Interventi necessari
di Paul Kennedy
Internazionale n. 666, 3 novembre 2006

C’era una nota pateticamente datata nel discorso che Donald Rumsfeld ha tenuto a fine agosto nella sede dell’American Legion a Salt Lake City. Il segretario alla difesa ha attaccato quelli che vorrebbero “scappare” dall’Iraq, definendoli continuatori della famigerata politica di appeasement adottata dal premier britannico Neville Chamberlain negli anni trenta con la Germania nazista. Perché dico datato? Perché, come sa chi ha studiato la politica internazionale del periodo tra le due guerre, la netta distinzione che Rumsfeld ha tracciato fra i sostenitori (mal consigliati o codardi) dell’appeasement da una parte e i suoi coraggiosi avversari dall’altra non ha molto senso. Le cose erano più complicate.
In quel triste decennio, infatti, le democrazie occidentali si trovarono di fronte a una triplice sfida, rappresentata dalla Germania nazista, dall’Italia fascista e dal Giappone ultranazionalista. Ma il fatto che poi l’occidente abbia fatto la guerra a tutte e tre non significa che la scelta tra la trattativa e lo scontro avesse creato una divisione chiara fra fautori e avversari dell’appeasement.
A quell’epoca molti politici britannici, spaventati dalla minaccia del Giappone ai loro possedimenti asiatici, pensarono di adottare una linea ferma in quella regione, pur mostrandosi più morbidi verso le spinte espansioniste di Hitler a est, mentre altri come mezzo per opporsi alla Germania invocarono un patto con Mussolini.
Questi maldestri riferimenti agli anni trenta possono tornare utili mentre ci sforziamo di capire un presente altrettanto insidioso. E di arrivare, se possibile, a un giudizio razionale su dove è opportuno che la comunità internazionale intervenga per fermare le aggressioni e le violazioni dei diritti umani. Di recente ho ricevuto un’email da un diplomatico statunitense a Khartoum, la capitale del Sudan. Ovviamente lui vive molto più da vicino le atrocità in Darfur, e ha lo sgradito compito di trattare con il regime sudanese. Mi ha detto di aver letto sui giornali delle manifestazioni a Washington, Londra e altrove a favore di un intervento internazionale in Sudan e si è posto questa domanda: fino a che punto possiamo essere selettivi in decisioni del genere? In fin dei conti, sappiamo che una buona percentuale di quelli che vorrebbero spedire una forza internazionale in Darfur criticano aspramente l’intervento americano in Iraq, e sperano che potremo ritirarci prima possibile da quel paese.
Dai miei articoli dovrebbe risultare chiaro che secondo me la comunità internazionale deve intervenire in Darfur. Al tempo stesso ho sostenuto più volte che l’intervento in Iraq guidato dagli Stati Uniti è stato una follia, e che faremmo bene ad andarcene da quel paese. o quanto meno ridurre molto la nostra presenza. Insomma, i miei precedenti in materia sono disomogenei.
Ma qui siamo di fronte a un dilemma più generale. Quasi tutti i commentatori vedono di buon occhio l’intervento internazionale in certi posti e sono contrari in altri. Quella che per uno è una crociata del bene contro il male, per l’altro è pura follia interventista.
Come se l’unico punto in comune fosse l’incoerenza.
E, allora, dove rivolgerci in cerca di lumi? Dove trovare un insieme di princìpi operativi che ci dica quando intervenire? Purtroppo documenti del genere non esistono. La Carta delle Nazioni Unite prevede che il Consiglio di sicurezza decida se intervenire o meno caso per caso. Di conseguenza oggi sono in corso operazioni militari internazionali (missioni di peacekeeping sotto controllo Onu, operazioni della Nato, iniziative unilaterali americane) le cui finalità sono così varie da risultare di difficile comprensione anche per gli esperti.
Ancor più difficile è immaginare che un governo possa proporre linee-guida accettabili su come reagire agli stati canaglia o alle catastrofi umanitarie. La Casa Bianca è troppo ossessionata dalla sua crociata contro il terrorismo, e la sua incapacità di fare progressi in Iraq le impedisce di ragionare lucidamente sul problema più generale. Anche i leader europei che hanno criticato Washington, come il presidente francese Jacques Chirac, nel migliore dei casi hanno avuto poche idee da proporre. Russia e Cina invece stanno a guardare, attente a proteggere il principio del non intervento quando gli fa comodo.
E, tuttavia, su questi problemi potremmo riflettere più di quanto abbiamo fatto finora, e spingere i nostri leader a dedicare più attenzione a questo interrogativo cruciale: dove e perché interviene la comunità internazionale?
Non dobbiamo aspettarci una risposta rapida né facile, perché non esiste. Ma se in futuro ai governi e all’opinione pubblica di tutti i paesi del pianeta fosse chiesto di prendere in considerazione un intervento, quelli che sono favorevoli in una regione ma contrari in un’altra potrebbero cercare di chiarire meglio i motivi della loro posizione.

Paul Kennedy è professore di storia alla Yale university ed esperto di relazioni internazionali. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il mondo in una nuova era (Garzanti 2001).