io Blondet
14/10/2006
Soldati britannici in Iraq

Non dev'essere stata una decisione facile per Sir Richard Dannatt, generale e capo di Stato Maggiore delle forze armate inglesi.
La deve aver soppesata, prima di parlare.
Ma poi è andato a farsi intervistare dal Daily Mail e ha detto: la presenza delle truppe britanniche in Iraq «sta aggravando i problemi di sicurezza» anziché risolverli. L'occupazione aumenta lo spargimento di sangue «in patria e fuori». Le truppe «devono tornare a casa presto». (1)
Una devastante bomba politica lanciata da un generale tranquillo.
E' un «pronunciamiento» in piena regola, ma più inaudito: perchè l'Inghilterra non è il Sudamerica.
L'armata britannica non ha mai contestato il governo civile; non solo la sua lealtà alle istituzioni è senza macchia, ma ha storicamente obbedito senza flessioni, tenacemente fino al sacrificio, alle autorità civili; ha collaborato attivamente alle direttive politiche. E' stata la custode di un impero e - una volta arrivato l'ordine - la sua disciplinata smantellatrice. Ha vinto due guerre mondiali, non conosce l'umiliazione delle disfatte storiche, che rendono gli eserciti insubordinati e infidi.
Dunque il colpo è ancora più grave.
E il generale Dannatt l'ha assestato mentre è in carica come capo delloStato Maggiore.

Una decina di generali americani hanno «parlato» contro la guerra nei mesi scorsi; ma, prima, si sono dimessi.
Sir Dannatt si è «pronunciato» con addosso le spalline del pieno comando. In teoria, potrebbe essere fucilato per rifiuto d'obbedienza o alto tradimento; è stato chiamato d'urgenza al ministero della Difesa «dove sarà discusso il suo futuro».
E' il primo «pronunciamiento» della storia inglese: ecco a cosa ha portato la guerra non-necessaria voluta da Bush e dai neconservatori. Al «suicidio di una nazione», come dice giustamente il sito francese Dedefensa.
E se la nazione è l'Inghilterra, segnala una crisi profondissima della civiltà occidentale.
Abbiamo visto sgomenti tanti, troppi politici anche di valore - parlo di Tony Blair, non di Fini o di Berlusconi - pronti al proprio suicidio politico, ad alienarsi la propria opinione pubblica e a disgustare il proprio elettorato, pur di far contenti i padroni israeliani, che li hanno voluti assolutamente nelle guerre «contro il terrorismo globale».
Ma, commenta Dedefensa, il pronunciamiento di Sir Richard segnala «una crisi ben più grave», che si apre al «livello della legittimità, dell'essenza stessa dell'esistenza nazionale».
Sono parole gravi, da soppesare con cura dolorosa.
Noi quasi non sappiamo più che cosa sia la «legittimità», ci basta, per lasciarci comandare, che dei parassiti si ammantino di una approssimativa «legalità» del potere. Ma tra la legalità e la legittimità, il rapporto è quello che c'è tra la luna e il sole.
E in una guerra inutile, è la legittimità - il sole di uno Stato - che si mette in gioco.
E le cose sono arrivate al punto (citiamo ancora Dedefensa) che «è l'illegittimità, oggi, il carattere di ciò che si dice il potere politico nel Regno Unito, e che questa illegittimità ha dei limiti oltre il quale diviene intollerabile».

Questo vale per un Paese come l'Inghilterra, si capisce.
Noi italiani, spezzati dalla disfatta della seconda guerra mondiale, ci lasciamo governare da poteri illegittimi, basta che siano a malapena «legali».
In Gran Bretagna, «la perdita del senso di sovranità nazionale» – perché questo ha fatto Blair, al seguito dei Bush, dei Cheney e dei Wolfowitz – «implica tout court la perdita di senso».
«Siamo in un Paese musulmano, e come i musulmani vedono degli stranieri nel loro Paese è chiaro», ha detto il generale: «come straniero, sei benvenuto se sei invitato, ma noi non siamo stati invitati…abbiamo sbattuto giù la loro porta».
Ha aggiunto che l'occupazione dell'Iraq esaspera l'estremismo islamico e lo giustifica: «Non dico che le difficoltà che stiamo avendo nel mondo sono causate dalla nostra presenza in Iraq, ma indubbiamente la nostra presenza le aggrava».
Sir Dannatt, descritto come un devoto cristiano, ha precisato che l'islamismo militante in Gran Bretagna fiorisce a causa di «un vuoto morale» della nazione.
Nei giorni precedenti, il generale aveva protestato per il trattamento che subiscono i militari feriti negli ospedali, confusi tra gli altri ricoverati, senza un reparto proprio, ed esposti agli insulti di «pacifisti» o visitatori islamici: sintomo in sé gravissimo, come quando i soldati russi sparavano agli ufficiali nel 1916.
Il generale ha invocato le organizzazioni di volontariato perché si prendano cura dei reduci psichicamente malati: «Siamo noi che li abbiamo danneggiati, siamo noi responsabili di loro».
Ha cercato disperatamente di far sostituire i veicoli operativi in Iraq con mezzi meglio corazzati e protetti.
Ha detto pubblicamente: «Un salario di 1.150 sterline paga un mese di combattimenti ad Helmand?» (la zona dei continui attacchi talebani in Afghanistan).
Un mese prima, al Guardian, aveva detto che i politici «danno per scontati i militari» e che l'armata poteva «spezzarsi» in Iraq.


Sir Richard Dannatt

Evidentemente, non è stato ascoltato dal potere.
Da qui la sua decisione di parlare pubblicamente. Gettando agli stracci la «politica estera» di Blair, ed aprendo la più grave crisi morale del regno, trascinato per volontà altrui in una guerra inutile e perdente.
E fatto ancor più singolare, gli stessi sentimenti stanno maturando tra gli alti ufficiali in Israele, come risultato della sconfitta subita dagli Hezbollah. (2)
Margarita Mathiopoulos, capo esecutivo dell'European Advisory Group (EAG) s'è sentita dire da un alto grado in servizio: «Dobbiamo sederci a parlare con Hamas, con Hezbollah, coi siriani con gli iraniani, anche col diavolo stesso, se vogliamo davvero trovare una soluzione con gli arabi». (3)
Le stesse posizioni le hanno assunte Ami Ayalon, oggi politico laborista, ma ex-ammiraglio e capo dello spionaggio (Shin Bet); Matan Vilnai, un altro laborista che è stato generale; Avi Ditcher, un «falco» del partito Kadima di Olmert, ma ex militare, come anche Avishai Brotherman, presidente dell'Università Ben Gurion.
Tutti costoro chiedono lo smantellamento degli insediamenti giudaici anche in Cisgiordania e l'apertura di negoziati con Abbas per stabilire confini leali e sicuri fra Palestina e Israele: solo così l'autorità palestinese verrebbe resa davvero responsabile di bloccare le infiltrazioni «terroristiche».
Nehemia Dagan, già generale dell'aviazione israeliana, propone addirittura la restituzione alla Siria delle alture del Golan, eventualmente concordando con Damasco la loro de-militarizzazione.
Fatto sorprendente e inatteso, commenta la delegata europea: «L'apparato militare appare su posizioni più avanzate dei politici». I veri soldati capiscono che le soluzioni ai problemi israeliani di sicurezza non sono militari.
Solo i frenetici guerrieri da tavolino, che non sono mai stati sulla linea del fuoco - i neocon giudeo-americani in primo luogo, in Italia Giuliano Ferrara - credono nelle virtù miracolose delle armi; solo loro sono convinti che la guerra sia, non già la politica con altri mezzi, ma il sostituto taumaturgico della politica, che rende superfluo ogni negoziato. Solo loro sono intransigenti, rifiutano ogni tavolo, e vogliono più guerre.
Sono i civili ideologici ad essere stupidamente feroci.

Chi ha la responsabilità di mandare dei cittadini ventenni in prima linea, al nemico, sa che le guerre-lampo non esistono. Sa che l'armata non è la punta di diamante immaginata dagli strateghi da caffè, che è invece uno strumento tragicamente insufficiente, che si sgretola avanzando, il cui uso sconsiderato e non necessario può aprire una falla nella legittimità del potere. Sa che l'esercito in guerra ferisce il nemico, ma anche la nazione.
Da tempo i soldati israeliani si sono abituati a diventare aguzzini e massacratori di inermi: sono un pus che matura nella nazione ebraica.
Naturalmente, Israele continua a sfuggire la sua domanda centrale: vuole esistere nella pace?
Le mancherebbero i fondi colossali che le manda la diaspora, mobilitata in permanenza dal mito che «Israele è in pericolo nella sua stessa esistenza»; si assottiglierebbero i titanici finanziamenti e armamenti americani, se Israele vivesse sicura in pace tra i suoi vicini.
Una parte notevole della sua popolazione ha doppia cittadinanza, abitazioni e legami concreti in Occidente: non finirebbe per abbandonare quella terra, santa sì, ma avara e resa retriva dai suoi rabbini di guerra, per tornare a Parigi, Berlino, New York e respirare l'aria della cultura critica ed aperta in cui gli ebrei sono a loro agio? Ciò rivelerebbe la natura artificiale dello Stato giudaico, di corpo estraneo occidentale che rifiuta di diventare asiatico, che non può esistere se non come entità antagonista.


Ma quando i generali cominciano a chiedere la ritirata, attenzione: il momento è grave.
Segnalano l'illegittimità del potere, che nel fondo radicale delle cose poggia su di loro.
La salvezza estrema della nazione è il loro compito: i loro pronunciamienti possono diventare allora colpi di Stato, ed è forse la sola cura possibile, per l'Occidente e le sue burocrazie civili putrefatte.
I cannoni puntati contro il quartier generale possono essere l'estrema difesa della democrazia.

Maurizio Blondet

Note
1) «L'armée de sa majesté se révolte», Dedefensa, 13 ottobre 2006.
2) Che l'aggressione contro gli Hezbollah sia stata una cocente sconfitta per l'ex-glorioso Tsahal lo hanno accertato Alastair Crooke e Mark Perry in tre magistrali articoli pubblicati su Asia Times. Il primo è stato il consulente per il Medio Oriente di Javier solana alla UE; il secondo è uno storico e analista strategico di Washington. La loro analisi politico-militare della condotta dei soldati israeliani è lucidissima e spietata: il primo errore commesso è quello elementare, «disprezzare il nemico». A chi sa l'inglese - e a Giuliano Ferrara - consiglio la lettura del loro «How Hezbollah defeated Israel», pubblicati su Asia Times tra il 12 e il 14 ottobre).
3) Margarita Mathiopoulos, «A dose of reality», Herald Tribune, 13 ottobre 2006.




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