Romano Amerio, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, 3a ed., Riccardo Ricciardi Editore, Milano, 1989

Cap. XVI - IL DIALOGO
151. Dialogo e discussionismo nella Chiesa postconciliare. Il dialogo in «Ecclesiam suam». - Nel vocabolo dialogo si è consumata la piú grande variazione della mentalità della Chiesa postconciliare, soltanto paragonabile a quella seguita al vocabolo libertà nel secolo scorso. Il vocabolo è del tutto incognito e inusitato nella dottrina prima del Concilio. Non si trova una sola volta nei Concilii antecedenti, non nelle encicliche papali, non nell'omiletica e nella parenetica pastorale. Nel Vaticano II il termine dialogus appare ventotto volte, di cui dodici nel decreto Unitatis redintegratio sull'ecumenismo. Ma questa parola, nuovissima nella Chiesa cattolica, diventa, con propagazione fulminea e con enorme dilatazione semantica, il vocabolo principe della protologia postconciliare e la categoria universale della mentalità neoterica. Si parla non pure di dialogo ecumenico, di dialogo tra Chiesa e mondo, di dialogo ecclesiale ma, con inaudita catacresi si ascrive struttura dialogica alla teologia, alla pedagogia, alla catechesi, alla Monotriade, alla storia della salvezza, alla scuola, alla famiglia, al sacerdozio, ai sacramenti, alla redenzione, e a quant'altro era stato per secoli nella Chiesa senza che quel concetto fosse nelle menti e quel vocabolo nel linguaggio.
Il passaggio dal discorso tetico, che fu proprio della religione, al discorso ipotetico e problematico è palese sin nella mutazione del titolo dei libri, che un tempo insegnavano e oggi ricercano. […]
In agosto 1964, dedicando una terza parte dell'enciclica Ecclesiam suam al dialogo, Paolo VI poneva equazione tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo. Ma non si può non avvertire che l'equazione non trova appoggio né nella Scrittura né nel lessico. […] Nei Vangeli l'evangelizzare comandato agli Apostoli è immediatamente identificato con l'insegnare. Alla dottrina infatti e non alla disputa si conferisce il mandato apostolico e d'altronde il vocabolo stesso aggelos importa l'idea di qualche cosa che è data da comunicare e non di qualcosa che è gettata alla disputa. […]

152. Filosofia del dialogo. - Il dialogo nella filosofia neoterica, e lo professa l'Osservatore Romano, 15 gennaio 1971, ha per base «la perpetua problematicità del soggetto cristiano», cioè l'impossibilità di fermarsi in qualcosa che non sia problema. Vien negato, insomma il gran principio, riconosciuto in logica e in metafisica e in morale, che anagke stenai (è necessario fermarsi).
In una prima aporia incappa il dialogo quando lo si fa coincidere con l'universale officio della evangelizzazione e lo si preconizza come mezzo di diffusione della verità. È impossibile che tutti dialoghino. La possibilità di dialogare è infatti in funzione della scienza che si abbia del soggetto e non, come si pretende, in funzione della libertà o della dignità dell'anima. Il titolo a disputare dipende dalla cognizione e non dalla generale destinazione dell'uomo alla verità. […] Nel dialogo contemporaneo invece si suppone che ogni uomo, perché razionale, sia atto a dialogare con tutti e sopra tutte le cose. Si richiede perciò che il vivere della comunità civile e il vivere della comunità ecclesiale siano ordinati per tal modo che tutti partecipino non, come vuole il sistema cattolico, recando ciascuno la propria scienza, bensí la propria opinione, e non adempiendo la parte che gli spetta, ma pronunciando su tutto. […]
[…]
Ma anche dal canto dell'interrogante il dialogo patisce difficoltà perché poggia su un supposto gratuito, già acutamente intuito da sant' Agostino. Un intelletto può essere capace di formulare un'obiezione, ed insieme essere incapace di capire l'argomento con cui l'obiezione si scioglie. […]
Questa inadeguanza tra intelletto che concepisce una domanda e intelletto che intende la risposta è una conseguenza del generale divario tra potenza e atto. Il rifiuto della distinzione porta da un lato al paralogismo politico: tutti gli individui hanno per natura potenza a comandare, ergo tutti hanno l'atto del comandare. Dall'altro lato il rifiuto porta al paralogismo insito al dialogo: tutti gli individui hanno potenza a conoscere il vero, ergo tutti gli individui conoscono in atto il vero. […]

153. Inidoneità del dialogo. - Nella Scrittura, come dicemmo, il metodo dell'evangelizzazione è l'insegnamento e non il dialogo. Nell'imperativo che sigilla la missione del Cristo con la missione degli Apostoli il verbo adoperato è matheteusate che letteralmente vale fate discepoli tutti i popoli, come se l'opera degli Apostoli consistesse nel ridurre i popoli alla condizione di ascoltatori e discepoli e come se matheteuein fosse un grado previo a didaskein.
Oltre però che il fondamento biblico, manca al dialogo il fondamento gnoseologico, perché la natura del dialogo contraddice alle condizioni del discorso di fede. Suppone infatti che la credibilità della religione dipenda dallo scioglimento previo di tutte le obiezioni particolari mossele contro. Ora un tale scioglimento è impossibile ad aversi e a premettersi all'assenso di fede. Il procedimento corretto è invece a rovescio.
[…]
È infine da osservare che la presente concezione del dialogo trascura la via dell'ignoranza utile propria di quegli spiriti che, trovandosi incapaci della via dell'esame, si tengono stretti a quell'adesione fondamentale e non considerano con attenzione le opinioni opposte per scoprire dove stia l'errore. Essi, temendo ogni pensiero contrario a ciò che conoscono per incontrastabile vero, si tengono in uno stato di ignoranza che, per preservare la verità posseduta, esclude le idee false e insieme con queste anche le idee vere che per avventura vi si accompagnino, senza sceverare le une dalle altre.
Questa via dell'ignoranza utile è lecita nella religione cattolica, è fondata sul principio teoretico spiegato sopra ed è d'altronde il fatto dello stragrande numero dei credenti. È dunque inaccettabile l'opinione espressa in Osservatore Romano, l5-16 novembre 1965, che «chi rinuncia al dialogo è un fanatico, un intollerante che finisce sempre per essere infedele a sé stesso prima che alla società di cui fa parte. Chi invece dialoga rinuncia all'isolamento, alla condanna». Dialogare senza cognizione è prova di temerità e di quel fanatismo che scambia la propria forza soggettiva con la forza oggettiva della verità.

l54. I fini del dialogo. Paolo VI. Il Segretariato per i non credenti. - Notevole è il divario tra dialogo tradizionale e dialogo moderno, quando si considera il fine assegnato al dialogo. Il dialogo, dicono, non ha per fine la confutazione dell'errore né la conversione del collocutore. La mentalità neoterica aborre dalla polemica, tenuta per incompatibile con la carità, mentre al contrario ne è un atto. Il concetto di polemica è invero indissolubile dal contrapposto tra il vero e il falso. […]
Il fine del dialogo dal canto del dialogante cattolico non può essere euristico, perché egli, quanto alle verità religiose, è in possesso e non in ricerca. Neppure può essere eristico, cioè di carattere contenzioso, perché ha per motivo e per obiettivo la carità. Il dialogo è invece inteso a dimostrare un vero, a promuovere in altri una persuasione e ultimamente una conversione. […]
[…]

l55. Se il dialogo sia sempre un arricchimento. Escluse dal dialogo postconciliare la conversione e l'apologetica si suol dire che il dialogo «è sempre uno scambio positivo», ma l'asserto sembra difficile da ammettere. In primo luogo accanto al dialogo convertitore esiste un dialogo pervertitore in cui il collocutore vien distolto dalla verità e fatto cadere nell'errore. Oppure si dirà che efficace è la parola di verità ma inefficace quella dell'errore?
In secondo luogo è da considerare la situazione in cui il dialogo nonché giovare ai collocutori li stringe a un'impossibilità. È il caso contemplato da san Tommaso, che cioè, mancando ai due collocutori un principio comune, dal quale sillogizzare, diventi impossibile provare la verità al collocutore che rifiuta il medio della dimostrazione. […]

156. Il dialogo cattolico. - Il dialogo cattolico ha per fine la persuasione e, in un ordine piú elevato, la conversione del collocutore.
Il vescovo mons. Marafini in Osservatore Romano, 18 dicembre 1971, dice (ma non si sa se dice quel che vuole) addirittura che «il metodo del dialogo va inteso come movimento convergente verso la pienezza della verità e ricerca dell'unità profonda».
In questi testi si confondono il dialogo in materia naturale e il dialogo di fede soprannaturale. Il primo si svolge sotto il lume della ragione che accomuna tutti gli uomini. Ponendosi sotto questo lume tutti gli individui stanno a pari con tutti gli individui: i dialoganti sentono sopra il loro dialogo il Logo, piú importante del loro dialogo, come già dicemmo al § 125, sperimentano la loro fraternità vera e l'unità profonda della loro natura. V'è però un altro dialogo nel quale è impegnata la fede e in cui i collocutori non possono muoversi convergendo verso il vero né situarsi in condizioni di parità. Il collocutore non credente sta infatti in una situazione di rifiuto o di dubbio nella quale è impossibile per il credente di collocarsi. […]
[…]
Concludendo sul dialogismo della Chiesa postconciliare diciamo che il dialogo neoterico non è il dialogo cattolico. Primo, perché ha funzione puramente euristica, come se la Chiesa dialogante non possedesse, ma cercasse la verità, o come se dialogando potesse prescindere dal possesso della verità. Secondo, perché non riconosce la posizione poziore della verità rivelata, come se fosse caduta la distinzione di grado assiologico tra natura e Rivelazione. Terzo, perché suppone parità, sia pure soltanto metodica, tra i dialoganti, come se il prescindere dal vantaggio che ha la fede divina, anche solo per finzione dialettica, non fosse un peccato contro la fede. Quarto, perché postula che tutte le posizioni dell'umana filosofia siano indefinitamente disputabili, come se non esistessero invece punti di contraddizione principiale che troncano il dialogo e lasciano solo la possibilità della confutazione. Quinto, perché suppone che il dialogo sia sempre fruttuoso e che «nessuno deve sacrificare alcunché» (Osservatore Romano, 19 novembre 1971), come se non vi fosse un dialogo corruttore che spianta la verità e impianta l'errore, e come se non si dovesse, nel caso, rigettare l'errore prima professato.
Il dialogo di convergenza dei collocutori verso una verità piú alta e piú universale non conviene alla Chiesa cattolica, perché non le conviene un processo euristico che la metta sulle tracce della verità, ma soltanto un'operazione della carità la quale vuole comunicare una verità posseduta per grazia, e trarre non a sé ma alla verità. La superiorità infatti non è del credente dialogante sopra il non credente dialogante, bensí della verità sopra tutte le persone dialoganti.
Non si scambi l'atto con cui un uomo persuade un altro uomo della verità con un atto di sopraffazione e di offesa della altrui libertà. La contraddizione logica e l'aut aut sono strutture dell'essere, e non violenza. L'effetto sociologico del pirronismo e del conseguente discussionismo è il pullulare di convegni, incontri, commissioni, congressi, cominciato col Vaticano II. Di qui la consuetudine introdotta di rimettere tutto in problema e tutti i problemi affidare a commissioni plurime e la responsabilità, una volta personale e individuale, disciogliere in corpi collegiali. [...]


Glossario
Aporía. - Dal greco aporia, difficoltà, punto controverso, problema. Da cui: problema le cui possibilità di soluzione
risultano annullale in partenza dalla contraddizione.
Assiologico. - Dal greco aksios, degno, valido. Da cui l'accezione di: criterio che interpreta la realtà sulla base di
riferimenti degni e validi.
Catacrèsi. - Dal greco katakresis, abuso. Da cui il latino catachresis: estensione retorica di un termine o di una
locuzione oltre il suo significato proprio.
Collocutore. - Dal latino collocútor, l'agente di colloquor (loquor cum, parlo con): colui che prende parte ad un
colloquio.
Erístico. - Dal greco eristikòs, incline alle contese, alle dispute; con un ragionamento sottile e specioso.
Eurístico. - Dal greco eurísko, trovare. Che va alla ricerca.
Neotèrico. - Dal greco neoteríko, innovare, tendere alla novità. Da cui il latino neotericus: cosa nuova, moderna.
Ontologia. - Scienza relativa ai caratteri universali dell'Ente.
Omelia. - Dal greco omilia, nell'accezione di: commercio spirituale che si svolge in seno al popolo, per cui la
conversazione diviene oratoria per l'istruzione del popolo. Da qui l'accezione del latino ecclesiastico
homilia: discorso al popolo costituito dall'esposizione e il commento di passi della Scrittura.
Omilética. - Dal greco omiletikòs, che attiene al popolo in relazione all'omilia. Da qui l'accezione del latino
ecclesiastico homileticus: l'insieme delle cure da usarsi per svolgere l'omelia; per estensione: il genere
oratorio relativo alla omelia.
Paralogismo. - Falso ragionamento che sembra vero solo in apparenza, in effetti fondato su un equivoco o su una
illusione della ragione.
Parenética. - Dal greco parénesis, azione di paréneo, cercare di persuadere, ammonire, esortare, raccomandare. Da
qui il latino ecclesiastico parænesis: esortazione rivolta al popolo sulla base delle prescrizioni religiose.
Pirronismo. - Dal promotore, Pirrone di Elide, che sosteneva una forma estrema di scetticismo consistente nella
supposta necessità di sospendere l'assenso. L'unico atteggiamento legittimo sarebbe quello di non
giudicare alcunché come vero o falso, buono o cattivo, bello o brutto; cosí che non vi sarebbe niente che
si possa considerare come corretto.
Poziore. - Dal lalino potior, piú potente. Da cui il senso di: preminente. prevalente, precedente.
Protologia. - La scienza del puro ente intelligibile quale si presenta all'attivita del pensiero. Particolarmente derivata
dal Gioberti che la intendeva come «scienza dell'ente intelligibile intuita per via del pensiero
immanente»; cosí che dovrebbe essere alla base di ogni scienza ed anteriore alla stessa ontologia.
Tético. - Dal greco thetikòs, che si pone come regola. Da cui il latino theticus: che ha la caratteristica di porsi da sé,
che ha la sua giustificazione in sé. A differenza di ipotetico che fonda la sua verifica e la sua
giustificazione fuori di sé, nelle sue conseguenze, e che quindi non ha garanzia di verita in sé e di
verifica diretta.