Esisterà Israele nel 2020?
Maurizio Blondet
18/10/2006
Il primo ministro israeliano OlmertDomanda proibita, che sarebbe subito bollata di antisemitismo (o attribuita ad Ahmadinejad) se non fosse per un particolare: è stata sollevata nel corso di una conversazione culturale tenuta a New York tra Richard Cohen, famoso editorialista ebreo del Washington Post, e Peter Osnos, già corrispondente del Post ed oggi editore.
Entrambi ovviamente molto pro-Israele.
Ed è questa la lezione che entrambi hanno tratto dallo scontro israeliano con Hezbollah.
«Nessuno ne vuole parlare, ma le cose non vanno più bene per Israele», ha detto Osnos: «gli ottimisti credono che gli arabi pragmatici, imbaldanziti e allo stesso tempo intimiditi dal senso di vittoria delle loro ali radicali, sono ora pronti a rinegoziare una pace su ampie basi. I pessimisti dicono che Israele ha lasciato passare tutte le occasioni per assicurarsi la pace, ed ora il suo tempo è agli sgoccioli».
Ed ha ricordato: «L'impero sovietico celebrò il suo sessantesimo anniversario nel 1977. Quattrodici anni dopo era scomparso; una parentesi nella storia russa».
Tra quindici anni il Paese avrà una maggioranza araba per ragioni demografiche, ha aggiunto Osnos.
«E ad oltre mezzo secolo dall'olocausto, la maggior parte del mondo occidentale non sembra credere più che la civiltà debba agli ebrei una patria… l'immagine di Israele è stata corrosa da 40 anni di occupazione di Gaza e Cisgiordania».
La sicurezza di Israele poggia su un unico amico, gli Stati Uniti: «Un amico che ha peggiorato le cose invadendo l'Iraq ed eccitando ancora più odio nel mondo islamico» - e pensare che gli americani (e i neocon israeliti) credevano di rendere Israele più sicuro a forza di «shock and awe»: di fatto, «la nostra aggressione ha ottenuto l'opposto».
Fatto significativo, la stessa domanda l'ha posta il Laboratoire Européen d'Anticipation politiche (LEAP-Europe 2020), l'istituto francese dedito alle proiezioni politico-economiche.
In un rapporto intitolato: «Israele 2020, due scenari al centro dell'avvenire di Israele» (1), l'istituto elenca sette parametri che, dopo l'aggressione al Libano da parte dello Stato ebraico, appaiono come le ineluttabili linee-guida del futuro israeliano.
Ecco i «parametri»
1- Le forze fondatrici sono ormai esaurite. A settant'anni dall'Olocausto, è difficile mantenerne vivo il mito come giustificazione dello Stato sionista; non ci sono più «criminali nazisti» da catturare per alimentare la «memoria» e il senso di colpa europeo; si è ridotti a dare la caccia ad ultranovantenni. La spinta «eroica» della società israeliana è parimenti esaurita, con evidenti segni di corruzione del potere sionista.
2- La fine della «sovrappotenza» militare. La resistenza di Hezbollah ha dimostrato che Israele non è più la potenza militare assoluta dell'area.
3- La fine dell'opzione unilateralista. La strategia adottata da Sharon e proseguita da Olmert, che consiste nell'usare la «sovrappotenza» schiacciante israeliana per imporre soluzioni unilaterali ai problemi regionali ha avuto l'effetto di accelerare la fine della «sovrappotenza». E' possibile che i capi israeliani, come altri dirigenti nella storia, abbiano finito per credere alla propria propaganda e sopravvalutato la propria superiorità. L'uso sistematico della forza militare al posto del dialogo e del negoziato ha finito per rinforzare l'aspirazione, negli avversari, di opporsi.
4- Il rafforzamento della capacità militare-strategica degli avversari. Da molti anni ormai i conflitti in Afghanistan e Iraq forniscono ogni giorno degli insegnamenti contro le tattiche e strategie americane o ispirate ad es7se (com'è il caso dell'offensiva israeliana nell'estate 2006): questi insegnamenti sono analizzati e diffusi nel mondo arabo-musulmano. (2) […] La questione nucleare posta dall'Iran è un esempio più sofisticato della capacità di resistenza di Hezbollah, ma si tratta della stessa tendenza. Si può constatare del resto che il resto del mondo è riuscito a imporre a Israele l'arresto della distruzione delle infrastrutture in Libano. Ciò mette in questione l'efficacia dissuasiva dell'arma nucleare israeliana, perché quale potenza nel mondo appoggerebbe la distruzione delle principali installazioni petrolifere mondiali, e la sterilizzazione per decenni di immense riserve di idrocarburi,come nel caso di un attacco nucleare all'Iran? Come si vede, la potenza militare pura non è la stessa cosa della capacità politica reale.
5- L'incertezza del sostegno americano a lungo termine. I fallimenti americani in Medio Oriente, e specialmente l'affondamento nelle sabbie mobili irachene nel quadro di un indebolimento generale degli USA, possono rimettere in causa le relazioni privilegiate tra Israele e Stati Uniti. […]
I dirigenti israeliani hanno scelto l'alleanza stretta in USA con la destra cristiana del partito repubblicano; questa alleanza di convenienza non deve far dimenticare che tale famiglia politico-religiosa americana possiede una lunga tradizione antisemita; ed essendo legata al potere attuale a Washington, in caso di rovesci in politica interna, sarà tentata di addossare la colpa a un capro espiatorio. (3)
6- L'influsso crescente e duraturo dell'Unione Europea in Medio Oriente. […] Settemila soldati europei ormai assicurano la protezione della frontiera nord di Israele e sorvegliano la costa libanese: un fatto che i governi israeliani hanno sempre considerato non desiderabile, e così Washington. Non è una ripartizione dei compiti sostenuta dalla Casa Bianca, è un ritorno alla grande degli europei, cinquant'anni dopo che ne erano stati cacciati con la crisi di Suez. E le opinioni pubbliche europee considerano questa operazione libanese una prima tappa per assumere un ruolo-guida dell'Europa nella sistemazione del conflitto israelo-palestinese. Ciò porterà a un approccio più equilibrato al conflitto e alla fine dell'era dell'appoggio automatico a Israele.
7- Il conflitto israelo-palestinese diventa un vero conflitto regionale. Dopo decenni in cui ha colpito impunemente a Gaza, Israele s'è trovata a combattere Hezbollah in Libano, e non impunemente. Ed Hezbollah, come non si stancano di ripetere i capi israeliani, ha dietro l'Iran e la Siria; ciò comporta la possibilità che il conflitto armato, da strettamente locale e «interno», diventi regionale.
Così, in sunto, le valutazioni del LEAP francese.
Che prospetta due scenari possibili.
Essi sono:
«La fine dello Stato d'Israele - verso semplici comunità ebraiche in un Medio Oriente musulmano»
oppure:
«Uno Stato israeliano duraturo partner di un mondo arabo in via di integrazione regionale».
Entrambi gli scenari, sia consentito commentare, peccano di ottimismo.
«Comunità ebraiche» sparse pacificamente nel mondo musulmano sono impossibili, dopo le distruzioni e l'odio che Israele ha seminato.
Uno Stato israeliano «partner del mondo arabo» non pare possibile: non solo perché il mondo arabo non è affatto «in via d'integrazione regionale», ma anzi è percorso da fratture varie e feroci (sunniti-sciiti, estremisti e pragmatici, minoranze etniche contro maggioranze oppressive) indotte dagli USA per volontà israeliana, ma perché Israele stesso dovrebbe, in questa prospettiva, arabizzarsi: e Israele non può esistere che come scheggia estremo-occidentale, colonizzatrice ed estranea, dentro il mondo islamico.
Probabilmente, di fronte alla prospettiva di vivere in pace tra gli arabi, molti israeliani tornerebbero in Europa e in USA, dove hanno mantenuto i loro veri interessi economici e culturali.
Perciò non si deve trascurare il terzo scenario possibile: la fuga in avanti di Israele nell'unilateralismo aggressivo.
La reazione alla mezza disfatta inflitta da Hezbollah che già cova ne lo Stato ebraico è quella di recuperare «deterrenza» applicando più forti dosi di devastazione militare, usare tutta la «sovrappotenza» in fretta, prima che l'appoggio americano incondizionato si esaurisca.
Maurizio Blondet
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Note
1) «Israel 2020, deux scénarios ai coeur de l'avenir d'Israel», LEAP, Lettre Confidentielle, GEAB numero 7.
2) «Gli ufficiali superiori israeliani che hanno pianificato lo scacco militare dell'estate 2006 hanno seguito la stessa formazione degli ufficiali superiori americani che hanno prodotto il caos iracheno attuale. Anche i dirigenti politici hanno molta affinità intellettuale fra loro» (nota del LEAP).
3) Il LEAP cita a questo proposito il saggio di Walt e Mearsheimer, «The Israeli lobby», come segnale di un iniziale cambiamento di umore dei decisori