ANNO XI NUMERO 249 - PAG IX IL FOGLIO QUOTIDIANO SABATO 21 OTTOBRE 2006
DON CAPELLO E SANCHO PALLA
Non è un derby, è peggio di un derby. Giocano Real e Barcellona, ma comunque vada lo sconfitto è Zapatero
di Beppe Di Corrado
Il primo problema è la tv. Non l’unico,
il primo. Dove si vede, chi la può vedere,
chi la trasmette, se è gratis o a pagamento.
Si deve risolvere la questione
ogni volta. Perché la logica nella settimana
di Real Madrid-Barcellona non
c’è. Esiste un contratto miliardario, esistono
diritti già pagati, i pannelli per le
interviste sono pronti, ma c’è sempre
uno che deve alzare il dito e ricominciare
di nuovo: “E’ una partita diversa, non
vanno applicate le norme ordinarie”. E’
così perché c’è troppa attesa e l’attesa
snerva: il sangue non arriva bene al cervello
e non si ragiona più. E’ così perché
è vero che è una partita diversa, ma agli
spagnoli piace esagerare. E’ così perché
nel 1999, fu presentato come l’incontro
del secolo e poi bollato come culebron e
cioè un rompicapo. Doveva andare in
onda sul satellite e solo per gli abbonati.
Il fatto è che Real-Barça è affare di
stato da sempre e da quando lo stato è la
televisione, la faccenda è diventata ancora
più seria. Così ogni volta si arriva
alla verguenza: “A le cinco de la tarde”
eccetera eccetera. I giornali spagnoli si
scatenano. Vergogna è un termine che li
eccita e per l’occasione non è mai sprecato.
El Mundo ed El Pais cominciano il
derby prima di far scendere le squadre
in campo: sottobanco per non cedere al
tifo. Scivolano i numeri: 15 milioni di euro
per i diritti tv solo di questa partita.
Quelli che li hanno pagati prima vogliono
farli rispettare, i club non vogliono rinunciarci,
ma ogni benedettissima volta
arriva il Consejo de administracion de
audiovisula sport: “E’ un avvenimento di
interesse pubblico, è bene che sia trasmesso
in chiaro”. Allora si scartabella
la legge: l’opzione è della Forta, la federazione
delle televisioni autonome, che
raggruppa tutti i network regionali. Solo
che la Forta quei soldi non ce li ha. Così
arrivano quelli della tv statale Tve e
si candidano: “La prendiamo noi. Paghiamo
i diritti e la trasmettiamo in
chiaro per tutti”. E non va bene neanche
così, perché a questo punto i mille autonomisti
spagnoli s’incazzano. Catalani,
baschi, andalusi: “Madrid, giù le mani
dal pallone”. Finisce che fino al giorno
prima si resta appesi e poi ci si deve rassegnare:
criptata e basta. Chi vuole l’evento,
paghi. Non se ne esce mai fino a
quando le squadre non sono in campo:
allora silenzio, si riprende al 91° e si
continua fino all’eternità.
E’ il contorno che scalda Real Madrid-
Barcellona: politica, società, cultura.
Perché il calcio è il pretesto e questo
derby che non è un derby, ma è peggio
di un derby, è fatto apposta. La rivalità
non nasce dal campo, ma il pallone l’ha
dilatata: pompa l’antagonismo, spinge
un gradino più in alto, rilancia l’eterna
questione tra la Castiglia e la Catalogna,
quella di re, papi, dittatori, politici, primi
ministri. Ora questa è la sfida più
mediatica che c’è: si vive di più intorno
che dentro. Quello che succede sul campo
è solo lo specchio di quello che avviene
fuori. Lì sull’erba la storia è sportiva
e basta: giocano le due squadre più
forti di Spagna, da sempre. Ora giocano
le multinazionali globetrotter: l’appartenenza
è un dettaglio, la storia è una fotografia
sbiadita. L’enfasi serve a tenere
sotto controllo i conti: due miliardi di
potenziali spettatori, 150 paesi collegati.
Il Santiago Bernabeu o il Camp Nou sono
teatri dei sogni. Pieni, ripieni, strapieni.
Le cinco de la tarde non esistono
più, restano come tradizione letteraria.
E’ l’ora del Toro e quindi di qualcosa di
importante, quando si vuole caricare
l’attesa si parte sempre così: “A le cinco
de la tarde…”. Il calcio è avanti, però. Si
gioca di sera. E il posticipo è quello che
conta di più. Ore 21, domani. Madrid. Si
torna in campo. Il Barça è primo, il Real
arranca: è lo stesso degli ultimi anni.
Ricco e vuoto. Capello indossa un abito
color senape, la divisa della Juventus gli
stava meglio. Ronaldo è squalificato, Ronaldinho
in campo da ombra di sé. Cannavaro
e Cassano bianchi; Zambrotta e
Thuram blaugrana. Beckham, Robinho,
Raul, Van Nistelrooy, Messi, Deco, Eto’o.
Non si capisce un accidente, qualche
pezzo s’è perso per strada. Real-Barcellona
rintrona. E’ un boato perenne, come
se a ottobre ci si giocasse tutto. Per i
merengues pensano tutti sia così, per i
catalani no. Però fa niente: giocano alla
morte lo stesso. Lo vuole la gente, dicono.
Lo vuole perché in questa storia governa
l’imponderabile: i numeri sono solo
quelli dei soldi che girano. Interessano
a chi fa business, non a chi compra il
biglietto, si siede, soffre, vince o perde.
Lui è solo parte del sistema. Complice
innocente di una messinscena meravigliosa:
chi non c’è mai stato, ci vorrebbe
essere; chi c’è stato non vuole rinunciarci.
In Gran Bretagna ragionano con la
tradizione: il dettaglio di Fulham-Chelsea,
la storia di Rangers-Celtic, l’amicizia
di Liverpool-Everton. In Spagna il sapore
è di evento: sempre e comunque.
La confezione deve superare il contenuto.
Allora ci siamo. Sempre. Luci accese
per lo spettacolo: zero a zero può essere
più divertente di due a due, ma nessuno
lo vuole. Il Bernabeu pena: l’anno scorso,
il Barça qui ne fece tre. Ronaldinho
da solo due: il primo fantastico, il secondo
eccezionale. Tutti in piedi. Applausi.
La celebrazione fece più clamore del
fatto. I battimani dei madridisti più importanti
del risultato: per un anno, ogni
volta che s’è parlato di Ronaldinho sono
state trasmesse quelle immagini. Lui in
mezzo a cinque avversari e un signore
con i baffi in tribuna con la sciarpa bianca
al collo che gli rende omaggio. Con
lui gli altri novantamila. Gerarchia della
notizia. Lo show è questo: come nel
basket Nba, dove il fenomeno vale a prescindere.
Può anche perdere di 20, ma
se Carmelo Anthony fa 35 punti prende
lui la copertina.
La Spagna ha voluto così: poteva scegliere
tra passato e futuro. Ha scelto senza
neanche pensarci. Ha voluto un reality
invece di una partita. Gli piace. Ha
messo la croce e s’è chiusa in una cabina.
A Madrid hanno eletto prima Florentino
Pérez e poi Ramòn Calderòn. A
Barcellona Joan Laporta. Il programma
era incredibilmente semplice: “Votatemi
e avrete lo spettacolo”. Non significava
necessariamente in campo. Voleva
dire fuori: nelle strade, sui muri, alla radio,
su Internet, in televisione. “Votatemi
e sarete i protagonisti dello show”. I
due club sono dei tifosi: l’azionariato popolare,
la fila ai seggi per decidere chi
governerà una squadra di pallone. Centomila
persone da mettere d’accordo. Si
può vincere solo se si fanno buone promesse.
La politica c’entra ancora e non
può essere un caso. A Madrid ogni presidente
del Real ha avuto agganci col
Palazzo, a Barcellona ogni presidente è
più un governatore regionale che un uomo
di pallone. L’identità è diversa, il fine
è uguale. Potere e solo potere. Tanto.
Quello che in Italia si sogna qualunque
dirigente, anche quelli che parlano con
gli arbitri. Però finora non s’è lamentato
nessuno: va bene così, perché è così che
ci si diverte. Chissenefrega che Real e
Barça giocano un campionato a due e gli
altri s’arrangiano. Il campionato va
avanti, anzi va meglio. Così il derby che
non è derby interessa tutti, anche quelli
che odiano Barcellona e Madrid e cioè il
resto della Spagna al completo. Interessa
soprattutto loro, però. E’ spettacolo e
business, ma anche dignità. Barcellona
e Real si odiano, ma hanno bisogno l’una
dell’altra. Non si può nemmeno immaginare
un anno senza il Classico. Allora
la rivalità diventa letteratura. Javier
Marìas, madridista da sempre, “nato
e cresciuto merengue”, è la nuova anima.
E’ morto Manuel Vàsquez Montalbàn
che aveva campato decenni con il
suo antimadridismo pallonaro. Ora tocca
a Javier e il gioco funziona, perché
prima il Barça era sfortunato, oggi lo è il
Real: “Se noi appassionati concediamo
alla nostra squadra una fedeltà vitalizia,
disobbedendo allo spirito di questi tempi
sleali e opportunisti, la sola cosa che
chiediamo in cambio è che coloro che
reggono e rappresentano quella squadra
facciano altrettanto nei loro incarichi
e nelle loro dichiarazioni. Nemmeno
revochiamo il nostro appoggio a causa
delle sconfitte o del brutto gioco, nemmeno
per il ridicolo. Abbiamo bisogno
soltanto che la nostra lealtà abbia senso,
che non si trasformi in un moto dell’animo
vuoto e senza scopo, che non ci scopriamo
ad adorare una sfinge o un mero
vocabolo. Quel che è certo e che da anni
il Madrid cerca di usurpare il ruolo del
Barcellona: vale a dire quello del pessimista,
del demoralizzato. Quello della
vittima. Quello del piagnone”.
E l’attrazione del Classico adesso è
anche questa: vedere se ce la faranno
una buona volta i madridisti a rimettersi
in scia con se stessi e con gli avversari.
Pensavano che Capello bastasse. Si
ricordavano dell’altra volta che era stato
a Madrid. Contro il Barça vinse. Però
quel Barcellona era in crisi, questo è
campione di Spagna e campione d’Europa.
Di quella squadra non è sopravvissuto
nessuno: presidente, allenatore
e tutti i calciatori. Sono passati otto anni
ed è cambiato tutto. Al Real le cose
sono un po’ diverse: Mijatovic allora era
in campo e segnava per Don Fabio, oggi
è un suo superiore. Raul e Roberto Carlos
giocano ancora. Ronaldo era l’uomo
più pericoloso dei blaugrana, adesso è
l’uomo meno pericoloso del Madrid. E
comunque non gioca. Era un altro mondo.
Era solo l’inizio della rivoluzione di
questa partita e non si poteva vedere il
futuro. Solo segnali. Una volta la questione
era diversa: i club si detestavano
al punto che era vietato scambiarsi calciatori
tra loro durante il mercato. Morale
e odio. La colpa era stata dell’affare
più complicato della storia del pallone,
quello che portò Di Stefano in Spagna.
Il giocatore aveva firmato per il
Barça, ma contemporaneamente i Millionarios
di Bogotà avevano preso un
accordo con il Real. La trattativa fu
complicata. Alla fine la federazione
spagnola decise che i due accordi erano
equivalenti: un anno qui e un anno lì. Il
Barcellona rifiutò, convinto che fosse
tutto un disegno complottistico. Perché
la federazione era succube di Francisco
Franco e il Generalissimo era il principale
sponsor del Real. Chiarissimo: il
disegno politico madridista aveva fottuto
i ribelli catalani. E’ il “robo” di Di
Stefano, come l’ha sempre definito Vasquez
Montalban. Ha fatto leggenda e
ha trasformato la sfida in una battaglia
politico-sociale. Borges trovò anche una
spiegazione: “I catalani, poveretti. In
Spagna nessuno gli vuole bene e in
Francia li prendono per impostori”. La
rivalità è nata da questa parte: perché a
Madrid ne avevano già un’altra ed era
quella contro i Colchoneros dell’Atletico.
Sono stati i barcelonistas a volere lo
scontro, a cercare il duello. Borges è stato
un po’ cattivo. Qualche motivo ce l’avevano:
Franco avrebbe voluto lo scioglimento
del club, esattamente come
aveva già fatto per l’Athletic Bilbao. Allora
se c’è un inizio è 1936: Real-Barcellona,
al Mestalla di Valencia. Era la finale
della coppa del Re. L’ultima partita
di Ricardo Zamora. La Guerra civile.
Quel giorno Josep Sunyol, deputato alle
Cortes per Izquierda Republicana e
presidente del Barça fu ucciso dall’esercito.
L’esercito di Madrid, che qualche
mese dopo sarebbe stato guidato da
Rafael Sànchez-Guerra, segretario della
presidenza del Governo e presidente
del Real.
Storia, politica, confini. In settant’anni
la questione castigliano-catalana s’è
sempre mischiata al pallone. Il Real è il
nemico perché è Madrid. Per questo c’è
odio anche con l’Atletico. Solo che con i
materassai cade il duello sportivo, mentre
con i merengues il meccanismo funziona
e si autoalimenta. Lo stadio è la
nuova piazza: la rivendicazione che arriva
dalla curva finisce in diretta e arriva
in tutto il paese. Il calciatore diventa
la raffigurazione della rivalità. E’ toccato
a Di Stefano, poi a Luis Figo. Fu il primo
galactico ad arrivare nella nuova era
madridista inaugurata da Florentino Pérez.
Era il 2000 e scoppiò il caos: Barcellona
fuori di sé per aver venduto il suo
campione, centomila persone infuriate
contro l’“infedele della maglia”. Figo
tornò per la prima volta al Camp Nou da
avversario il 20 ottobre 2000. Lo accolse
Joan Gaspart, presidente del Barça: “I
traditori devono essere trattati come
meritano. Io sono tenuto a conservare
un certo distacco dalla vicenda in ragione
della mia carica, ma spero che i tifosi
accoglieranno Figo come merita”. Il
fairplay di Gaspart fu accolto dal pubblico:
la prima cosa che fecero fu creare
un sito antiFigo. E lì minacce e programmi
per rovinare l’arrivo del portoghese
a Barcellona. Il Real fu costretto a
raddoppiare le misure di sicurezza. Due
guardie del corpo fisse su Luis. Non è
sempre così: Gaspart non c’è più. Al suo
posto c’è Laporta, faccia da furbo e modi
più raffinati. Vuole vincere tutto per
se stesso e per gli altri. E poi c’è Zapatero
che è un culeè, come i madrileni chiamano
i tifosi blaugrana. Però adesso non
può urlare, non può odiare. E’ immagine
anche questa: domani ci sarà lui e comincerà
l’altro ritornello che accompagna
questa sfida negli ultimi anni. Il
Real in crisi e il Barcellona che vola sarebbero
la conseguenza della mutazione
politica della Spagna. Stavolta le malelingue
sono quelle madriliste: il vento
della Catalogna, lo stesso Zapatero e le
sue riforme. Il calcio farebbe parte di un
disegno molto più ampio. Vale tutto, ormai.
In Real Madrid-Barcellona non si
butta via niente. L’anno scorso nella partita
del Camp Nou, venne tirato fuori lo
striscione: “La Catalogna non è la Spagna”.
Non lo scrissero né in catalano, né
in Castigliano. Direttamente in inglese,
perché doveva capirsi dovunque. Un
messaggio sparato in ogni angolo del
pianeta. La televisione, sempre. Qui si
ragiona solo con una telecamera, una cabina
di regia. E’ per questo che si riaccende
sempre la polemica su chi, come,
dove e perché. Gratis o a pagamento. Poi
nessuno ci pensa: in questi novanta minuti
c’è tutto il calcio. Il meglio del meglio.
L’allenatore più vincente d’Europa,
contro l’allenatore che è diventato il suo
erede; il calciatore più forte del mondo
e il calciatore più star del pianeta. Le
formazioni. Real: Casillas, Sergio Ramos,
Cannavaro, Helguera, Roberto Carlos,
Emerson, Diarra, Beckham, Robinho,
Raul, Van Nistelrooy. Barcellona:
Valdes, Belletti, Marquez, Thuram, Zambrotta,
Edmilson, Xavi, Iniesta, Eto’o,
Ronaldinho, Messi. Undici campioni
contro undici campioni, più le panchine.
Novantamila persone sugli spalti, un miliardo
e mezzo in attesa di vedere le immagini.
La politica, la rivendicazione, la
Spagna che è un mix di autonomie, il re,
i popolari, i socialisti, le quote rosa, i
matrimoni gay, l’aborto. Ci si può mettere
tutto: il contenitore è aperto e può entrare
chi vuole. Però sveglia che c’è la
partita. Il futuro s’è presa se l’è trascinata
oltre. Alta definizione: chi vuole vedere
come sarà il pallone di domani accenda
la tv e si piazzi tranquillo a guardarsi
Real Madrid-Barcellona. Ore 21,
Santiago Bernabeu. Le telecamere sono
puntate. La messa in onda è pronta. Conto
alla rovescia: tre, due, uno. Il canale
c’è. Bisogna trovarlo.
Catalani, baschi e andalusi non
hanno dubbi. Se il Madrid perde e
i Blaugrana vincono la colpa è
delle riforme del governo
L’odio tra le squadre cominciò
nel 1936: durante la Guerra civile
spagnola l’esercito di Madrid
uccise il presidente del Barça