Questo bollettino contiene: 1. DOMENICA 12 NOVEMBRE ASSEMBLEA NAZIONALE A FIRENZE; 2. COSA SUCCEDE IN IRAQ? 3. DALLA TORTURA ALLO SPAZIO: UN IMPERIALISMO SENZA FRONTIERE; 4. DIRITTO DI TORTURA – Un articolo di Danilo Zolo sul Manifesto.

IRAQ LIBERO – COMITATI PER LA RESISTENZA DEL POPOLO IRACHENO

Bollettino del 29 ottobre 2006
http://www.iraqiresistance.info
iraq.libero@alice.it

-----------------------------------------------------------
DOMENICA 12 NOVEMBRE, ORE 10
FIRENZE
ex Scuola Elsa Morante, Via Gian Paolo Orsini 44

ASSEMBLEA NAZIONALE
dei Comitati Iraq Libero e di tutte le realtà che intendono copromuovere la conferenza internazionale


L’assemblea di domenica 12 novembre ha lo scopo di riconvocare la Conferenza Internazionale: “Contro l’occupazione, per la Resistenza – Una pace giusta in Iraq, Libano e Palestina”.
Dopo la battaglia dello scorso anno, dopo il successo dell’appello sui visti lanciato nei mesi scorsi, e soprattutto alla luce del rinnovato interesse espresso da diversi settori della resistenza irachena, libanese e palestinese è arrivato il momento di riconvocare questo importante convegno internazionale.

Chiediamo a tutte le realtà che hanno già aderito, a quelle comunque interessate, ai singoli che condividono gli obiettivi di questa iniziativa, di venire a Firenze affinché ognuno porti il proprio contributo di idee alla promozione ed all’organizzazione della conferenza.

*************************

COSA SUCCEDE IN IRAQ?

Sempre più spesso capita di sentir dire che “in Iraq c’è il caos”. Questa frasetta è tutt’altro che innocente. Dietro di essa si nascondono gli opportunisti della spirale “guerra terrorismo”, gli ipocriti che negano la forza ed il radicamento popolare della resistenza agli occupanti e tutti coloro che (anche a sinistra) vorrebbero porre fine a questo caos con l’imposizione della pax americana.
In ogni caso il “caos” è un buon pretesto per sfuggire ad ogni analisi minimamente seria.

Il problema, per chi come noi sostiene la Resistenza fin dal suo sorgere, è che il caos esiste veramente. Ma questa non è una buona ragione per fare di ogni erba un fascio. Al contrario, è proprio la complessità dell’attuale situazione a richiedere uno sforzo per comprendere cosa sta veramente accadendo in Iraq.

Lo spazio di un bollettino telematico come questo ci costringe alla sintesi, procediamo perciò per punti.

1. Gli occupanti (Usa in testa) sono in evidente difficoltà. Le ammissioni di queste difficoltà da parte dell’establishment americano, degli stessi ambienti militari, il paragone fatto da Bush con l’offensiva vietnamita del Tet sono fatti sotto gli occhi di tutti.
In queste ultime settimane gli attacchi della guerriglia si sono intensificati e il numero ufficiale delle vittime ha subito un’impennata. Sappiamo bene poi che questi numeri sono sottostimati. Due settimane fa alcuni video, ripresi da diverse emittenti arabe, hanno mostrato la distruzione della base americana “Falcon” a sud di Baghdad, al punto che, nella deflagrazione della santabarbara, si è persino ipotizzata l’esplosione di ordigni non convenzionali. Alcune fonti hanno parlato di circa 300 vittime Usa, mentre la stampa occidentale ha addirittura ignorato l’evento. Sta di fatto che tre giorni dopo Bush ha sentito la necessità di rassicurare al Maliki della volontà statunitense di non ritirarsi dall’Iraq.

2. Gli Usa stanno predisponendo piani alternativi per limitare i danni senza rinunciare all’obbiettivo del controllo dell’Iraq e del Medio Oriente. Il progetto elaborato dalla commissione Baker (vedi bollettino del 13 ottobre) è chiaro al proposito: puntare sulla tripartizione accelerata dell’Iraq per spezzettare e depotenziare le resistenze.
L’attuale situazione di scontro interno, scientemente perseguita dagli occupanti, è funzionale a questo progetto. Ovviamente gli Stati Uniti vorrebbero poter ritirare buona parte dei propri soldati (magari per impegnarli altrove), lasciando però in un Iraq spezzettato le proprie basi strategiche, avamposti decisivi per portare avanti il disegno del cosiddetto “Grande Medio Oriente”, concepito come un’area a stelle e strisce da dominare con la compartecipazione israeliana.

3. E’ proprio su questo punto della tripartizione che si è aperto un nuovo fronte interno: quello che vede contrapposte le forze governative (essenzialmente sciite) alla milizia del movimento di al Sadr che invece vuol preservare l’unità nazionale dell’Iraq.
Questi scontri, che hanno investito in particolare la città di al Amara, indicano l’estrema debolezza del governo di al Maliki, tant’è che ormai da mesi circolano voci di una sorta di “autogolpe” militare, evidentemente sponsorizzato dagli Stati Uniti.

4. Veniamo al cosiddetto “caos”. Indubbiamente in Iraq si stanno combattendo diverse guerre, oltre a quella principale contro le truppe di occupazione. Non è la prima volta che accade che all’interno di una guerra di liberazione si svolgano anche altre lotte intestine e fratricide. E’ però la prima volta che queste si intrecciano e si assommano con questa virulenza.
Guai a noi se non comprendessimo che questa è anche la conseguenza del mutato contesto internazionale che, a differenza delle lotte anticoloniali della seconda parte del Ventesimo secolo, non consente alla Resistenza di avere un riconoscimento internazionale, luoghi (Stati) in cui potersi esprimere politicamente, eccetera. Questa è l’epoca dell’equiparazione resistenza=terrorismo. Per noi è un tema di battaglia politica, per i resistenti iracheni è un tremendo elemento di difficoltà aggiuntiva.
Tutto ciò ha reso più difficile la nascita di un Fronte di liberazione nazionale unitario ed ha favorito la proliferazione di decine di gruppi solo parzialmente coordinati.
Gli Usa hanno sì mancato l’obiettivo del controllo del territorio e della distruzione della resistenza, ma sono però riusciti ad impedire la sua unificazione politica.
Ai disegni americani si sono aggiunte le mire geopolitiche di Teheran, che in Iraq gioca una propria autonoma partita e che si appoggia in vario modo alle principali componenti sciite.
E’ in questo quadro che a volte sembra prevalere la lotta tra le due confessioni principali (come avvenuto dopo l’attentato alla moschea di Samarra), altre volte quella tra la componente quaedista e gli sciiti in quanto tali, ancora più spesso quella tra gli squadroni del Badr e delle forze governative contro i sunniti e l’area baathista in particolare, altre volte ancora (come di recente) quella tra l’esercito del Mhadi (al Sadr) e l’esercito di al Maliki.
Questo è il famoso “caos” che gli Usa, che lo hanno in buona parte creato, oggi vorrebbero ridurre e stabilizzare attraverso il progetto di tripartizione.

5. Questo è però anche il caos dal quale la Resistenza deve assolutamente venir fuori. La via d’uscita non può che essere diametralmente opposta a quella prefigurata dagli Usa.
Contro lo spezzettamento, difesa integrale dell’unità nazionale. Sciiti e sunniti sono vissuti insieme per secoli, spesso condividono le stesse aree e le stesse città. Molti elementi ci dicono che chi soffia sullo scontro interconfessionale può essere sconfitto. Più difficile ricomporre un’unità nella lotta tra i diversi progetti politici in campo.
Ma una cosa è certa: nessun progetto positivo per il popolo iracheno potrà affermarsi senza la completa liberazione dalle forze occupanti (dunque anche dalle basi) e senza la difesa dell’unità nazionale.
E’ da questo presupposto che dovrà partire la costruzione del Fronte di liberazione nazionale: un obiettivo difficile ma non impossibile, dato che è palesemente l’unica strada per raggiungere la vittoria sugli occupanti.
E’ su questo punto, al di là dei nostri auspici, che si gioca il futuro della Resistenza e quello dell’Iraq.


*************************

DALLA TORTURA ALLO SPAZIO: UN IMPERIALISMO SENZA FRONTIERE

A metà ottobre, tre fatti – tre autentiche enormità – si sono susseguite l’unica dietro l’altra a mostrarci la realtà dei nostri tempi.
Prima enormità: il 17 ottobre Bush ha firmato il Military Commissions Act con il quale si legalizza la tortura nei confronti dei “nemici degli Usa” e si conferiscono poteri senza precedenti al presidente per imprigionare chiunque egli dovesse ritenere un "combattente nemico illegale" e processarlo attraverso commissioni militari.
Se fino al 16 ottobre 2006 questa era la pratica ordinaria dell’imperialismo americano, basti ricordare Guantanamo, Bagram ed Abu Ghraib, ora questa pratica è legge, parte integrante del nuovo diritto imperiale.
Seconda enormità: il 18 ottobre è stata resa pubblica la “Revisione della politica spaziale americana”, un documento licenziato senza clamori a inizio mese che stabilisce il primato statunitense nello spazio e che diffida e minaccia chiunque osasse mettere in discussione l’attuale supremazia.
Citiamo testualmente da un articolo di Manlio Dinucci sul Manifesto del 19 ottobre: <<Poiché gli Stati uniti considerano le capacità spaziali vitali per i loro interessi nazionali, essi non solo “preserveranno la propria libertà di azione nello spazio”, ma “negheranno, se necessario, agli avversari l’uso di capacità spaziali ostili agli interessi nazionali statunitensi”. Di conseguenza “si opporranno allo sviluppo di nuovi regimi legali o altre restrizioni che cerchino di proibire o limitare l’accesso o l’uso statunitense dello spazio”, compresi i proposti accordi per il controllo degli armamenti che “non devono menomare il diritto degli Stati uniti di condurre per i propri interessi nazionali, ricerca, sviluppo, sperimentazione, operazioni e altre attività nello spazio”>>.
Insomma, lo spazio, come la terra, deve essere a stelle e strisce.
Terza enormità: il silenzio che ha fatto seguito alle due enormità precedenti, quasi si trattasse di normale amministrazione.
Un silenzio assoluto degli stati, compresi quelli potenzialmente interessati alle minacce spaziali, dell’Onu, delle associazioni dei diritti umani, del mondo della cultura. Le poche voci che si sono fatte sentire non hanno certo scalfito il quadro generale di due notizie enormi restate quasi senza commento.
In Italia questo silenzio è stato assordante. Zitto il governo, che pure a detta di molti avrebbe abbandonato il precedente servilismo berlusconiano; zitta la “sinistra alternativa”, che si è guardata bene dal chiedere una qualche presa di posizione al governo di cui fa parte; zitto anche il “pacifismo” dei <<Forza Onu>> e della <<spirale guerra-terrorismo>>.
Tutti zitti questi loquacissimi signori, intenti a parlar di tutto compreso l’uso dei bagni a Montecitorio, ma ben attenti a schivare le enormità che pure gli si parano davanti. Sempre pronti a parlare di guerra e di pace, del bene e del male; sempre attenti a non urtare i loro committenti politici e soprattutto a non uscire da quel “politicamente corretto” che impedisce di vedere e di parlare del progetto di dominio planetario americano che stabilisce la guerra e la pace, il bene e il male, il diritto, la vita e la morte degli esseri umani.
Vergogna.

*************************

DIRITTO DI TORTURA

Sul tema del Military Commissions Act pubblichiamo di seguito un commento di Danilo Zolo, uscito sul Manifesto del 20 ottobre scorso.

Il delirio di Bush cancella i valori dell'Occidente

di Danilo Zolo

Il presidente Bush ha dunque promulgato il Military Commissions Act che di fatto legalizza gli orrori di Guantánamo. E si tratta di una normativa che non colpisce soltanto i 14 presunti leader di Al Qaeda e gli oltre 400 detenuti rinchiusi a Guantánamo.
Sono almeno 14.000 gli stranieri sospettati di terrorismo, in gran parte islamici, che gli Stati Uniti tengono in carcere, senza capi di accusa e senza prove. Ma anche questa cifra è incerta. Nessuno sa - nessuno deve sapere - quante sono le persone sospettate di terrorismo che la Cia e le altre istituzioni di intelligence statunitensi detengono e torturano in prigioni segrete, sparse in tutto il mondo. Sono prigioni che proprio questo documento dichiara necessarie for protecting America e quindi legittime.
Oggi i diritti più elementari di migliaia di detenuti vengono cancellati «legalmente» e non più solo di fatto e con provvedimenti arbitrari. La nuova legge li sottopone al giudizio di Tribunali militari speciali, le cui sentenze saranno inappellabili. Li priva dell'assistenza di avvocati di fiducia e li giudica sulla base di prove che possono restare segrete. Non solo sopprime qualsiasi limite legale alla detenzione, vietando i ricorsi di habeas corpus, ma consente anche condanne a morte decise sulla base di dichiarazioni ottenute con la tortura.
Infine, e soprattutto, legittima la tortura stessa. Sarà infatti il Presidente George W. Bush stesso a decidere caso per caso quali saranno i metodi da adottare negli interrogatori, consentendo, a sua discrezione, l'applicazione di «tecniche pesanti». E noto che questo significa, come è accaduto ad Abu Ghraib, a Bagram, a Polj-Charki, l'uso di torture spietate come quelle termiche, acustiche e luminose che producono sofferenze crudeli e devastanti senza lasciare tracce sui corpi, o come lo schiaffeggiamento e lo scuotimento fisico prolungato che porta al delirio e allo svenimento. Ma può anche accadere che portino alla mutilazione permanente o alla morte dei torturati.
Si tratta di gravissimi crimini di guerra di cui, in base alla terza Convenzione di Ginevra e al Trattato internazionale contro la tortura del 1984, i responsabili dovrebbero rispondere di fronte ad una assise penale nazionale o internazionale: fra questi, anzitutto i membri dell'amministrazione statunitense, incluso il Presidente Bush e tutti i sui principali collaboratori. Ma è chiaro che questo non avverrà mai.
Non avverrà perché gli Stati Uniti operano ormai come il soggetto di un nuovo 'nomos della terra', che crea ad libitum un nuovo diritto internazionale, ignorando qualsiasi regola che limiti la loro sovranità «imperiale». Nel giugno scorso il Wall Street Journal ha rivelato che i consiglieri legali della presidenza hanno sostenuto in un lungo documento che il Presidente degli Stati Uniti, come commander in chief, non è tenuto a rispettare le norme internazionali che vietano la tortura.
Il Military Commission Act è dunque in perfetta continuità con una lunga serie di soprusi e di crimini che sovvertono in radice l'ordinamento giuridico internazionale: dalla non adesione al Trattato contro le mine antiuomo, al rifiuto del protocollo di Kyoto sulla protezione dell'ambiente, al sabotaggio della Corte penale internazionale, alla violazione sistematica delle Convenzioni di Ginevra, alla teoria e alla pratica della guerra preventiva.
Con questo atto il Presidente non solo ha infranto la logica stessa del sistema politico degli Stati Uniti e della grande tradizione giuridica e civile del rule of law e della divisione dei poteri. Bush ha lanciato una nuova sfida al mondo intero, in particolare al mondo islamico, accusato di volere la distruzione degli Stati Uniti come emblema della civiltà occidentale e dei suoi valori di libertà e di democrazia.
Il presidente Bush sembra ormai esprimersi personalmente e operare politicamente in forme che lo mostrano sempre più in preda a un odio delirante per i «nemici dell'America». Ma il delirio, l'odio e le sanguinose guerre d'aggressione possono essere una risposta alla tragedia (con i suoi tanti lati oscuri) dell'11 settembre 2001?
E' il suo un delirio di violenza, quasi un contagio riflessivo della violenza che le armate statunitensi hanno esercitato in questi anni e continuano ad esercitare nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq. E' una furia nichilista che incolpa gli altri perché osano difendersi. E' la malattia mortale di un occidente che nega i suoi stessi valori pretendendo di sconfiggere con metodi terroristici un terrorismo che è esattamente il prodotto del suo delirio di aggressività e di violenza.

il Manifesto 20 ottobre 2006