non sarebbe giusto accontentarsi di questo e ritenere che non esista nessuna contraddizione tra le nostre forze produttive e i rapporti di produzione. Contraddizioni esistono senz’altro ed esisteranno, in quanto lo sviluppo dei rapporti di produzione ritarda e ritarderà rispetto allo sviluppo delle forze produttive[44].

    Può essere interessante notare a proposito del rapporto tra “volontarismo” e “oggettivismo” come un altro grande dirigente rivoluzionario, impegnato a guidare un paese contadino ben più arretrato della Russia presovietica alla duplice transizione alla fuoriuscita dall’arretratezza e al socialismo, consideri questa posizione di Stalin, in un testo denso di minuziose e puntigliose annotazioni sui Problemi economici del socialismo. Commentando nel 1958 il passo di Stalin in cui si critica la confusione che gli economisti volontaristi fanno tra “leggi scientifiche, che riflettono processi oggettivi che si sviluppano nella natura o nella società in modo autonomo e al di fuori della volontà dell’uomo” e leggi emanate dai governi, “espressione della volontà dell’uomo”, che “hanno valore solo in quanto imposte dal potere giuridico”, Mao Ze Dong scrive:

    Questa concezione delle leggi è fondamentalmente giusta; però ha due difetti: primo, non mette abbastanza in luce l’attivismo soggettivo del partito e delle masse; secondo, non è completa; non spiega che le leggi statali sono giuste non solo se nascono dalla volontà della classe operaia, ma riflettono anche correttamente le esigenze delle leggi oggettive dell’economia[45].

    Siamo all’epoca del “grande balzo in avanti” e delle comuni popolari, dell’accelerazione estrema e volontaristica che i dirigenti cinesi intendono imporre allo sviluppo dell’economia, ripercorrendo, in qualche modo, un’analoga strada di “lavoro d’assalto” che aveva caratterizzato la prima fase della pianificazione sovietica: l’attivismo soggettivo, non riuscì ad evitare – né in URSS, né in Cina – pesanti errori nell’organizzazione economica.

    L’altro grande problema affrontato da Stalin nel suo scritto è quello della produzione mercantile e dell’azione della legge del valore nel socialismo, questione che sarà poi trattata nel complesso nella pubblicistica sovietica successiva come “questione dell’esistenza di rapporti mercantil-monetari nel socialismo”. Anche qui Stalin scioglie un nodo a lungo dibattuto sin dai tempi del “comunismo di guerra”, chiarendo che di per sé la forma merce non implica immediatamente rapporti capitalistici, mentre questi ultimi non possono darsi senza la forma merce:

    Si dice che la produzione mercantile in qualsiasi condizione deve portare e necessariamente porterà al capitalismo. Questo non è vero. Non sempre e non in qualsiasi condizione! Non si può identificare la produzione mercantile con la produzione capitalistica. Son due cose diverse. La produzione capitalistica è la forma più alta di produzione mercantile. La produzione mercantile porta al capitalismo solamente se esiste la proprietà privata, se la forza lavoro si presenta sul mercato come una merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di produzione, se, di conseguenza, esiste nel paese un sistema di sfruttamento degli operai salariati da parte dei capitalisti. La produzione capitalistica incomincia là, dove i mezzi di produzione sono concentrati in mani private e gli operai, privi dei mezzi di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro come una merce. Senza di ciò non vi è produzione capitalistica[46].

    Nella società sovietica tale produzione, continua Stalin, è invece limitata e controllata. Essa si deve essenzialmente allo scambio che intercorre tra le due principali forme della proprietà socialista, statale e cooperativo-colcosiana. Tale forma di produzione scomparirà, ma in un futuro non prossimo, con l’unificazione – volontaria e non coatta, poiché la proprietà colcosiana è una forma di proprietà socialista – delle due forme di proprietà e col passaggio alla fase superiore del comunismo, quando anche lo stato si estinguerà:

    Con l’estendersi del campo d’azione del socialismo nella maggior parte dei paesi del mondo lo stato si estinguerà e, naturalmente, in legame con ciò cadrà la questione del passaggio del patrimonio di singole persone e di singoli gruppi in proprietà dello stato. Lo stato si sarà estinto, ma la società continuerà ad esistere. Di conseguenza, erede della proprietà di tutto il popolo non sarà lo stato, che si sarà estinto, ma sarà la società stessa, rappresentata dal suo organo economico dirigente centrale[47].

    Ma perché questo passaggio al comunismo si realizzi occorrono condizioni di sviluppo economico e culturale, che consentano la riduzione della giornata lavorativa a sei-cinque ore (era l’idea espressa da Lenin nella prima stesura dei Compiti immediati del potere sovietico), una ricchezza diffusa e un’istruzione politecnica che dia la possibilità a ciascuno di scegliere liberamente il proprio lavoro e non essere inchiodato alla stessa professione[48] (riecheggiano qui i passi marxiani dell’Ideologia tedesca e del Capitale).

    La soluzione teorica adottata da Stalin sulla questione della persistenza di forme economiche mercantil-monetarie e della legge del valore nell’economia sovietica (le ragioni di esistenza delle quali sono individuate essenzialmente nella presenza di due forme di proprietà, statale e cooperativo-colcosiana), se apre la strada al riconoscimento della produzione mercantile nel socialismo e al calcolo economico in termini di valore, lascia tuttavia ancora irrisolto il problema più generale del rapporto economico e del calcolo economico nel socialismo. Le categorie del valore – merce, salario, denaro -, dice correttamente Stalin, non sono necessariamente categorie capitalistiche e possono essere presenti, in forma controllata e subordinata, anche in modi di produzione non capitalistici. Il che significa, però, che la presenza di rapporti mercantil-monetari in una formazione economico-sociale che abbia attuato la nazionalizzazione generalizzata dei mezzi di produzione – prima forma della socializzazione socialista – può essere spiegata anche senza far ricorso alla peculiarità storica della costruzione socialista in URSS caratterizzata dalla compresenza di una forma statale ed una cooperativo-colcosiana.

    Un vasto filone di teorici marxisti “di sinistra” ha criticato a lungo la presenza delle forme mercantil-monetarie come sintomo rivelatore di rapporti capitalistici in URSS: dalle critiche di A. Bordiga, fino a Le capital socialiste di Bernard Chavance, allievo di Bettelheim, per citarne solo alcuni tra i tanti[49]. A questi critici si può rispondere che essi ignorano le categorie dialettiche della transizione, che pensano strutturalisticamente in termini di sostituzione di un modo di produzione all’altro. In termini di aut aut: o socialismo o capitalismo.

    Ma già Lenin aveva posto la questione della pluralità di modi di produzione all’interno di un’unica formazione economico-sociale e del kto pobedit? (chi vincerà?) ritenendo non scontato il risultato della vittoria del socialismo, ma fortemente problematico. A quella domanda Stalin rispondeva nel 1936 affermando la vittoria del socialismo che la nuova costituzione era chiamata a sancire. Sedici anni dopo, tuttavia, le cose non appaiono del tutto scontate. Stalin denuncia l’incapacità dei quadri della pianificazione di avvalersi della legge del piano, la pianificazione non è affatto ottimale. E denuncia gli errori nel calcolo economico.

    Il problema del calcolo economico e della “pianificazione ottimale” nell’ambito di una oramai data per scontata “regolarità” di un sistema socialista che veniva designato come “maturo” (e, dunque, per definizione, estraneo alle intemperanze e alle mobilitazioni emergenziali della sua “fase giovanile” di formazione degli anni ’30) continuerà negli anni successivi a travagliare gli economisti sovietici e del “campo socialista”, costituitosi all’indomani della seconda guerra mondiale e fonte di ulteriori esperienze e studi di “costruzione del socialismo”. È un problema teorico e politico ad un tempo, poiché la pianificazione, in URSS e nelle altre “democrazie popolari”, se riesce ancora negli anni ’60 a tenere un certo ritmo, comincia negli anni ’70 ad incontrare crescenti difficoltà, tanto meno giustificabili quanto più si dichiarava “sviluppato” o “maturo” [50] il “socialismo reale”.

    Tra gli anni ’50 e gli anni ’70 si svolgeranno ricerche, dibattiti teorici e tentativi di riformare il sistema economico. Non sarà assolutamente un percorso lineare: processi di decentramento e autonomizzazione delle imprese, come con la riforma Koygin del 1965, si alterneranno a momenti di riaccentramento amministrativo, in un movimento complesso di ricerca di soluzioni ottimali nell’ambito di un sistema socialista e di difesa di interessi particolaristici e settoriali che il ricorso alla categoria di “revisionismo” non riesce a comprendere e spiegare pienamente. Vi è certamente un “revisionismo” nella teoria e nelle riforme economiche degli anni 1950-1970, ma sarebbe sbagliato e fuorviante qualificare l’insieme di questi tentativi di trovare una soluzione ai problemi della pianificazione e del calcolo economico in un’economia basata sulla proprietà statale generalizzata dei mezzi di produzione come responsabili dello scacco successivo del socialismo sovietico e delle democrazie popolari. È una spiegazione mitologica e semplificatoria e, in definitiva, “tranquillizzante”, che parte dal presupposto che le questioni fondamentali - teoriche e pratiche - di un’economia socialista fossero tutte già risolte nel 1936 o nel 1952, e che, dunque, la revisione sia stata un deliberato tradimento. Ma i problemi c’erano – ci sono – e non sono soddisfacentemente risolti. Lo scritto di Stalin lo rivela – per quel che dice e per i problemi che lascia aperti.

    L’URSS sotto la guida del gruppo dirigente staliniano riuscì a vincere battaglie decisive, prima di tutto quella di conservare una trincea rivoluzionaria. Riuscì a realizzare una transizione dall’arretratezza all’industrializzazione nel giro di pochi, decisivi anni, con il concorso partecipe e consapevole della parte più attiva e generosa della società (senza il quale i piani “tesi” sarebbero stati irrealizzabili). E, dunque, il giudizio storico che a distanza di mezzo secolo si può pronunciare su quell’esperienza non può non essere nel complesso positivo. Al di là di errori e contingenze storiche, Stalin consolidò la vittoria della rivoluzione russa, lasciando aperta la possibilità di ulteriori trasformazioni e rotture rivoluzionarie.

    Ma assumere quanto si realizzò in URSS come il modello perfetto e assoluto, come il classico di una transizione al socialismo, sarebbe errato, antidialettico, e, in definitiva, contrario allo spirito dell’ultimo scritto staliniano.

    NOTE:

    [1] Giulio Pietranera, Capitalismo ed economia, Einaudi, Torino, 1966, p. 226.

    [2] N. Spulber, La strategia sovietica per lo sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1970, p. 105.

    [3] V. Lel’čuk, Ju. Poljakov, A. Protopopov, Storia della società sovietica, Edizioni Progress, Mosca, 1974, p. 146; 156-157.

    [4] Il ruolo del grande capitale straniero – che la NEP invitava a investire in URSS con la politica delle “concessioni” - fu nel complesso insignificante: “La produzione delle aziende concessionarie raggiunse la punta più alta nell’esercizio 1927-28 con lo 0,6% della produzione globale dell’industria sovietica”; in Lelčuk, op. cit., p. 128.

    [5] Senza riduzione del salario. L’annuncio venne dato nel decimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre. Cfr. Lelčuk, op. cit., p. 121.

    [6] A. Agosti, Stalin, Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 71-72.

    [7] Si veda l’opuscolo Il compito principale dei nostri giorni. Sull’infantilismo di “sinistra” e sullo spirito piccolo-borghese (1918), ampi brani del quale sono ripresi in uno degli scritti più importanti per la spiegazione della “Nuova politica economica” (NEP), Sull’imposta in natura (maggio 1921).

    [8] Cfr. N. Bucharin – E. Preobraženskij, L’accumulazione socialista (a cura di L. Foa), Ed. Riu., Roma, 1969. Cfr. anche Spulber, op. cit.

    [9] Pubblicato sulla Pravda del 2 marzo 1930: “Non si possono impiantare i kolchoz per forza. Sarebbe stupido e reazionario. Il movimento di collettivizzazione agricola deve poggiare sul sostegno attivo delle masse fondamentali dei contadini. Non si possono trapiantare meccanicamente nelle regioni meno sviluppate le forme di collettivizzazione delle regioni sviluppate. Sarebbe stupido e reazionario. Una simile “politica” discrediterebbe di colpo l’idea della collettivizzazione […] Si può dire che il principio della volontarietà e della considerazione attenta delle condizioni locali non venga violato in una serie di regioni? No, purtroppo, non lo si può dire […] L’artel non si è ancora consolidato e già si “collettivizzano” le abitazioni, il bestiame minuto, il pollame da cortile, e inoltre questa “collettivizzazione”, poiché non esistono ancora le condizioni che la rendono necessaria, degenera in una burocratica fabbrica di decreti […] Come sono potuti sorgere nelle nostre file questi balordi esercizi di “collettivizzazione”, questi tentativi ridicoli di saltare al di sopra di se stessi, tentativi che hanno lo scopo di eludere le classi e la lotta di classe, ma che di fatto portano acqua al mulino dei nostri nemici di classe? […] Sono potuti sorgere soltanto come risultato di stati d’animo balordi esistenti in una parte del partito: “Tutto possiamo!”. “Che c’importa degli ostacoli!”…” (in Stalin, Opere scelte, Edizioni del Movimento studentesco, Milano 1973, pp. 705-708).

    [10] M. Dobb, Storia dell’economia sovietica, II edizione, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 26.

    [11] Si veda – ma è solo un esempio tra tanti - la lettera di L.M. Kaganovic a G.K. Ordžonikidze del 4 settembre 1935: “Cio che accade, ad esempio, con gli ammassi di grano di quest'anno è la nostra tangibile vittoria senza precedenti, è la vittoria dello stalinismo. Abbiamo già portato all'ammasso un miliardo di pud di grano + 370 milioni rimasti dall'anno precedente. L'Ucraina ha terminato, un'intera serie di altri kraj hanno terminato. [...] Da me al trasporto le cose vanno non male, ma occorre stringere tutto per l'inverno. In particolare ora si è avuto un grande rivolgimento con l'ordine sulle locomotive. Bisogna pensare che ciò apporterà un notevole rafforzamento della vittoria”. (in Stalinskoe Politbjuro v 30-e gody (Il Politbjuro staliniano negli anni Trenta), a cura di O. Chlevnjuk, A. Kvašonkin, L. Košeleva, L. Rogovaja, edizioni “AIRO-XX”, Mosca, 1995, p. 146.

    [12] Cfr. L. Trockij, La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli, Roma, 1972, pp. 6-8.

    [13] Cfr. URSS - Le costituzioni 1977 1936 1924, Edizioni del Riccio, Firenze, 1977, pp. 57-58.

    [14] Cfr. E.H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923, Einaudi, Torino, 1964, pp. 547 e 512-13.

    [15] Cfr. V.I. Lenin, Il piano economico unico (Pravda 22.2.1921).

    [16] Il seguente passo, tratto da Lelčuk…, op. cit (pp. 137-138), può dare un’idea di come anche la storiografia di era post-staliniana considerasse con entusiastico orgoglio l’impresa del primo piano quinquennale: “Sulla scena un’immensa carta geografica riproduceva l’Unione Sovietica così com’essa sarebbe diventata fra cinque anni. Mentre l’oratore parlava, sulla carta geografica si accendevano decine di segni convenzionali: stelle, cerchietti, quadretti, linee. Era come se tutti potessero vedere con i propri occhi le nuove centrali elettriche, le miniere di carbone, i pozzi di petrolio, le fabbriche di trattori e di automobili, i kolchoz e i sovchoz, le nuove città, le ferrovie. Un mormorio di ammirazione percorse la sala. Alla fine della relazione la carta geografica si illuminò tutta, aprendo, come al cenno di una bacchetta magica, un sipario sul futuro e mostrando l’Unione Sovietica così come sarebbe stata nel 1933: un potente stato industriale-colcosiano. I delegati reagirono con una tempesta di applausi. Tutti si alzarono e intonarono l’Internazionale. Per quei tempi il piano era veramente grandioso. Tre grossi volumi contenevano le più importanti direttive del piano, i compiti assegnati a ciascun settore dell’economia, a tutte le regioni del paese […] Più di ¾ di tutti gli investimenti nell’industria erano destinati allo sviluppo dell’industria pesante […] L’industria doveva occupare il posto d’avanguardia nell’economia del paese, in modo da diventarne il settore dominante”.

    [17] Cfr. il rapporto di Stalin al XV Congresso del partito (dicembre 1927): “La sola via d’uscita è quella di riunire le piccole e disperse aziende contadine in vaste aziende agricole uniche basate sulla coltivazione comune della terra in modo da introdurre la coltivazione collettiva della terra sulla base di una tecnica nuova e più progredita […] facendo uso di macchine agricole, di trattori e di metodi scientifici di agricoltura intensiva. Non vi è altra via d’uscita [Drugich vychodov net]”, in I.V. Stalin, Sočinenija, vol. X, Gosudarstevennoe Izdatel’stvo političeskoj literatury, Mosca, 1953, pp. 305-306.

    [18] “Nel 1934 i kolchoz raggruppavano più del 71% di tutte le aziende contadine e coltivavano più dell’87% dei seminativi” (Lelčuk… op. cit., p. 178).

    [19] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 28: “un capitale universale che non abbia di fronte a sé altri capitali con cui scambiare [...] è un assurdo”.

    [20] K. Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 111.

    [21] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro II, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 331.

    [22] Ivi, p. 139.

    [23] M. Dobb, op. cit., p. 387.

    [24] Cfr. C. Bobrowski, La formazione del sistema di pianificazione sovietico, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 113.

    [25] V.V. Kujbyšev, L’organizzazione della pianificazione, relazione al plenum del Gosplan dell’URSS (1931), in Scritti sulla pianificazione sovietica 1924-1935, a cura di M. Boffito, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 187-88.

    [26] M. Dobb, op. cit., p. 407.

    [27] Cfr. C. Boffito, Il sistema economico sovietico, pp. 447-467; G. Duchêne, L'économie soviétique, La Découverte, Paris, 1987.

    [28] Cfr. AA.VV., Istorija političeskoj ekonomii socializma [Storia dell’economia politica del socialismo], Edizioni dell'Università di Leningrado, 1983, p. 195.

    [29] “Noi siamo in ritardo rispetto ai paesi avanzati da cinquanta a cento anni. Dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni. O lo faremo, o saremo schiacciati” (Sui compiti dei dirigenti dell’industria. Discorso alla prima conferenza dei dirigenti dell’industria socialista dell’Unione sovietica, 4 febbraio 1931, in Stalin, Opere scelte, cit., pp. 730-31).

    [30] Paolo Ciofi, L’edificazione dell’economia sovietica, in Critica marxista, luglio ottobre 1967, pp. 198-199.

    [31] Gli scritti furono pubblicati subito in Italia nel supplemento al numero 9/1952 di Rinascita. Li cito dall’edizione De Donato, Bari, 1976, con introduzione di F. Botta e uno scritto di E. Sereni.

    [32] Cfr. AA.VV., Istorija... op. cit., pp. 25-26. Da questo testo sono tratte anche altre successive notizie sul dibattito sovietico sulla teoria economica.

    [33] L’espressione è tipicamente russa e difficilmente traducibile pienamente in italiano ed esprime l’idea di una conformità ad una legge oggettiva.

    [34] Riportato in Istorija...., cit., p. 27.

    [35] L’articolo fu tradotto integralmente su The American Economic Review, sett. 1944, pp. 501-530.

    [36] Bucharin sostiene che l’economia politica può essere scienza – che ha il compito di svelare l’essenza che si cela dietro il fenomeno - solo per il modo di produzione capitalistico, basato sull’occultamento dei reali rapporti di produzione (il libero acquisto nella sfera della circolazione della merce forza-lavoro cela l’estorsione di pluslavoro che si attua nella sfera della produzione). Ma nel socialismo, in cui i rapporti sociali sono trasparenti, l’economia politica si trasforma in scienza dell’organizzazione. Cfr. N. Bucharin, Economia del periodo di trasformazione, Jaca Book, Milano, 1970.

    [37] Si vedano, ad es. gli articoli e saggi di L. A. Leont’ev pubblicati nella seconda metà degli anni quaranta.

    [38] E che gli consente anche di opporsi fermamente a che nel nuovo manuale vi sia un “capitolo speciale su Lenin e Stalin quali fondatori dell’economia politica del socialismo”, cfr. Problemi economici del socialismo, op. cit., p. 103.

    [39] Ivi, p. 63

    [40] Ivi, p. 61-62. Le evidenziazioni in grassetto sono mie, A. C.

    [41] Ivi, p. 76.

    [42] Cfr. ad es. V. Lelčuk… op. cit., capitolo VII “Bilancio del periodo di transizione”; AA.VV., Istorija političeskoj ekonomii socializma, Ed. dell’Università di Leningrado, 1983, cap. III, “Il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo”; Economia politica – Il socialismo (a cura di A. Rumjancev), Edizioni Progress, Mosca, 1985, cap. I, § 1: “Necessità ed essenza del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo”; § 4 “La vittoria del socialismo”: “Nell’URSS la costruzione della base tecnico-materiale del socialismo è stata realizzata a seguito del felice adempimento del piano GOELRO e dei due primi piani quinquennali […] Nell’URSS il sistema di gestione socialista ha iniziato a dominare incontrastato nell’economia a partire dalla metà degli anni ‘30” (p. 28).

    [43] Cfr. Materialismo storico e materialismo dialettico, in Opere scelte, cit., p. 938.

    [44] Stalin, Problemi economici del socialismo, cit., p. 129.

    [45] Mao Tse-Tung, Opere, vol. 17°, Edizione Rapporti Sociali, Milano, 1993, p. 64. Evidenziazione in corsivo mia, A. C.

    [46] Stalin, Problemi..., cit., p. 69.

    [47] Ivi, p. 152-153.

    [48] Cfr. ivi, p. 129-132.

    [49] Cfr. il classico A. Bordiga, Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, Editoriale Contra, Milano 1966; e B. Chavance, Le capital socialiste, Le Sycomore, Paris, 1980.

    [50] La definizione di “socialismo sviluppato” o “maturo” si trova nei testi sovietici degli anni 1970-’80. Ad esempio in Rumjancev, op. cit., pp. 34-36.


    (in : Problemi della transizione al socialismo in URSS, Atti del convegno, Napoli 21-23 novembre 2003, a cura di Andrea Catone e Emanuela Susca, La città del sole, Napoli, 2004).

    Ringraziamo l’editore e il “Centro studi sui problemi della transizione al socialismo”, con sede in Napoli, che ci hanno cortesemente trasmesso il testo.

  7. #7
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    Parto da questo saggio per dire che per i cinesi la NEP, che servì certo fare riprendere fiato all'economia sovietica dopo la guerra civile e il comunismo di guerra, ma che diede vita ad una economia stagnate incapace di approvvigionare le città e lasciata comunque alle speculazioni sui prezzi deli prodotti agricoli da parte dei nepmen e dei kulaki. La NEP aveva prodotto una economia fondata sull'autocosumo, infatti l'85% dei raccolti era consumato direttamente dai contadini.
    Per dire le speculazioni dei commercianti e dei kulaki portavano il prezzo del pane che all'origine era di 10 kopeki al kilo fino a 70 kopeki. Prezzo che dopo la collettivizzazione fu riportato a 20 kopeki. La collettivizzazione fu un indubbio successo dopo gli eccessi e gli errori iniziali denunciati da Stalin in Vertigine di successi. Nel 1935 fu abolita la tessera del pane e nel 1937 i contadini tornarono ai redditi del 1913, che sarebbe stato l'obiettivo della NEP mai raggiunto in realtà. L'URSS allora era esportatrice di beni agricoli e la crisi dell'agricoltura, della fine degli anni '50, era di là da venire. Fu indubbiamente anche un esempio di lotta di classe dove i contadini poveri che spesso erano reclutati come braccianti dai contadini ricchi appoggiarono decisamente la costituzione dei kolkhoz.
    L'economia sovietica in quel periodo ebbe risultati eccezionali sia nella produzione che nel livello di vita dei sovietici ben illustrati dall'articolo e anche dallo stesso Trotzky.
    Quindi i cinesi hanno riflettuto piuttosto sull'economia pianificata staliniana che non sulla NEP. Il loro obiettivo era uscire dal sottosviluppo e ci sono già riusciti. Oggi la Cina ha un PIL pro-capite a parità del costo della vita (Pouchaising Price Parity) al livello di paesi europei come la Bielorussia e l'Ucraina e superiore ad altri paesi europei come Serbia, Macedonia, Albania, Moldova spesso addirittura del doppio. Non solo, ma ha ridotto la povertà relativa dal 56% al 5% e quella assoluta da 250 milioni a 20 milioni.
    Questi eccezionali risultati hanno fatto si che la Cina sia oggi il modello di tutti i paesi socialisti: Laos, Vietnam, la stessa Corea del Nord ultimamente come pure la Bielorussia di Lukaschenko che ha detto di ispirarsi alla Cina socialista. Non è un caso che la Bielorussia nell'ultimo anno abbia assestato un +10% del PIL, pari a quello della Cina. Non solo ma lo stesso Chavez che vede nella Cina il baluardo della lotta anti-imperialista ha elogiato la sua economia. Evo Morales si è recato in Cina non appena eletto e ancora prima essere investito ufficialmente.

  8. #8
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    Ad esempio dire che siccome la Cina è un paese a socialismo di mercato e il mercato è in contraddizione con il socialismo- lo dice lo stesso Stalin- è una evidente sciocchezza. Deng dice che sia la pianificazione che il mercato possono esere utilizzati, e lo sono stati utilizzati concretamente, sia dal capitalismo che dal socialismo. Daltra parte ne Trotzky, ne Lenin, ne Bucharin sottovalutavano il ruolo del mercato.
    La produzione in Cina è data per il 33% da aziende a proprietà collettiva (statali), per il 37% da aziende autogestite (coopertive) e solo per il 30% da aziende "private". Metto tra parentesi il private perchè la maggior parte della produzione di questo settore è dato da aziende in Joint-Ventures che ritornano dopo venti anni di proprietà dello stato, oppure a capitale misto privati-stato oppure privati-cooperative. Il resto sono per la maggior parte aziende di dimensioni molto piccole che noi chiameremmo artigianali. Dunque il quadro macroeconico è senz'altro socialista.
    I cinesi hanno riflettuto sulla stagnazione che colpiva le società socialiste arrivate ad un certo livello di sviluppo. La programmazione economica aveva agito brillantemente fichè si trattava di portare fuori dal sottosviluppo ma era divenuta incompatibile per un paese complesso in cui ci sia allo stesso tempo una adeguata produzione di merci di consumo adatte ai gusti della gente, in cui si deve sviluppare il terziario e l'innovazione tecnologica. In URSS vigeva la cronica mancanza di merci, la produzione di merci spesso inservibili, l'arretratezza delle attrezzature. Questo ha fatto si che l'URSS diventasse un vaso di coccio tra vasi d'acciaio ed è andata in frantumi. Anche in URSS e poi nella Russia di Eltsin molti, e non solo i comunisti, chiedessero di adottare il sistema cinese.
    Dire poi che in Cina c'è una classe capitalista enormemente sviluppata....seh..lo 0,01% della popolazione cinese!!! A tanto ammontano i capitalisti degni di nota in Cina che spesso sono dirigenti di aziende miste!!!
    E quale sarebbe il peso politico di questa gente? L'unico "capitalista" ammesso al Comitato Centrale, per altro come membro supplente, è il presidente di una azienda mista!!!!
    In Cina per i diriginti corrotti c'è la pena di morte. Negli ultimi 7 anni due altissimi diriginti sono stati condannati a morte, sebbene la pena sia stata sopesa per due anni.

  9. #9
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    Citazione Originariamente Scritto da GendoIkari Visualizza Messaggio
    Confondere la NEP con quello che sta succedendo in Cina è un errore abnorme.
    Sono due cose enormemente differenti sia dal punto di vista delle intenzioni, sia dal punto di vista oggettivo della portata concreta.
    La NEP fu una "ritirata strategica" temporanea rispetto alla presunta (PRESUNTA) creazione del socialismo. Il centro della NEP non sono le imprese, ma sono le campagne. Ovvero l'abolizione della terribile e assurda guerra contadina legata alle requisizioni. Vi furono anche incluse norme di regolamento del mercato, che favorirono lo sviluppo di una piccola e numericamente inconsistente industria. Ma il grosso rimaneva saldamente sotto il potere diretto degli organi del partito-stato.
    La Cina non solo ha abbandonato nella sostanza ogni ambizione comunista, non solo nella Cina esiste una classe capitalista enormemente potente e sviluppata, collusa con il partito tramite mezzi di corruzione, non solo esistono determinate aree in cui tutto e lasciato in mano al capitalismo selvaggio, ma il partito si sta velocemente distaccando da forme di controllo economico anche nel resto del paese. Il processo cinese è di capitalizzazione a tutti gli effetti.
    Nulla di paragonabile alla "ritirata strategica" momentanea della NEP.
    Un "ritirata strategica " ? Si stavano accorgendo che il sistema non funzionava e cominciavano a fare marcia indietro.la NEP riguardava TUTTE le attivita' salvo quelle strategiche .Non riguardava affatto solo la campagna na TUTTO.
    Morta la NEP in URSS non trovavi piu' nemmeno chi riparava il rubinetto o rammendasse i calzoni.E fu il disastro !

    Altri Stari comunisti si guardarono bene da seguire tale strada vedi per esempio la DDR dove erano ammesse attivita' economiche fino a 15 dipendenti esclusi parenti e la terra resto' ai contadini resi magari proprietari distribuendo terre .

    Certo quanto succede in Cina va oltre la NEP ma lo spirito e' quello e del resto in Cina l'inziio della nuova fase era ben piu' modesto.Poi quando si comincia ..................................

    Sono convinto che se in Russia fosse stata seguita la strade NEP non sarebbero finiti là dove sono finiti ................

  10. #10
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    La NEP avrebbe finito con rompere l'alleanza Città-campagna, operai-contadini per lo scarso approvvigionamento della città da parte della campagna e per le inevitabili speculazioni sul prezzo del pane dei nepmen. Avrebbe portato alla completa stagnazione economica e alla stabilizzazione del sistema della requisizioni per rispondere alla crisi degli ammassi. Non si può giudicare una situazione concreta in astratto in base ad un idealistico dover essere che non è. In Unione sovietica dovevano dare da mangiare alla gente altro che balle. Avevano da gestire un continente mica un Centro Sociale della periferia milanese.
    Si dice che la collettivizzazioni fu una rivoluzione dall'alto. E meno male perchè se fosse stata esclusivamente dal basso si sarebbe risolta in una grade notte di S. Bartolomeo per i kulak e i Nepmen. Stalin stoppò in un qualche modo questa rivoluzione spontanea. La indirizzò come come doveva essere contro gli strati irriducibili dei contadini ricchi. Ma se non lo avesse fatto Stalin prima o poi si sarebbe lo stesso creata una alleanza tra operai e contadini poveri per strangolare in nepmen e sarebbe finita in un bagno di sangue.
    Il 20% dei contadini non avevano nemmeno gli atrezzi per lavorare la terra, andavano di fatto a lavorarla per kulak in condizioni di super-sfruttamento. E alla fine gli toccava pagare il pane almeno il doppio del suo costo di mercato. Perchè la NEP aveva finito con l'essere un mercato truccato. Un altro 20% non possedeva bestiame per lavorare i campi. Un'altro 30% non possedeva strumenti meccanici. I contadini avevano lavorato per secoli la terra in comune nei Mir e nelle comuni agricole. Perchè questa gente avrebbe dovuto opporsi alla collettivizzazione? Infatti chi lo ha detto che si oppose? Lo ha detto Robert Conquest che parlava di 10 milioni di kulak eliminati. Oggi noi sappiamo che furono 470 i kulak allontanati temporaneamente dalle loro residenze, insomma deportati per alcuni anni ma non eliminati. un milione e duecentomila considerati con le loro famiglie. L'1% della popolazione agricola. ma come la pensava il restante 99%? La tenuta dell'URSS durante la Grande Guerra Patriottica dimostra che la collettivizzazione fu popolare in URSS.
    Daltra parte quali erano le alternative? Le ipotesi di Bucharin che condannavano l'URSS alla stagnazione economica non sarebbero state in grado di renderla difendibile nella Guerra contro il nazismo, senza contare che avrebbero potuto portare a sollevazioni di massa nelle città data la cronica mancanza di prodotti agricoli. Insomma con la NEP l'URSS non sarebbe nemmeno arrivata alla Guerra mondiale. L'altra alternativa era quella prospettata dal trotzkista Proebrazensky nella Nuova Economia: un sistema permanente di requisizione violenta del raccolto fondato sullo sfruttamento di tutti i contadini per formare l'accumulazione originaria che avrebbe portato all'industrializazzione. Anche con questo sistema ci sarebbero state sollavazioni nelle campagne e anche se l'URSS fosse arrivata agli anni '40 non sarebbe riuscita a sopravvivere dato che i contadini si sarebbero schierati inevitabilmente con l'invasore.
    Insomma non si tratta di scegliere tra opzioni immaginarie, ma tra quelle disponibili tra coloro che si accingevano a costruire il primo esperimento della storia senza alcun cammino precedentemente predeterminato. Lì il socialismo si costruiva a vista.

 

 
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