Fondazione Destra Divina




su gentile concessione dell'autore

Dal libro di Camillo Langone "Manifesto della Destra Divina" (ed. Vallecchi)

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CACCIA VERSUS ANIMALISMO


Egli era valente nella caccia di fronte al Signore. (Genesi 10, 9)
Mettete dei fucili nelle mani dei vostri figli! Il più presto possibile! A suo tempo mi scusai col senatore Orsi, autore di un coraggioso progetto di modifica della legge sulla caccia. Perfino io, che considero la caccia un'attività profondamente morale (immensamente più morale delle gite scolastiche, ad esempio), pensavo che la sua proposta di consentirla ai sedicenni, sebbene accompagnati da adulti esperti, fosse un tantino eccessiva. Poi lessi “Gli interessi in comune” di Vanni Santoni, romanzo in cui un gruppo di ragazzi del Valdarno Superiore (quindi nella Toscana un tempo supervenatoria) non trova di meglio da fare che collezionare droghe: LSD, nitrito d'ammile, fendimetrazina, eroina, cannabis, ecstasy, diazepam, anfetamina, feniciclidina, ketamina, mescalina, DMT, hashish, psilocibina, cocaina, oppio, atropina, morfina, MDMA… Tutto comincia quando i ragazzi hanno appunto sedici anni, l'età in cui è massima la fame di esperienze. In quella fase o gli fornisci tu qualcosa di sostanzioso o se lo vanno a prendere loro, nel primo giardinetto (il proibizionismo nei confronti della caccia funziona benissimo mentre quello sulla droga è un fallimento totale). E quindi capii che Orsi ha ragione. Le canne degli armieri bresciani sono più educative di quelle degli spacciatori marocchini. Meglio che i ragazzi diventino uomini a spese di un animale (di cinghiali ce ne sono tanti) piuttosto che di sé stessi (di fegato ce n'è soltanto uno).

In questo campo, come in altri, la destra divina si orienta sulla Genesi: “Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo”. Cristo rinfresca la lezione e spazza via i tabù alimentari imposti dall'ebraismo (rispunteranno nell'islamismo, che afferma di considerare Gesù un profeta salvo fare il contrario di quanto ci ha insegnato). Il concetto è ribadito più volte nelle Lettere di San Paolo, a beneficio degli zucconi fra i quali bisogna senza alcun dubbio annoverare San Pietro. Dio dovette intervenire personalmente per convincere il capo degli apostoli, mostrandogli ogni sorta di animali e intimandogli: “Uccidi e mangia!” Pietro era ancora talmente legato alle vecchie fole che osò rifiutare: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”. La voce misteriosa con molta pazienza ripeté: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano”. In questo tempo di neopaganesimo non dichiarato spuntano schifiltoserie che riecheggiano bigotterie antichissime: c'è chi ritiene blasfemo mangiare il cavallo e chi considera scorretto cibarsi di fegato o di trippa o di lumache o di aglio o di cipolla o di ostriche o di rane… Spesso sono donne, sovente, ahimé, sono giovani, coloro che si creano e creano difficoltà alimentari. Torme di signorine fastidiose che al ristorante affliggono il cameriere con puntigli su ogni minimo ingrediente, mentre in pizzeria fanno togliere questo codesto e quello dalla pizza prescelta e ottengono in cambio un disco insulso di pasta bianca e le maledizioni del pizzaiolo. Non sanno quanto risultano antievangeliche e ineleganti. Gesù in persona esorta a prendere quello che passa il convento. Per comportarsi così, più che umiltà occorre stile: manca di quest'ultima dote chi esibisce le proprie fisime. “Mangiate quello che vi sarà messo davanti”, ordina il Vangelo di Luca. Io ringrazio mia madre per avermi educato a mangiare fin da piccolo qualunque cosa e a non lasciare nulla nel piatto. Il concetto era pressapoco “o minestra o finestra”, non credo sia più molto in auge ed è un peccato, se venisse riadottato forse negli ospedali languirebbero meno anoressiche perché se conosci il valore del cibo poi è difficile vomitarlo o snobbarlo. Questa apertura al gusto mi è servita quando ho deciso di approfondirmi nel divino con esperienze gastronomiche estreme. Che ovviamente non si fanno nei ristoranti, non perché non vi lavorino grandi cuochi (in Italia una decina di persone capaci di cucinare ci sarebbero pure) ma perché le leggi e il mercato vi hanno espulso il brulichio della vita. Le leggi ad esempio proibiscono di mettere in lista sia l'istrice che la marmotta. Io non volevo morire senza avere assaggiato le gustose bestiole e per colmare la lacuna mi sono appoggiato a una cucina clandestina, sconosciuta all'azienda sanitaria locale, alla finanza e agli animalisti. Così si fa: o siete di quelli che vorrebbero peccare di gola con licenza de' superiori? Il mercato opera ulteriori censure: qual è il ristoratore che può permettersi di pagare 600-700 euri per un vero culatello? Al di sotto di simili cifre il culatello è solo un culatelloide, forma di salume e sostanza di cartone: le fette legnose, più cellulosa che carne, più da capre che da gourmet, che i migliori ristoranti d'Italia riservano ai loro affezionati clienti. Alla faccia degli standard Michelin, standard da media cucina, noi ci permettemmo il lusso altissimo di antipasteggiare con culatello di ventiquattro mesi e 140 euri al chilo, fiorito di cristalli di tirosina la cui presenza è un certificato di lunga e lenta stagionatura (nei culatelloidi usciti dalle camere a ventilazione forzata non compare). La tirosina è bianca come la cocaina, costa un po' meno e fa molto meglio: è un aminoacido che migliora l'umore e stimola un mucchio di funzioni. Il culatello così maculato si scioglie in bocca e risulta sommamente digeribile. Purtroppo si trova solo sul mercato nero, essendo prodotto da pochi privati che allevano pochi maiali dietro casa e li macellano senza farlo sapere in giro. Accompagnamento ideale era la giardiniera casalinga, dalla croccantezza favolosa e aperitiva: cipolle, peperoni, fagiolini, sedani, carote, cavolfiori… Ma vengo al dunque, all'istrice in salmì e alla marmotta alla cacciatora serviti con polenta di granturco macinato a pietra quella mattina (lo sapevate che la farina migliore è di giornata? no? adesso lo sapete). L'istrice veniva da Zocca, l'Appennino di Vasco Rossi, e il bracconiere che gli aveva sparato lui sì che fa una vita spericolata: perciò l'animale gli fu pagato 250 euri. La marmotta era stata cacciata in Svizzera (Sankt Moritz) legalmente ma introdotta in Italia illegalmente: il contrabbando fece lievitare il prezzo a 400 euri. In totale, fra carni e vini (Krug '90 e Crystal '02 ma soprattutto Borgogna Pacalet incredibilmente freschi e balsamici…), senza conteggiare l'ospitalità e il lavoro, la cena proibita costò 300 euri a testa, pagati da un ricco mecenate che sarà felice di non venire nominato.

Non si dovrebbe delegare sempre ad altri il reperimento delle proteine animali, ogni tanto bisognerebbe prendersi le proprie responsabilità, rompere il cerchio inettizzante della moderna specializzazione del lavoro e uccidere con le proprie mani, o almeno col proprio grilletto. Gli autori più avvertiti hanno colto questa necessità che non essendo pratica (è più pratico comprare bistecche al supermercato) non esito a definire spirituale. Henry David Thoreau (“Walden ovvero La vita nei boschi”, 1854): “Non possiamo che compiangere il ragazzo che non ha mai sparato; non è più umano per questo, mentre la sua istruzione è stata tristemente trascurata”. José Ortega y Gasset (“Discorso sulla caccia”, 1960): “Il turista contempla a proprio agio i grandi spazi; il suo sguardo scivola via, non afferra niente. Solo il cacciatore, imitando l'allerta continuo dell'animale selvatico, per il quale tutto è pericolo, vede tutto”. Il massimo filosofo venatorio vivente, l'inglese Roger Scruton, purtroppo non si spinge all'elogio esplicito delle armi da fuoco, siccome la sua passione è la caccia alla volpe che non necessita di fucili ma solo di cani ben guidati. Il suo “Sulla caccia”, pubblicato in Italia dalla casa editrice specializzata Olimpia (in catalogo altri titoli esaltanti come “Manuale pratico di falconeria”, “Il fagiano e il cinghiale”, “Storia dell'arma bianca italiana”…) spinge comunque a profonde, malinconiche meditazioni: è tremendo il contrasto fra la vecchia Inghilterra, che con un rito elegante e naturale riusciva a vincere l'animale più furbo, e la nuova Italia, i cui cittadini gonfi di ideologia e tecnologia soccombono di fronte all'animale più stupido, il piccione. A proposito: io odio i piccioni. Amavo soltanto quelli che cucinava Fulvio Pierangelini al Gambero Rosso di San Vincenzo: allevati con cura maniacale, cotti alla perfezione, dotati di buffi cappucci di carta intorno all'ossicino della coscia (per mangiarli con le mani senza sporcarsi le dita), erano una rara delizia. Odio i piccioni urbani, uccellacci protervi e parassiti che approfittando della scomparsa dei nemici naturali (rapaci) e dell'aumento del cibo (rifiuti) proliferano nelle nostre città come mai era accaduto prima. A Milano nel dopoguerra erano 40.000, oggi sono 300.000, e tutti insieme sembrano dediti a una sola attività, quella che li porta a produrre 4.200 tonnellate di guano all'anno. A Parma i cortili dei palazzi del centro puzzano come pollai, ricoperti come sono da uno strato di penne, piume e deiezioni. A Venezia turisti col cervello di dimensioni analoghe a quello dei pennuti continuano a nutrirli con quantità di mais che risolverebbero il problema della fame di interi villaggi africani. Risultato: i piccioni sono talmente tanti che al costo di una consumazione ai tavolini esterni di Florian va aggiunto quello della lavanderia. A me hanno rovinato per sempre un abito di Castangia e da quel giorno penso a come sterminare questi portatori di istoplasmosi, candidiasi, criptococcosi, encefalite, salmonellosi, psittacosi oltre che di acari, zecche, pidocchi e pulci. Una notte del 2005, per salvare i marmi e gli ori della basilica, per salvare la dignità della tomba dell'evangelista, per salvare quello che Cacciari con il suo greco antico e il suo tedesco heideggeriano non è stato capace di salvare, distribuii becchime avvelenato in piazza San Marco: fu un fiasco umiliante, non constatai nessuna strage, né sul posto né sui giornali i giorni successivi, nonostante che il veleno fosse talmente potente da essere illegale (il fornitore si era preoccupato di insegnarmi particolari cautele: guanti spessi, innanzitutto). Ho capito che solo il piombo può avere ragione di questo animale totemico, intoccabile come un tempo la vacca a Delhi o Calcutta (adesso pare l'abbiano fatta sloggiare, anche l'India non è più quella di una volta). Gli adoratori del Piccione Sacro pur essendo una minoranza sparuta tengono in scacco intere città, impedendo gli abbattimenti come pure soluzioni più blande (sono anni che si tenta di sloggiare i venditori di mais dalla piazza veneziana ma sono sacri anche loro, vietato toccarli). Hanno influenzato i politici al punto che in Italia il piccione è più protetto di un bambino: se uccidi un piccione rischi la galera (art. 544 del codice penale, reclusione fino a 18 mesi), se distribuisci pillole abortive vieni considerato un alfiere del progresso. I piccioni sono i simboli diarroici di un mondo capovolto e chi gli spara è un uomo giusto e un eroe.

Ma non voglio parlare troppo di piccioni, mi fanno schifo e tristezza quei mucchietti di penne, sangue e parassiti. Bersaglio ben più araldico è il coccodrillo, anzi l'alligatore. La bestia in questione supera la mia gittata (non uscendo mai dall'italofonia è difficile che ne incontri), l'importante è che qualcuno continui a mantenerla sotto tiro. Sulla rivista AD, catalogo di splendori, ho visto una pagina pubblicitaria che mi ha riempito di gioia. Oggetto fotografato: un bellissimo divano. Titolo dell'annuncio: “Rivestimento in vero alligator mississipiensis non allevato in cattività quindi cacciato”. Testo: “Per realizzare questo divano sono state utilizzate 18 pelli di alligator mississipiensis con 60 anni di età media”. L'esistenza di un un simile divano e di un simile annuncio mi ha fatto pensare che l'uomo è ancora abbastanza forte per avere un futuro.