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    Predefinito Le mani dei comunisti sul Referendum Monarchia-Repubblica del 2 Giugno 1946


    Vignetta di Giovanni Guareschi tratta dalla rivista "Candido": la repubblica ammaina la bandiera del Regno d'Italia, ma lo stemma sabaudo rimane alto nei cieli.







    Il 9 Maggio 1946, davanti al notaio Nicola Angrisani di Napoli, Vittorio Emanuele III abdicò alla Corona d'Italia. Si chiudeva così, su un semplice foglio di carta bollata da dodici lire, uno dei regni più lunghi e controversi del nostro Paese. In quanto la successione al Trono, in Italia, era regolata secondo la legge salica, il Luogotenente Generale del Regno Umberto di Savoia divenne Re ed assunse il nome di Umberto II. Il Principe Umberto era diventato Luogotenente Generale del Regno il 5 Giugno 1944 per volontà di Vittorio Emanuele III, esercitando da subito tutte le prerogative del Sovrano. Il 25 Giugno 1944 il Consiglio dei Ministri aveva approvato all'unanimità il famoso “decreto 151”, il cui primo articolo sancisce che, una volta terminato il conflitto, “verrà eletta a suffragio universale diretto e segreto una Assemblea Costituente per scegliere la forma dello Stato e preparare una nuova Costituzione”. Poiché la forma istituzionale dello Stato è una vicenda che riguarda tutti gli italiani, il Principe Umberto ritenne più democratico far risolvere la questione da tutto il popolo italiano, anziché da una ristrettissima cerchia di cittadini (l'Assemblea Costituente). Con un successivo provvedimento, dunque, il Principe Umberto di Savoia stabilì che la forma istituzionale dello Stato doveva essere scelta direttamente dal popolo mediante un referendum, da indirsi contemporaneamente alle elezioni per l'Assemblea Costituente. Il decreto legislativo luogotenenziale per l'indizione del referendum, in una sua parte, recitava che: “... qualora la maggioranza degli elettori votanti si pronunci...”, lasciando intendere che esisteva anche l'ipotesi che nessuna delle due forme istituzionali proposte (Monarchia o Repubblica) raggiungesse la “maggioranza degli elettori votanti”, maggioranza formata dalla somma non soltanto dei voti attribuiti alla Monarchia o alla Repubblica, ma anche dalle schede bianche e dalle scheda nulle. Assunta la Corona, il nuovo Re confermò solennemente la promessa fatta di rispettare il volere dei cittadini, liberamente espresso, circa la scelta fra Monarchia o Repubblica.
    Le votazioni per il referendum istituzionale e per l'Assemblea Costituente vennero fissate per Domenica 2 e Lunedì 3 Giugno 1946. Il Presidente del Consiglio dei Ministri Alcide De Gasperi avrebbe preferito che le due consultazioni elettorali si tenessero in due data distanti fra loro (prima l'elezione dell'Assemblea Costituente e, in un secondo momento, il voto per il referendum istituzionale), ma Umberto II, nel timore che un'Assemblea Costituente fortemente repubblicana avrebbe potuto proclamare la Repubblica senza attendere il responso referendario, fu irremovibile, e le due consultazioni vennero definitivamente abbinate per il 2 e 3 Giugno.
    Sorse immediatamente un grave problema: essendo in discussione i confini del territorio nazionale, bisognava determinare con esattezza l'ambito territoriale a cui si riferiva la consultazione degli elettori. O si prendeva in considerazione l'intero territorio italiano com'era prima della guerra (incluse, dunque, le province giuliane, dalmate e libiche), o si attendeva, prima di votare, che fosse stipulato un trattato di pace e fosse certa l'appartenenza o meno all'Italia di determinati territori. Vennero escluse per mancanza di tempo entrambe le possibilità, e gli italiani esclusi dal voto furono quasi tre milioni. Il governo impedì di esprimersi democraticamente ai cittadini dell'Alto-Adige e della Venezia-Giulia, non ancora tornate totalmente sotto la sovranità italiana; furono escluse dal voto l'Istria e la Dalmazia, non poterono votare gli italiani ancora presenti nelle colonie d'Africa e non votarono i reduci dai campi di prigionia e di concentramento.
    Un altro particolare che avrebbe reso irregolare il referendum fu che, trattandosi di una scelta secca fra Monarchia o Repubblica, tale rilevazione doveva essere eseguita sull'intero territorio nazionale. Invece, il governo aveva escogitato di attribuire alle trentuno “sedi circoscrizionali” (ossia a quelle che erano state costituite per la rilevazione dei dati relativi all'Assemblea Costituente) anche il compito di sommare i voti per la Monarchia o per la Repubblica, di redigere un verbale, e di mandare il verbale stesso alla Corte Suprema di Cassazione, alla quale rimaneva solo il compito di sommare le cifre dei verbali ricevuti. Questo sistema, però, presentava un gravissimo difetto: la totale assenza di controlli nelle sedi circoscrizionali. La Corte di Cassazione, di fatto, doveva accettare i verbali per buoni e veritieri, così com'erano. Poiché i risultati del referendum sarebbero stati su basi circoscrizionali e non su base nazionale, i funzionari addetti alla stesura dei verbali nelle sedi circoscrizionali non sarebbero stati assoggettati ad alcun controllo.
    Il Re Umberto II compì, prima del referendum, un lungo viaggio in Italia. Venne accolto trionfalmente in tutto il Meridione (specialmente nella monarchicissima Napoli), visitò Palermo, Cagliari, Torino, Milano e Genova. Durante il viaggio, il Sovrano constatò che la campagna elettorale in favore della Monarchia era resa difficilissima o impossibile in tutte le regioni a Nord del Lazio. Al Nord, durante i loro comizi, i militanti della Sinistra lanciavano contro la Monarchia le solite accuse (complicità con il fascismo, scatenamento della guerra, responsabilità della sconfitta, fuga da Roma per salvare la pelle, e così via con il repertorio collaudatissimo di accuse e menzogne sfornato dai politici, integrato dai nuovi argomenti “istituzionali” venuti ultimamente di moda, circa la decadenza e l'anacronisticità della Monarchia). Ogni tanto, qualche monarchico coraggioso si faceva avanti esprimendo le proprie opinioni: subito veniva bollato come “fascista” e, generalmente, finiva a botte. Ben diversa era la situazione nelle regioni a Sud del Lazio. Nel Meridione, la Repubblica appariva come un “salto nel buio”, ed il fascino sentimentale della Famiglia Reale era radicatissimo nel cuore di tutti. Nel Sud Italia, gli italiani vedevano se stessi nella Monarchia: la Monarchia, come loro, aveva temuto il comunismo al termine della Prima Guerra Mondiale, aveva subìto il fascismo, come loro aveva avuto la sventura di trovarsi in guerra e, come loro, aveva vissuto sofferenze e umiliazioni
    Preoccupato dell'indiscutibile fedeltà monarchica del Meridione, il governo (formato principalmente da repubblicani) inviò al Sud forti contingenti di polizia “ausiliaria”, composta da ex partigiani di fede repubblican-comunista, arruolati in previsione di un uso del genere. Poiché il governo dava per certa la futura vittoria repubblicana, i compiti della polizia ausiliaria si riducevano alla repressione di eventuali rivolte monarchiche dopo la vittoria della Repubblica.
    Particolare attenzione venne data al 24 Maggio, che capitava proprio nel mezzo della campagna elettorale. Il 24 Maggio era giorno festivo e commemorava l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915. Per il governo era praticamente certo che, quel giorno, l'Italia si sarebbe riempita di manifestanti in favore della Monarchia. Il Ministro degli Interni Giuseppe Romita, socialista e repubblicano, fece diramare un comunicato nel quale, per scongiurare un trionfo monarchico, proibì qualunque manifestazione per la giornata del 24 Maggio 1946, motivandolo che si trattava di una ricorrenza comune a tutti gli italiani, da non inquinare con manifestazioni di parte. Umberto II cadde nel tranello, e proibì anche lui qualunque attività propagandistica. Così, i repubblicani ottennero il risultato di far perdere ai monarchici un giorno importantissimo e fortemente simbolico.
    Il 31 Maggio 1946, durante la visita a Genova, Umberto II dichiarò che la Monarchia, nel caso in cui il referendum istituzionale le fosse stato favorevole solamente con una maggioranza di poco superiore al 50%, si sarebbe spontaneamente sottoposta ad un nuovo referendum istituzionale al termine dei lavori dell'Assemblea Costituente. Poiché la Monarchia è una forma di Stato che riguarda tutti i cittadini, indipendentemente dal loro colore politico, facilmente si capisce la decisione del Sovrano, che commentò: “Non ha senso un Re del 51%”. Il proclama di Genova dimostrava indubbiamente la correttezza morale del Sovrano, ma non giovava a chiarire le idee ed, il 2 Giugno, la gente andò alle urne piuttosto frastornata.
    Dato che i partiti che si si presentavano in corsa per l'Assemblea Costituente erano praticamente tutti repubblicani ed i componenti dei seggi erano prevalentemente designati dai partiti, la percentuale di presidenti, segretari e scrutatori di fede monarchica era praticamente nulla, rendendo così difficilmente attendibile la veridicità dei verbali che venivano compilati con i voti guadagnati dalla Monarchia o dalla Repubblica ed inviati alla Corte di Cassazione.
    Le urne rimasero aperte fino alle ore 14:00 di Lunedì 3 Giugno ed, in serata, Alcide De Gasperi definì “molto alta” l'affluenza degli elettori. La fonte ufficiale delle informazioni è una sola: il Ministero degli Interni, presieduto dal repubblicano Romita. Presso la sala stampa del Viminale si riunirono decine di giornalisti ansiosissimi di notizie, ma Romita non ne diede, sistematicamente. Questo perché, fin dall'inizio, egli si era accorto che le cose per la repubblica non andavano benissimo. Nel Nord Italia non vi era affatto la prospettata “unanimità repubblicana”, ed i monarchici si assestavano, a seconda delle regioni, intorno al 40%. Il vero dramma, per Romita, arrivò dal Sud, dove la Monarchia stravinse in tutte le regioni. Infatti, come egli stesso ammise, “i voti repubblicani aumentavano troppo lentamente”, e lui cercava di sottrarsi a giornalisti e colleghi di partito. Con che faccia avrebbe detto a Nenni, o Togliatti, o a tutti gli altri, che la Monarchia stava vincendo, proprio a coloro che non volevano l'avventura del referendum?
    Si andò avanti così per tutta la giornata del 4 Giugno e, solo in serata, i giornalisti comunicarono che Monarchia e Repubblica si assestavano entrambe intorno al 50%, ma, per il momento, i dati erano ancora da considerarsi provvisori e parziali. La sera stessa, Alcide De Gasperi inviò una lettera autografa all'allora Ministro della Real Casa Falcone Lucifero.
    Il testo è il seguente: “Signor Ministro, Le invio i dati pervenuti dal Min. dell'Interno fino alle otto di stamane. Come vedrà si tratta di dati assai parziali che non permettono nessuna conclusione. Il min. Romita considera ancora possibile la vittoria repubblicana. Io, personalmente, non credo che si possa - rebus sic stantibus - giungere a tale conclusione”. Nella notte tra il 4 ed il 5 Giugno, infatti, la Monarchia si presentava in netto vantaggio e le sezioni elettorali erano stata scrutinate quasi tutte. Giuseppe Romita ricorda che, proprio quella notte, arrivò una “valanga di voti” per la Repubblica, ed essa passò in vantaggio. La versione di Romita è fortemente inverosimile, in quanto la “valanga di voti” in favore della Repubblica, a scrutinio già avanzatissimo, sarebbe stata senza dubbio una cosa rarissima. Le sezioni ancora da scrutinare erano poche, e appare davvero improbabile che, in quelle sezioni, praticamente la totalità degli elettori abbia votato talmente in massa per la Repubblica da farle guadagnare ben due milioni di voti in più rispetto alla Monarchia. In realtà, alle due del mattino del 5 Giugno la situazione venne presa in mano da Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista e Ministro della Giustizia. Togliatti aveva già lo schema delle cifre da propinare agli italiani nel pomeriggio del 5 Giugno, e ciò per il semplice motivo che le cifre non erano uscite dalle urne, ma erano state preparate a tavolino.
    Come già detto, non era previsto che i funzionari nelle sedi circoscrizionali dovessero essere assoggettati ad alcun controllo. Essi dovevano redigere un verbale ed inviarlo alla Corte di Cassazione, che doveva ritenerlo come indiscutibile. Tutto dipendeva, dunque, dall'onestà degli incaricati. La decisione del governo di considerare i risultati su base circoscrizionale e non su base nazionale (decisione apparsa a tutti, fin da subito, alquanto strana) sembrava dunque essere finalizzata alla vittoria repubblicana, vera o fasulla che fosse. Era senza dubbio più facile padroneggiare i risultati nelle sedi circoscrizionali piuttosto che a Roma presso la Corte di Cassazione, dove un unico controllo poteva impedire brogli. A facilitare l'operazione contribuì fortemente la struttura locale del risultato, che si presentava ovunque molto sbilanciato a favore dell'una o dell'altra parte. Era possibile, dunque, aumentare le percentuali repubblicane senza dare troppo nell'occhio. Per esempio, se nella circoscrizione di una città i risultati fossero stati di 70% contro 30%, ben pochi potevano accorgersi se veniva pubblicato un 76% contro 24%. Queste correzioni, inoltre, vennero favorite dal fatto che non si conosceva l'esatto numero degli elettori votanti. Tenendo presente una media scientifica di circa 60 iscritti per ogni 100 abitanti, si nota che nel repubblicano Nord vi è una media di circa 68,16 elettori per ogni 100 abitanti, e nel monarchico Sud una media di 57,60 elettori ogni 100 abitanti. A parte il fatto che ci si discosta grandemente dalla media scientifica del 60%, è fuori da ogni dubbio che la gonfiatura del numero degli elettori iscritti si realizza in un grosso aumento al Nord ed in una diminuzione al Sud. La differenza di iscritti fra Nord e Sud, che avrebbe dovuto essere di 2.688.000 divenne, nei dati ministeriali, di 5.241.000. Ecco perché Romita contava, a parità fra Monarchia e Repubblica nel Nord e nel Sud, in una sicura vittoria repubblicana!
    Ufficialmente, i voti validi vennero comunicati come 23.437.107 ma, probabilmente, essi furono circa 21.000.000. La cifra venne gonfiata, come si vede, di circa 2.000.000 perché, se così non fosse stato, la falsificazione del numero degli elettori sarebbe apparsa in tutta la sua evidenza (tanto che, nella città di Trento, si recò alle urne ben il 103% degli aventi diritto al voto!). In conclusione, gli aventi diritto al voto non superavano i 26.400.000 (contro i 28.000.000 proclamati da Romita), i votanti effettivi furono circa 22.500.000 (anziché 25.000.000), con circa 1.500.000 voti nulli. I voti validi furono indicativamente sui 21.000.000 (invece di 23.000.000). La Monarchia ottenne una maggioranza difficilmente precisabile nella sua entità, ma netta. Mentre Giuseppe Romita era conteso tra l'euforia del sogno realizzato ed il terrore dei pennacchi rosso-blu dei Carabinieri, Alcide De Gasperi andò da Umberto II, il 5 Giugno, per comunicargli la vittoria della Repubblica. Umberto II, senza sapere che i risultati erano stati abilmente contraffatti, disse che sarebbe partito per l'esilio solo dopo la proclamazione della vittoria repubblicana da parte della Corte di Cassazione. Nel Sud Italia le rivolte scoppiarono quasi subito. Il popolo, che aveva votato in maggioranza per la Monarchia, vedeva ora imporsi la Repubblica. Questo brontolio arrivò a scuotere i vertici dello Stato, Quirinale e Viminale compresi.
    I giuristi ripresero allora in mano il decreto legislativo luogotenenziale per l'indizione del referendum istituzionale, notando che la vittoria di una delle due forme andava calcolata secondo la “maggioranza degli elettori votanti”. Ne derivò una conseguenza sconcertante: c'era l'eventualità che né la Repubblica, né la Monarchia, avessero raggiunto il quorum necessario. La Corte di Cassazione, allora, venne invasa da ben 30.000 denunce di brogli elettorali. La Suprema Corte si riunì il 10 Giugno, e tutti erano sicuri che avrebbe proclamato la Repubblica. Invece, il presidente Giuseppe Pagano comunicò i dati monarchici e repubblicani così come gli erano stati forniti dal Ministero degli Interni, riservandosi di pronunciare in altra seduta il giudizio sui reclami e sulle contestazioni presentate circa lo svolgimento delle operazioni relative al referendum. La seduta si tolse tra la delusione generale, perché non era stata proclamata alcuna vittoria. Il governo, però, era terrorizzato: analizzare le proteste per brogli elettorali voleva dire, per la Corte di Cassazione, far riaprire i plichi sigillati con le schede elettorali che le trentuno sedi circoscrizionali avevano inviato a Roma per effettuare un nuovo conteggio e, così, scoprire i brogli. La fasulla vittoria repubblicana era imperniata proprio sul fatto che esisteva esclusivamente la somma dei voti fatta nelle sedi circoscrizionali. Riaprendo i plichi sigillati, la verità sarebbe emersa inevitabilmente, tanto più che questa operazione sarebbe stata eseguita a Roma con tutti i controlli.
    Dalla rilassatezza dei giorni precedenti si passò ad un clima di tensione. Il governo, riunito in seduta pressoché permanente, non poteva permettersi un riesame delle schede da parte della Suprema Corte. I più scalmanati proposero allora di assaltare il Quirinale in stile “rivoluzione d'Ottobre”, ma le forze anglo-americane presenti in Italia non avrebbero mai permesso una simile azione. I ministri chiesero la testa del Re, mentre i monarchici chiesero la testa dei ministri. In tutto questo caos, l'unico tranquillo era Umberto II: non riusciva proprio a capire come mai il governo fosse tanto preoccupato da un eventuale ricontrollo delle schede. La Corte di Cassazione stabilì che avrebbe fatto conoscere il numero complessivo degli elettori votanti ed il giudizio sui 30.000 ricorsi per brogli elettorali il 18 Giugno.
    Le sommosse popolari in favore della Monarchia divennero sempre più gravi, regolarmente represse nel sangue dalla polizia ausiliaria inviata da Romita. Umberto II era allarmato, ma non capiva il motivo della fretta del governo dopo la seduta della Corte di Cassazione del 10 Giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso la prossima seduta del giorno 18. Al Quirinale, i consiglieri più acuti partivano dalla convinzione che il risultato elettorale fosse stato alterato in maniera significativa e rilevante. Si sapeva, inoltre, che i comunisti, oltre la Cortina di Ferro, alteravano tranquillamente i risultati delle elezioni. Tuttavia, l'Italia non era sotto il controllo sovietico, il che voleva dire che, mettendo tutte le carte in tavola, si poteva stroncare la falsificazione. La mossa che Umberto II avrebbe dovuto compiere, dunque, era una sola: denunciare pubblicamente la probabilità che i risultati comunicati dalle sedi circoscrizionali potessero essere stati contraffatti, insistendo sull'incoerenza delle cifre. Il “grido di guerra” che doveva partire dal Quirinale, però, non ci fu. Il motivo è che Umberto II, fiducioso dei suoi avversari, era convinto che tutti avrebbero atteso pacificamente il responso della Corte di Cassazione fissato per il 18. Una pubblica denuncia di brogli elettorali avrebbe inevitabilmente portato l'Italia ad una guerra civile fra monarchici e repubblicani, minacciando la stessa unità del Paese (a Napoli era stata indetta una raccolta di firme per non aderire alla Repubblica Italiana e rifondare il Regno delle Due Sicilie). Provocare una guerra civile, e quindi macchiare il Trono di sangue, era una cosa inconcepibile per il cattolicissimo Umberto. Il governo, per i motivi elencati sopra, non poteva né voleva aspettare. La situazione andava forzata compiendo un gesto rivoluzionario.
    Nella notte fra il 12 e il 13 Giugno, infatti, esso compì un vero e proprio “colpo di Stato” emettendo il seguente comunicato:






    “Il Consiglio dei Ministri afferma che la proclamazione dei risultati del referendum, fatta il 10 Giugno dalla Corte di Cassazione, ha portato automaticamente all'instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l'Assemblea Costituente non avrà nominato il Capo Provvisorio dello Stato, l'esercizio delle funzioni di Capo dello Stato medesimo spetta al Presidente del Consiglio in carica. La situazione creata dalla volontà del popolo non può considerarsi modificata dalle comunicazioni di Umberto II al Presidente del Consiglio”.





    La comunicazione del Re alla quale si accenna era un invito, da parte di Umberto II, di attendere la seduta della Corte di Cassazione fissata per il giorno 18. Violando il discorso del presidente Pagano del 10 Giugno, il governo considerava lo stesso come una proclamazione definitiva della vittoria repubblicana, inventava un “regime transitorio” non previsto da alcuna norma e si arrogava, con gesto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettavano, deponendo di fatti il legittimo Capo dello Stato Umberto II. Dopo questo comunicato, tutti i ministri pensarono bene di dormire fuori casa (Togliatti andò all'ambasciata sovietica, De Gasperi dormì a casa di amici), terrorizzati da un possibile arrivo dei Carabinieri inviati dal Re. Umberto II, che era sempre stato estremamente leale con tutti, si sentì profondamente tradito nella sua buona fede e nel suo desiderio di pacificazione. Egli non si aspettava un atto tanto radicale da parte del governo, che, in pratica, gli imponeva un ultimatum: o la guerra, o la partenza. Il 13 Giugno, Umberto II pronunciò una risposta durissima nei confronti del governo:





    “Nell'assumere la Luogotenenza Generale del Regno prima, e la Corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo, liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello Stato. E uguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 Giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corta Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato il controllo e la proclamazione dei risultati definitivi del referendum. Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Suprema Corte, di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 Giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere quale forma istituzionale avesse raggiunto la maggioranza voluta. Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. Mentre il Paese, da poco uscito da una tragica guerra, vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore ed altre lacrime siano risparmiate al popolo che ha già tanto sofferto. Ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice dell'illegalità che il governo ha commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovo lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria sento il dovere, come italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta, protesta nel nome della Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di vedere il proprio destino deciso nel rispetto della legge, in modo che venisse dissipato ogni dubbio ed ogni sospetto. A tutti coloro che conservano fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all'ingiustizia, io ricordo il mio esempio, e rivolgo l'esortazione a voler evitare l'acuirsi di dissensi che minaccerebbero l'unità del Paese, frutto del lavoro dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome dell'Italia ed il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli”.





    Umberto II partì dall'aeroporto romano di Ciampino nel pomeriggio del 13 Giugno 1946, senza abdicare. Abbandonando la Capitale il 9 Settembre 1943, il Re Vittorio Emanuele III aveva salvato la continuità dello Stato. Abbandonandola il 13 Giugno 1946, il Re Umberto II ne salvava l'unità. Così Casa Savoia, che aveva costruito la Nazione Italiana nel 1861, continuava a difenderla ad oltranza, anche quando parte dell'opinione pubblica malediceva i suoi Re. Chi si aspettava una pacifica nascita della Repubblica Italiana rimase deluso, perché il Re affidava la sua protesta alle parole durissime del proclama, con le quali rifiutava di riconoscere la legalità di quanto era accaduto. La Corte di Cassazione doveva ancora esprimersi, ma ora, ammutolite le masse in rivolta dalla partenza del Sovrano, l'azione sui magistrati si presentava assai più facile. Chi avrebbe osato, a Repubblica ottenuta, rimettere in discussione la forma dello Stato?
    Durante la seduta della Corte di Cassazione del 18 Giugno 1946, il presidente Giuseppe Pagano argomentò che Umberto II, nell'indire il referendum istituzionale, con le parole “maggioranza degli elettori votanti” aveva voluto intendere un'altra cosa, del tutto diversa, ossia “maggioranza dei voti validi”. Umberto II, insomma, secondo Pagano, o si era sbagliato, o si era espresso male. Naturalmente, l'ordinanza della Cassazione fu corredata da un'ampia motivazione. Ogni magistrato, specie a quel livello, è sempre in grado di dare una forma giuridica credibile a qualunque tesi venga deliberata, e così fu fatto anche in quel caso. Tutti sanno che i concetti di “elettori votanti” e di “voti validi” sono diversi ed inconfondibili. Come mai, allora, la Suprema Corte, fino ad allora scrupoloso baluardo della legalità, finì per avallare un “mostro giuridico” del genere? La risposta è semplice: questioni di ordine pubblico. Una soluzione “elegante”, all'italiana, per legittimare un atto illegittimo, nella piena consapevolezza di compiere un'azione illegale. La miglior prova di ciò è rappresentata dalla Gazzetta Ufficiale, nella quale si diede atto che Alcide De Gasperi assumeva la carica di Capo Provvisorio dello Stato non dal 13 Giugno (la notte del colpo di Stato), ma dal 18 Giugno 1946.
    Quei cinque giorni, dal 13 al 18, segnarono il totale e definitivo distacco dalle radici originarie e risorgimentali del nostro Paese.

  2. #2
    Vecchio forumista
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    Ricordo la scomunica per chi aderisce o sostiene il partito comunista:




    «E' stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione:
    1. se sia lecito iscriversi al partito comunista o sostenerlo;
    2. se sia lecito stampare, divulgare o leggere libri, riviste, giornali o volantini che appoggino la dottrina o l'opera dei comunisti, o scrivere per essi;
    3. se possano essere ammessi ai Sacramenti i cristiani che consapevolmente e liberamente hanno compiuto quanto scritto nei numeri 1 e 2;
    4. se i cristiani che professano la dottrina comunista materialista e anticristiana, e soprattutto coloro che la difendono e la propagano, incorrano ipso facto nella scomunica riservata alla Sede Apostolica, in quanto apostati della fede cattolica.
    Gli Eminentissimi e Reverendissimi Padri preposti alla tutela della fede e della morale, avuto il voto dei Consultori, nella riunione plenaria del 28 Giugno 1949 risposero decretando:
    1. negativo: infatti il comunismo è materialista e anticristiano; i capi comunisti, sebbene a volte sostengano a parole di non essere contrari alla Religione, di fatto sia nella dottrina sia nelle azioni si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo;
    2. negativo: è proibito dal diritto stesso (cfr. canone 1399 del Codice di Diritto Canonico);
    3. negativo, secondo i normali princìpi di negare i Sacramenti a coloro che non siano ben disposti;
    4. affermativo.
    Il giorno 30 dello stesso mese ed anno il Papa Pio XII, nella consueta udienza all'Assessore del Santo Ufficio, ha approvato la decisone dei Padri e ha ordinato di promulgarla nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis
    (Decretum, 1 Luglio 1949)



    «E' stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione se sia lecito ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano. 25 Marzo 1959
    I Cardinali preposti alla tutela della fede e della morale risposero decretando:
    negativo, a norma del Decreto del Sant'Uffizio del 1/7/1949, numero 1.
    Il giorno 2 Aprile dello stesso anno il Papa Giovanni XXIII, nell'udienza al Pro-Segretario del Santo Ufficio, ha approvato la decisone dei Padri e ha ordinato di pubblicarla.»
    (Dubium, 4 Aprile 1959)

  3. #3
    Vince te ipsum
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    Gentile Serendipity,
    potresti indicarci se la scomunica sia ancora valida o se negli anni ci sia stata una qualche comunicazione in merito della Santa Sede al fine di togliere la scomunica?
    Domando ciò non perchè contrario alla scomunica verso i comunisti, ma per sapere se la Chiesa considera partiti comunisti anche gli attuali partiti di sinistra. Io li considero ancora comunisti e pertanto contrari alla Santa Sede, ma visti i cambiamenti progressisti di molti ecclesiastici, anche in merito a tali partiti, vorrei sapere se è stata revocata la scomunica.

  4. #4
    Vecchio forumista
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    Non so, Catocensorius, dovrei controllare, ma non saprei davvero dove guardare...

  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da Catocensorius Visualizza Messaggio
    Gentile Serendipity,
    potresti indicarci se la scomunica sia ancora valida o se negli anni ci sia stata una qualche comunicazione in merito della Santa Sede al fine di togliere la scomunica?
    Domando ciò non perchè contrario alla scomunica verso i comunisti, ma per sapere se la Chiesa considera partiti comunisti anche gli attuali partiti di sinistra. Io li considero ancora comunisti e pertanto contrari alla Santa Sede, ma visti i cambiamenti progressisti di molti ecclesiastici, anche in merito a tali partiti, vorrei sapere se è stata revocata la scomunica.
    Ti rispondo io, la scomunica non é mai stata tolta.
    NOI SIAMO LA VERA ITALIA !
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