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    Briza strazzèr i maròn!
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    Predefinito Modena / "Grazie" alla Lega verrà restaurato il patibolo di Ciro Menotti

    Modena - 8 Novembre 2006 – Il patibolo dell'impiccagione di Ciro Menotti e Vincenzo Borelli nella zona del Baluardo della Cittadella sarà restaurato seguendo le indicazioni contenute in una proposta del comitato modenese dell'Istituto per la Storia del Risorgimento. Lo ha stabilito il Consiglio comunale di Modena approvando all'unanimità un Ordine del Giorno con cui Mauro Manfredini (Lega Nord) impegna il Consiglio a fare propria la proposta dell'Istituto e dà mandato all'assessore ai Lavori pubblici di presentare in una prossima seduta il progetto esecutivo e il piano finanziario.
    Le linee progettuali proposte dall'Istituto per la Storia del Risorgimento prevedeno lo spostamento dei fittoni di marmo e delle catene ora poste tra il patibolo e il parchetto nel lato tra il patibolo stesso e piazza 1° Maggio (dov'è presente il parcheggio degli autobus), in modo da segnare un confine di protezione dagli urti e dall'invasione dei pesanti automezzi, inserendolo così nell'area monumentale del parco.
    Il progetto prevede anche la collocazione di un lampione in stile per garantire adeguata illuminazione e la realizzazione di un muro di altezza ridotta che riprenda il carattere delle rovine delle mura della Cittadella e consenta di fissare un bassorilievo in bronzo di Ciro Menotti - opera di uno scultore appositamente incaricato - oltre che la manutenzione dell'originale recinzione in ferro battuto e dell'originale filetta di sostegno. Per il progetto, che prevede anche la piantumazione di roseti e siepi e la collocazione di un'apposita segnaletica, l'Istituto si è detto disponibile ad operare per reperire una parte dei finanziamenti necessari.
    Illustrando l'Ordine del Giorno Manfredini ha ricordato il sacrificio di Ciro Menotti e Vincenzo Borelli del 26 maggio 1831, sottolineando che nel 1916 il luogo del sacrificio era stato individuato con certezza da un'apposita commissione: "Dopo la demolizione della cinta muraria e dei bastioni - ha spiegato - nel 1931 il luogo individuato dalla commissione venne sistemato a monumento rievocativo e recintato da un'inferriata. Fu anche posata una lapide commemorativa fissata ad un sostegno di mattoni murati, che riproponeva uno dei due sostegni emersi durante la demolizione delle mura e ei bastioni che, pur senza riscontri, si pensò essere i due sostegni originali delle due forche del supplizio". Manfredini ha quindi sottolineato che l'azione del tempo rende necessario un intervento di ripristino "che renda idonea la conservazione del luogo per l'alto significato storico e per la conservazione visibile della memoria cittadina", aggiungendo che l'attuale collocazione - con lo sviluppo urbano - "si è venuta a trovare al confine tra piazza 1° Maggio (parcheggio del pullman) e il parchetto della Cittadella, compromettendone la visibilità e l‘integrità".
    Nel corso del dibattito l'assessore ai Lavori pubblici Roberto Guerzoni ha assicurato la "piena condivisione da parte della Giunta sul testo, frutto del lavoro in Conferenza dei capigruppo", mentre Enrico Artioli (Margherita) ha rilevato che "il principio è il recupero di una storia locale, che andrebbe ulteriormente potenziata anche attraverso la programmazione di visite scolastiche".


    Biografia:
    Ciro Menotti (Migliarina, Carpi, 22 gennaio 1798 - Modena, 23 maggio 1831) è stato un patriota e un martire italiano.
    Affiliato alla Carboneria fin dal 1817, maturò fin da giovane un forte sentimento democratico e patriottico che lo portò a rifiutare la dominazione austriaca in Italia. Affascinato dal nuovo corso del re Luigi Filippo d'Orléans, dal 1820 tenne frequenti contatti con i circoli liberali francesi: l'obiettivo era quello di liberare il ducato di Modena dal giogo dell'Austria.
    Inizialmente, il duca di Modena Francesco IV si dichiarò favorevole al progetto rivoluzionario di Ciro Menotti, forse perché aveva l'ambizione a candidarsi come sovrano di un eventuale Regno dell'Alta Italia libero dall'egemonia austriaca. Nel gennaio del 1831 Menotti organizzò nei minimi dettagli la sollevazione, cercando il sostegno popolare e l'approvazione dei neonati circoli liberali che stavano nascendo in tutta la Penisola.
    Il 3 febbraio 1831, dopo aver raccolto le armi, Menotti radunò i suoi seguaci più fidati, dando ufficialmente il via al tentativo di golpe. Francesco IV, tuttavia, con un brusco voltafaccia decise di ritirare il suo appoggio alla causa menottiana ed anzi chiese l'intervento restauratore della Santa Alleanza. Gli storici si sono sempre chiesti il motivo di questo doppio gioco del duca: certi pensano che il rampollo della famiglia Asburgo-Este capì che il progetto di un Regno dell'Alta Italia era solo un'utopia; alcuni invece sostengono che Francesco era geloso del carisma di Menotti, altri ancora credono che il duca ebbe paura di perdere, dopo la rivoluzione, molti dei suoi priviligi.
    In ogni caso, dopo un iniziale successo, Menotti fu sopraffatto dalla truppe austriache intervenute in favore del duca Francesco IV, che durante i combattimenti si era recato in esilio volontario a Mantova. Arrestato, fu sottoposto a un rapido processo e fu condannato a morte mediante impiccagione per volontà esplicita del sovrano restaurato. La sentenza fu eseguita sugli spalti della Cittadella a Modena.
    Ciro Menotti, figura di rivoluzionario impavido e di eroe romantico, sarebbe diventato nella coscienza degli italiani dell'Ottocento un grande patriota: fu infatti considerato un precursore non solo del moti del 1831 ma anche dell'intero Risorgimento.
    La sua persona inoltre è stata immortalata da numerosi libri, canzoni e opere teatrali ispirati alle sue gesta. Una esauriente biografia di Menotti è contenuta nel volume "Ciro Menotti e i suoi compagni" edito nel 1880 dalla Tipografia Azzoguidi di Bologna. Nello stesso volume, scritto dall'ex ufficiale garibaldino Taddeo Grandi, sono narrate nei particolari le vicende che portarono alla realizzazione del monumento al Menotti in Modena. Tale monumento venne commissionato da un comitato di cittadini allo scopo di ricordare gli avvenimenti della notte del 3 febbraio 1831. Fu realizzato dallo scultore modenese Cesare Sighinolfi ed eretto nel 1879 proprio di fronte all'ingresso del palazzo, con lo sguardo rivolto verso la stanza dove venne firmata la sua condanna a morte, che era, al tempo dei Granduchi, il centro del potere.

    W L'UNNITà DITTAGLIA!!!! W IL RISORGIMMENTO!!! PADDANIA LIBBERA DAI POPOLI PADDANO-ALPINI



  2. #2
    Briza strazzèr i maròn!
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    Manfredini Mauro

  3. #3
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    La figura controversa del carpigiano Ciro Menotti: martire risorgimentale o informatore ben remunerato del duca Francesco IV d’Este? Fulgido eroe dell’Unità d’Italia o delatore di pochi scrupoli, sulla pelle dei “patrioti modenesi”?
    Controleggenda di un uomo considerato il protagonista dei moti modenesi del 1831, ma anche coautore di un intrigo, passato alla storia, sotto il nome emblematico di “Congiura Estense”.

    Dalla Repubblica Cisalpina alla Restaurazione
    Il 30 giugno 1797, per ordine di Napoleone, quella Repubblica, che era sorta tra il 16 e il 18 di ottobre del 1796, durante il Congresso Cispadano, convocato a Modena, nel Palazzo Rangoni con delegati di Modena, Reggio, Ferrara e Bologna , celebrata da grandi festeggiamenti, durante i quali i Francesi non si peritarono di alleggerire le casse pubbliche della capitale estense, cambiò nome e divenne Cisalpina. Il Bonaparte, in quell’occasione, chiamò presso di sé, a Milano, i modenesi Ludovico Ricci, Ludovico Loschi e Agostino Vandelli, affinchè, insieme ai reggiani Angelo Perseguiti, Giovanni Paradisi, Antonio Re e Pellegrino Nobili, ne preparassero le nuove leggi e la loro attuazione.
    Il Ricci poi, dal Direttorio esecutivo della Repubblica Cisalpina, fu nominato ministro delle Finanze, mentre un altro modenese, Carlo Testi divenne ministro degli Affari Esteri. L’anno seguente, fu chiusa l’Università e decretata la soppressione di tutti gli ordini religiosi, che, numerosi a Modena, non vennero mai più ricostituiti . I ricchissimi arredi del Palazzo Ducale, anch’essi dichiarati beni nazionali, furono venduti, a basso prezzo, a un mercante ebreo. Intanto, in quella che era stata l’ultima splendida capitale degli Estensi, il Comune riuscì a dilapidare, nel giro di sei mesi soltanto, la bellezza di centomila lire del tempo, tutte spese in feste e baldorie continue: tutto denaro speso in onore di una libertà che si era ben lungi dall’aver conquistato. Napoleone faceva e disfaceva, a suo talento: scioglieva società popolari o magari faceva chiudere l’istituto di pubblica istruzione, fatto aprire l’anno precedente, così come nominava o licenziava personalmente gli amministratori governativi e comunali.
    Si arrivò, nella più completa confusione, a quel fatidico 1799, che avrebbe visto l’avvicendarsi di ben quattro governi, austriaci o francesi, da maggio a settembre alternatisi equamente, con l’unica costante d’imporre alla città, già stremata, nuove requisizioni, sempre scandite dal cadere e dal rialzarsi di quel vuoto simulacro di libertà, rappresentato dall’albero repubblicano, o dal comparire e sparire dell’aquila bicipite. Dal 14 di giugno, i Francesi arraffarono quanto più poterono, comprese, pare, anche le medaglie-premio degli allievi dell’Accademia di Belle Arti, fino al tredici di settembre, giorno in cui pretesero foraggi e denaro dal Municipio, intimando che fosse pronto entro sei ore, pena l’arresto di tutti gli amministratori, se si fosse tardato a obbedire.
    Sempre in quel medesimo 1799, Napoleone Bonaparte, dopo aver rovesciato il Direttorio, si proclamò primo Console in Francia, suscitando la legittima reazione dei modenesi delegati Serbelloni e Aldini, che esposero, in un memoriale, le lagnanze di un popolo, quello di Modena, oppresso e impoverito, nell’abusato nome di una libertà fasulla. Niente da fare: sull’onesta franchezza e dignità dei due cadde il sospetto, al punto che un certo Vincenzo Frignani, reo di aver ristampato il suddetto memoriale con una prefazione di lode, fu tratto in arresto quale “eccitatore di publico disordine e di malcontento” .
    Nel gennaio del 1802, la Repubblica Cisalpina divenne la Repubblica Italiana di cui il Bonaparte si autoproclamò presidente, nominando suo vice Francesco Melzi d’Eril: Modena vide ancora feste e luminarie a celebrare l’evento e a prosciugare un erario già malmesso, ma, non ostante in Piazza Grande si innalzasse una nuova statua della Libertà, si trascurò, in questa occasione, tutto il corollario di formulette e simbologie repubblicane. Ritornò in auge persino il vecchio calendario gregoriano, che i “brumai” e i “ventosi” invano avevano tentato sopraffare.
    In quello stesso tempo, il 14 ottobre 1803, anziano, esule, l’ultimo Duca Estense Ercole III moriva, senza eredi maschi, a Treviso, dove si era trasferito da Venezia.
    In ogni caso, quest’ultima sedicente repubblica durò ben poco, infatti il 18 maggio 1804, Napoleone si fece proclamare Imperatore dei Francesi e il 22 di maggio fu lui stesso che si pose in testa la corona di Re d’Italia.
    Nel frattempo, da Modena, era partita una delegazione, guidata dal vice presidente Melzi d’Eril, meta Parigi, a intercedere presso il sovrano, perché il governo cittadino fosse tramutato subito in monarchico-ereditario. Cosa che ottenne puntualmente, il 17 marzo, insieme a uno Statuto. L’evento costituì il pretesto per nuovi e costosi festeggiamenti da parte dei modenesi, che culminarono con l’arrivo in città del Re-Imperatore, smanioso di ricevere, insieme alle chiavi di Modena dalle mani dei magistrati del Comune in pompa magna, l’affettuosa accoglienza di una nota nobildonna del luogo, di cui giova tacere il nome, non essendo ancora estinto il casato, che, in cambio dell’onore perduto, ebbe in dono dal Bonaparte una piccola tabacchiera d’oro, tuttora esibita, con malcelato orgoglio, dai suoi discendenti.
    Seguì un buon periodo, abbastanza prospero, per la città, visitata spesso dall’Imperatore, tra una battaglia e l’altra, fino al compirsi della sua parabola fortunata. Napoleone ebbe spesso a lodare la celebre Accademia Militare, che formava ufficiali tali da fargli dire, in tono confidenziale, al generale Achille Fontanelli: “Con centomila soldati pari ai vostri, Eugenio sarebbe già sul Danubio !” Dopo il disastro della campagna di Russia, nel dicembre del 1812, e la disfatta del 1813, subita dai Francesi contro la Lega di Russia, Inghilterra, Prussia e Austria, il 31 di marzo, Parigi aprì le porte ai vincitori e, dieci giorni dopo, vide firmato l’atto di abdicazione da parte del Corso.
    Era il 30 maggio 1814. In forza del trattato di Parigi, solennemente ratificato poi dal Congresso di Vienna, la Francia fu restituita ai suoi confini naturali e si ricostituirono gli antichi Stati, preesistenti alla folgore napoleonica.
    Modena, Reggio Emilia e Mirandola andarono all’arciduca austriaco Francesco, erede per successione materna dell’ultimo Duca di Modena Ercole III e rampollo dell’arciduca Ferdinando, governatore di Milano.

    Il Duca Francesco IV d’Este
    Con l’occupazione, da parte del generale austriaco Nugent, il 9 febbraio 1815, di quello che era stato, prima delle repubbliche Cispadana e Cisalpina, il Ducato degli Este, ebbe inizio la dinastia Austro-Estense, a Modena.
    Il generale istituì una Reggenza, mentre la Municipalità si affrettava a inviare delegati a Vienna per ossequiare il nuovo sovrano . La risposta di Francesco al suo popolo non si fece attendere: “Desidero di poter rendere questi miei Stati egualmente felici come lo erano sotto il mio avo Ercole III.” Aggiungendo la Duchessa Beatrice, sua madre: “Assicuro che mio figlio nulla più vivamente ambisce che di contribuire alla felicità e sodisfazione de’suoi sudditi.”
    Francesco era nato a Milano, il 6 ottobre del 1779, da Maria Beatrice Ricciarda d’Este, unica figlia di Ercole Rinaldo III, e da Ferdinando Asburgo Lorena, Governatore della Lombardia, figlio di Maria Teresa Imperatrice d’Austria. Allievo modello del professore gesuita Draghetti, il futuro sovrano avrebbe mostrato, fin da ragazzo, una vivace intelligenza, applicata, soprattutto, all’appassionato studio degli scrittori classici: in particolare gli storici e, fra tutti, Tacito. Il fatto poi di vivere, fino a trentacinque anni, presso l’austera corte della nonna, non gli avrebbe conferito certo un carattere debole o poco avvezzo alle malizie della politica e della diplomazia, che sarebbe emersa, in chiaro, nei periodi più critici del suo regno. Ancora giovanissimo, ricordiamo, tentò persino d’indurre alla rivolta contro Napoleone, l’Illiria e la Dalmazia, proclamando princìpi liberali, quelli stessi contro i quali, anni dopo, si troverà costretto a pronunciare condanne a morte. Nel 1809 fu Reggente della Galizia e, l’anno seguente, fece il suo ingresso sulla scena politica europea, mettendo sul tavolo un progetto di guerra totale ai Francesi di Napoleone, da lui soprannominato “il brigante”. Naturalmente concepì il suo piano confidando nell’appoggio dell’impero austriaco, dopo un abboccamento con Lord Bentinck e con altri aristocratici inglesi, che avevano organizzato un fronte di resistenza contro il Corso.
    L’Este accarezzò anche, per un certo tempo, pare, il progetto, caro a molti Milanesi, di uno stato indipendente, che avrebbe potuto corrispondere forse alla nostra Padania , sotto una nuova dinastia austro-estense, a conciliare tante aspirazioni dei popoli di allora. Vienna pose il veto però, preferendo un dominio diretto: anche l’Inghilterra ebbe paura di un tale stato indipendente, sottoscrivendo il punto di vista austriaco e Francesco dovette sottomettersi al volere delle grandi potenze. A Cagliari, in occasione del suo matrimonio, si era messo in contatto con le autorità inglesi, operanti allora nel Mediterraneo; nell’isola era arrivato dal sud, dopo una estenuante cavalcata attraverso l’Impero Turco, giusto per evitare un passaggio attraverso le terre sottoposte all’autorità del Bonaparte.
    Nel 1812, Francesco si unì così in matrimonio con Maria Beatrice Vittoria, figlia di Vittorio Emanuele I, Re di Sardegna, e la cosa avrebbe avuto una certa importanza nelle sue scelte future: tali nozze, infatti, gli recavano in dote l’opportunità di una eventuale successione al Regno di Sardegna.
    Francesco IV, come ci ricordano le antiche cronache della città geminiana , fece il suo solenne ingresso nella sua capitale, il 15 luglio 1814, circondato dagli Ussari gloriosi del Reggimento Radetzky, e accolto gioiosamente, con feste ed entusiasmi, dal popolo, dalla nobiltà e dal clero, che si aspettavano da lui quella pace e stabilità economica invano cercate sotto l’albero della libertà, giacobina prima e napoleonica poi. Il monumento a Napoleone, in Piazza d’Armi, che non era stato distrutto, ma parsimoniosamente ripulito dai fregi e dallo stemma imperiale, aveva accolto, già da alcuni giorni, la corona arciducale degli Este. Si narra che ventiquattro giovani, quasi tutti studenti, si precipitarono a staccare i cavalli dalla carrozza ducale e trassero in trionfo, attraverso la città, il nuovo sovrano , onorandolo alla stregua di un Imperatore antico .
    Francesco, fin dalle prime azioni del suo governo, sostenendo, come si sa, che il Ducato sarebbe dovuto ritornare “egualmente felice come era stato sotto Ercole III”, cominciò ad annullare ogni innovazione di matrice napoleonica e, in questa ottica ineccepibile, avocò a sé la nomina dei componenti il Comune, rimise in vigore, fatte salve alcune modifiche, il codice del 1771, con gli ordinamenti di quel tempo, e si prese cura di ripristinare gran parte degli ordini religiosi, che erano stati soppressi durante la rivoluzione.

    Il nuovo Ducato d’Este
    Il nuovo Stato si presentava, ora, come una struttura squisitamente federale, suddiviso nelle provincie di Modena, di Reggio, della Garfagnana, del Frignano, e della Lunigiana , di cui, le prime tre demandate ciascuna a un Governatore, le ultime a un Delegato. Queste provincie, a loro volta, si suddividevano in Comuni maggiori, retti da un podestà, e minori, retti da un Sindaco, gli uni e gli altri assistiti da un Consiglio Comunale. Il Ministero delle Finanze , il Ministero di pubblica Economia e Istruzione e l’Intendenza Generale dei beni camerali, allodiali ed ecclesiastici amministravano lo Stato insieme ai Governatori, coadiuvati da alcuni Consultori di segretari e di protocollari: un organismo molto semplice e altrettanto funzionale, che aveva del buono, specialmente per l’economia.
    Era posto a difesa del Ducato un piccolo esercito di pochi volontari stipendiati, come fanti e granatieri, Cacciatori del Frignano, dragoni, artiglieri e pionieri , e una milizia non stipendiata, come la guardia nobile e la guardia civica: quest’ultima comprendeva, complessivamente, sei battaglioni. Il servizio di polizia era affidato a pochi agenti, che rispondevano a cinque direttori provinciali, a loro volta sottoposti al Ministero delle Finanze, in una struttura veramente leggera per quel tempo.
    Francesco IV amministrava così il suo stato “piuttosto come un uomo ricco, un proprietario, un economista, che come un Sovrano”, stando almeno a quanto amava dire il principe cancelliere Metternich.

    Gioacchino Murat
    Erano trascorsi appena otto mesi dal trionfale arrivo di Francesco IV a Modena, quando, in modo del tutto inaspettato, l’esercito napoletano, guidato da Gioacchino Murat, ribellatosi a Napoleone, da Bologna puntò sulla capitale degli Este. Gli Austriaci affrontarono i Napoletani: vi furono scontri tra Anzola e il ponte di S. Ambrogio e Murat ebbe la vittoria. Il Duca, con la famiglia, il 4 aprile 1815, dovette ritirarsi a Mantova, mentre il Viceré, entrato in Modena, decretò che il governo della città fosse riunito a quello di Bologna. Come al solito il cambiamento, in città, fu segnato da feste e bagordi, ma i sostenitori della novità, questa volta, ebbero a disposizione poco tempo per festeggiare: tre giorni dopo gli Austriaci, cacciato l’invasore, tornarono a Modena insieme a Francesco, che fu accolto come un eroe e un liberatore.

    La seconda fase del Ducato
    Negli anni che seguirono la cosiddetta Restaurazione, la vita nel Ducato d’Este fu improntata all’ordine e alla pace. Francesco IV si diede da fare per il bene della città: riaprì l’Università, restaurò edifici pubblici e anche il Duomo, fece ripristinare la toponomastica delle vie, riordinò l’Accademia delle Scienze e delle Arti, quella dei Dissonanti, fondata ai tempi di Francesco II, attualmente lasciata in uno stato di estremo degrado dall’amministrazione diessina.
    Il Duca, inoltre, consentì la riapertura dei conventi e richiamò a Modena i Gesuiti, affidando loro l’istruzione ginnasiale e filosofica, con in dote una cospicua rendita. Ritornò finalmente in città , da Treviso, la salma di Ercole III, con solenni funerali celebrati in Duomo e lì sepolta, come suo antico desiderio, all’ombra dell’arca di S. Geminiano.
    Il Duca Francesco riuscì anche a recuperare molti tra i quadri più preziosi della Galleria Estense, involati e portati a Parigi, al tempo della rivoluzione.

    Carteggi e lacune
    “Le più feroci repressioni non avevano spento nei generosi cittadini l’amore di patria. -- Santo era il sangue versato, gloriosi i ceppi onde si teneano avvinti i colpiti dal despotismo, e da un capo all’altro d’Italia i nomi dei martiri erano forte incitamento a libertà; onde si può dire che come Nerone, Caligola e tanti altri tiranni imperatori romani colle loro persecuzioni valsero a stabilire ed a rendere glorioso il Cristianesimo, così l’Austria e i suoi satelliti, fra cui il principalissimo Francesco IV, colle condanne da loro pronunciate contro gli italiani non fecero che gittare le più solide basi pel grande edificio della indipendenza nazionale.”
    Questa la cronaca di una storiografia locale fortemente normalizzata dall’avvento del Regno d’Italia, ma gli eventi, che intercorsero, durante il regno dell’ultimo Duca di Modena, sono tuttora avvolti nell’incertezza e all’insegna di profonde contraddizioni, solo in parte decriptabili dal ricercatore contemporaneo.
    Fra tutti, un episodio della politica del giovane Duca, ritenuto, dai più, ambiziosissimo, può considerarsi il presupposto necessario agli eventi che seguirono.

    I Concistoriali
    Mentre da un lato, in Europa, nascevano numerose sette, atte a cospirare contro il nuovo assetto voluto dal Congresso di Vienna, la più famosa è la Carboneria, dall’altro gli stessi principi, non completamente soddisfatti della situazione creatasi, si ingegnavano di disegnare scenari futuri per i loro domini. Fra questi, Francesco IV fu uno dei più attivi. Una parte del clero, in rotta di collisione con l’Austria, si costituì in una setta, capitanata dal Cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato del papa PioVII, che si chiamò, autorevolmente, dei Concistoriali. Di questo gruppo andò a far parte il Duca e aderirono pure il Re di Napoli e quello di Sardegna. Costoro, una volta fatta piazza pulita del dominio austriaco in Italia, si proponevano di aggiungere la Toscana agli Stati Pontifici, l’Isola d’Elba e le Marche a quelli del Re di Napoli, Massa, Carrara, Lucca e parte della Lombardia a quelli del Re di Sardegna. Francesco IV avrebbe messo nel carniere il resto della Lombardia, tutto il Veneto, Parma e Piacenza, e la vastissima signoria, così composta, avrebbe portato con sé il titolo di Re. La polizia austriaca tuttavia, al corrente del piano, impedì astutamente che la Russia appoggiasse i Concistoriali e finse di ignorare la cospirazione, ormai fallita, e i suoi capi, in cambio del loro appoggio, pare, nel reprimere i moti Carbonari . Quasi tutti i documenti riguardanti questo episodio di storia, pare siano stati fatti sparire dall’Archivio di Stato di Modena e, verosimilmente, distrutti. Tante lacune tra carteggi e atti ufficiali fanno supporre che qualcuno, forse lo stesso Francesco IV, abbia voluto cancellarne le prove: anche perché questo oscuro episodio della storia italiana è forse il preludio di un altro torbido intrigo, ordito proprio nel cuore di Modena, di cui poco si sa e su cui molti hanno mentito, ad arte.

    La “Congiura Estense”
    Per fare un po’ di chiarezza, a questo punto, bisogna rivisitare, liberi da ogni possibile pregiudizio, una serie di fatti, molto particolari, inscritti nella storia modenese, con il nome intrigante di “Congiura Estense”, e risalenti al 1831.
    In questo caso anche, stranamente, difettano tangibili testimonianze di una probabile connivenza, in un complicato affare internazionale, tra il Duca d’Este e Ciro Menotti, “eroe” modenese dei moti del 1831 .
    Sia il Duca, sia gli stessi “patrioti” che seguirono, al governo della città, sarebbero stati poco propensi ad ammettere quell’imbarazzante sodalizio. Così, non ostante le carte restituite da Vienna all’Archivio di Stato modenese, rimane ancora delusa la speranza di ritrovare i “costituti” di Ciro Menotti prigioniero , in attesa della esecuzione, o i documenti, spariti dalla sua casa di Corso Canalgrande, il 3 di febbraio, la notte dell’arresto.
    Detta congiura era nata, forse, dagli intenti di alcune organizzazioni di esuli che avevano sedi e protezioni a Parigi e a Londra e che si prodigavano alacremente nella promozione di rivolte o insurrezioni nei Ducati emiliani o nello Stato pontificio, ispirati dall’avvento, in terra di Francia, tanto per cambiare, della monarchia liberale di Luigi Filippo d'Orléans. D’altra parte, è noto che Francesco IV fu, non ostante il parere contrario del Metternich, l’unico capo di stato europeo a non voler riconoscere il sovrano francese e questo fatto, in fondo, non depone certo a favore di uno stretto collegamento tra il sovrano di Modena e i fuoriusciti liberali.
    I principali attori della “Congiura”, seppure con ruoli ben diversi, furono, storicamente parlando, Francesco d’Este e tale Ciro Menotti da Carpi, ma altri resse il gioco delle marionette.

    Gli attori
    Il Duca Francesco, sposata, nel 1812, Maria Beatrice Vittoria, figlia di Vittorio Emanuele I, era diventato ”oggetto del desiderio” della parte più reazionaria della nobiltà piemontese. Non bisogna dimenticare tuttavia che vigeva ancora, per i Savoia, l’antica legge salica, per cui era inammissibile la successione al trono in linea femminile ; ciò nonostante, poiché Carlo Alberto del ramo cadetto Savoia Carignano, probabile successore di Carlo Felice al trono di Sardegna, pareva irrimediabilmente compromesso con i moti liberali del 1821, si auspicava che il cancelliere imperiale Metternich promuovesse al trono Francesco IV, grazie al suo matrimonio con la principessa.
    Ciro Menotti era nato nel 1798 a Migliarina di Carpi da un’agiata famiglia di commercianti e imprenditori , ritiratosi dalla scuola pubblica, forse per divergenze con il latinorum dei padri, fu istruito a casa, grazie ai quattrini dei suoi, dal precettore abate Antonio Manicardi, che gli insegnò l’inglese e il tedesco. Controversa pare un’ammissione alla scuola del Genio di Modena, all’età di quindici anni , anche se i suoi estimatori lo vorrebbero a tutti i costi nell’elenco degli allievi del colonnello Leonardo Salimbeni. Sembra invece che il nostro “illustrissimo patriota” sia stato, in quegli anni, con giulivo entusiasmo, un convinto sostenitore del duca Francesco, come tenente della guardia urbana, dedicandosi poi, nei momenti rubati al devoto servizio del suo signore , altrettanto gioiosamente, alla bella Francesca Moreali, già signora Tori, tanto da concepire un figlio. Lo scandalo suscitato dalla tresca fece sì che i parenti della donna ricorressero al tribunale per interrompere la relazione adulterina e il nostro, costretto a ritornare a Carpi, riprese a seguire il padre nella sua attività, meno eroica, ma redditizia di produzione e commercio del truciolo e della treccia di paglia per cappelli. Tre anni dopo, la provvidenziale morte di Giuseppe Tori, consentì, dopo un lutto di soli undici giorni, di regolarizzare la posizione degli amanti, di fronte agli occhi del mondo .
    A questo punto, l’eccessiva fretta scatenò, in quel di Modena e dintorni, l’impertinente diceria che il “libertino e la bella” avessero, un pochino, anticipato le nozze con una buona dose di veleno, voce riportata anche dallo scrittore Antonio Delfini. Ben poco valse, all’epoca, a tacitare i maligni, un certificato di morte, stilato ad hoc dal medico Antonio Boccabadati, in cui si parla di peritonite.
    Va detto anche che Ciro Menotti, prima del suo matrimonio, era noto per la sua vita sregolata: attratto dalla mondanità, dalla vita nobiliare, dagli stemmi e da ogni forma di grandezza esteriore, vagheggiò, pare, anche il progetto di comprarsi un titolo. Non male, per un aspirante eroe liberale e giacobino, cui Modena, tuttora, dedica un certo culto.
    Si sarebbe accontentato poi, dopo le nozze, di uno delle più sfarzose dimore cittadine, una quarantina di camere, a un isolato dal Palazzo Ducale, acquistata per la bella sommetta di quindicimila lire, che però si vide subito “costretto” ad ampliare e a ristrutturare, affidando i lavori all’ingegner Sante Cavani, cui si rimetteva, all’epoca, ogni arrampicatore sociale che volesse fare sfoggio del suo nuovo status.
    Sempre nell’ottica dell’apparire, ben deciso a fare la sua parte, nella politica del tempo, Ciro Menotti, sul finire del 1829, entrò in contatto con il modenese Enrico Misley, che si sarebbe rivelato, molto presto, figura di primo piano nella cosiddetta “ congiura estense” .

    Enrico Misley, il burattinaio
    Giovane avvocato modenese, Enrico Misley si guadagnò una certa notorietà, nel 1824, assumendo, presso il Duca, la difesa del buonarrotiano gran maestro di Reggio Emilia, Giacomo Farioli, con l’esito brillante di una riduzione della pena, dalla galera a vita, a soli quattro anni di carcere duro. Fonti maligne, al solito, insinuano però che un tale successo, più che alle doti forensi del Misley, sarebbe stato dovuto alle molte informazioni, fornite dal Farioli al Duca, su una pletora di sette segrete, facenti parte, comunque, del vasto corollario della Massoneria internazionale.
    Tant’è che il brillante “avvocatino” abbandonò, prontamente, l’attività forense per introdursi a corte, come consulente d’affari, agevolato, in questo, dal segretario ducale Gaetano Gamorra: iniziato alla Massoneria, già in epoca napoleonica, dal padre docente universitario, nel 1824 si fece Carbonaro e, al tempo stesso, iniziò a montare la testa al duca d’Este.
    Misley, infatti, con assidue frequentazioni, si era guadagnato la fiducia di Francesco IV, assecondando e alimentando, soprattutto, le ambizioni espansionistiche del Duca e la sua malcelata aspirazione a occupare il posto del compromesso Carlo Alberto nella successione al trono di Sardegna. Cominciò così un abile gioco di tessitura che vedeva, da un lato, una sorta di collaborazione tra l’Este e frange del movimento “liberale”, disposte a riconoscergli il primato tra i sovrani italiani, in cambio della unificazione degli Stati in una monarchia parlamentare-rappresentativa, dall’altro, come espressione delle classi medie, un prevalente indirizzo moderato, nel quale le istanze liberali apparivano compatibili con il mantenimento dell’assetto monarchico.
    Un appoggio di Francesco IV, che intuiva un allargamento del suo potere su tutti i Ducati, sulle Legazioni pontificie e perfino sul Regno di Sardegna, avrebbe, secondo il Misley, facilitata l’azione dei liberali, che intendevano modificare in ogni caso l’assetto della penisola, sancito a Vienna nel 1815.
    Munito di regolari passaporti, con il visto della polizia estense, e molto denaro, l’intraprendente modenese, tra il 1828 e il 1830, percorse, in lungo e in largo, Italia, Europa centro-orientale, Francia e Inghilterra, riuscendo a interessare e coinvolgere, nel suo ambiguo disegno, molti esuli italiani, i quali, in un primo tempo diffidenti, si risolsero di appoggiare le pretese del Duca di Modena, grazie soprattutto all’abilità luciferina dell’uomo che aveva deciso di cambiare, in un certo qual modo, l’assetto del nostro paese.
    Il suo piano può sembrare oggi scarsamente realistico e non privo di una buona dose di stravagante presunzione, se si pensa al suo voler mettere insieme un principe, già molto odiato dai liberali per la dura repressione da lui operata negli anni 1821 e 1822, che vide la condanna del prete Giuseppe Andreoli e le sentenze del tribunale di Rubiera, un principe, cresciuto però a Vienna con il senso profondo dell’Impero, e gli oscuri armeggi di sedicenti patrioti., più che altro mercanti e massoni in cerca di un pugno di soldi e di potere. Per questo motivo, taluni, in merito alle relazioni intercorse realmente tra le parti, sostengono che l’Este, in verità, si prestasse alla congiura, più che altro al fine di procurarsi preziose informazioni sui movimenti dei Carbonari: tesi, se non altro, avvallata dall’esito finale della intricata vicenda. Un vero e proprio intrigo, “un intreccio degno di un capolavoro di Pirandello” , con ombre, false luci e tanti “così è se vi pare”, se l’unica fonte del processo che condannò a morte Ciro Menotti, rimane un’opera teatrale del 1931 di Spartaco Turrini, rivolta ai giovani di allora: “perché sentano pulsare nel loro cuore di italiani e di fascisti l’eroica fede dei cospiratori modenesi. Oggi essi, nell’aureola della loro gloria e nella pace del loro sepolcro, fremono di gioia nel contemplare l’Italia di Benito Mussolini così grande e così intera mai veramente sognata” .

    Ulteriori sviluppi
    In questo particolarissimo contesto, verso la fine del 1829, s’infilò il nostro Menotti, entrato in contatto con Francesco IV, tramite il Misley. Il sodalizio resse abbastanza fino agli inizi del 1831, con un tale affiatamento da far spettegolare i Bolognesi su due noti personaggi, in quel di Modena, che sarebbero stati agenti al soldo del Duca, incaricati di organizzare moti carbonari per poi scoprirli. Ciro Menotti, in tutti i modi, si avvalse della protezione del Duca per spingere avanti altri suoi maneggi cospirativi e, godendo di una certa libertà di movimento, pare avesse messo giù una rete, che si allargava dai centri minori del ducato d’Este fino a Mantova, Parma, alle Legazioni Pontificie e alle Marche. Prevaleva comunque un indirizzo moderato, nel quale le istanze liberali erano compatibili con l’assetto monarchico, facendo conto che i sovrani si sarebbero dichiarati disponibili alla concessione di istituzioni ampiamente rappresentative. Il Menotti sosteneva: ”Le genti reclamano in silenzio e fremendo, l’indipendenza, l’unione, e la libertà di tutta l’Italia”…”dando la corona a quel soggetto che verrà scelto dall’assemblea o congresso nazionale…” da convocarsi “in quella Roma che non ebbe uguale e che non l’avrà nell’opinione del presente e dei posteri.” In quei giorni la casa del Menotti, secondo la testimonianza diretta di Lotario Bacciolani, “parea una borsa di negozianti: chi andava, chi veniva, sì di giorno che di notte…”.
    I due individui, Menotti e Misley, se pur ritenuti protagonisti alla pari con Francesco IV, della “Congiura Estense”, avevano valenza differente: nazionale quella del primo, internazionale quella dell’altro, accomunati tuttavia dalla ferma certezza di poter realizzare il proprio progetto, tramite un sovrano in grado di rappresentare tutto il paese, e costui l’avevano trovato, comodo e vicino, nella figura del Duca d’Este. Questa internazionalità del Misley, preferito all’amico per una missione a Parigi, gli avrebbe salvata la ghirba quando il Duca, mutò, pare, atteggiamento nei confronti dei liberali.

    Lo stato reale delle cose
    Per la verità, Carlo Felice, restio alquanto a violare la legge salica, escludendo dalla successione Carlo Alberto, ritenendo che il nipote, non ostante la sua condotta del 1821, non aveva ancora demeritato il regno, aveva voluto dargli nuovo credito. Carlo Alberto, che non era uno sprovveduto, giocò, a sua volta, d’astuzia nei confronti di Francesco IV e, in obbedienza agli ordini ricevuti da Carlo Felice, rinunciò alla Reggenza, lasciò Torino per Novara e, di lì, passò in Toscana. Transitando per Modena, l’erede dei Savoia avrebbe voluto cogliere l’occasione di presentarsi al Re, allora in visita alla corte d’Este, ma Francesco indusse Carlo Felice a respingere villanamente il conte Costa, che recava una lettera nella quale il Principe di Carignano chiedeva di essere ammesso alla presenza reale. Non ostante ciò, a dispetto del valido aiuto del fratello Arciduca Massimiliano, che si era prodigato in ” buoni consigli”, a dispetto del sostegno dei Sanfedisti, nella persona del loro capo, il Cardinale Albani, Francesco non riuscì a smuovere Carlo Felice.
    A questo punto, ovviamente, l’Este, costretto realisticamente a mutare atteggiamento nei confronti dei suoi, non poi tanto affidabili, sodali, prese un’altra strada. La facondia di Misley forse non aveva mai fatto presa realmente sull’intelligenza del Duca, cresciuto in mezzo a maneggi di ben più alto profilo, presso la corte imperiale, e la furbizia di un mercante di trucioli, pur anche invasato dalle idee liberali dell’epoca, non lo rendevano certo il “Fouchet” di Modena, agli occhi di un uomo che forse, se il sangue non è acqua, fin dal principio aveva usato entrambi, per un suo disegno, i cui contorni precisi forse non ci saranno mai completamente noti..
    La situazione politica, oramai mutata profondamente, dopo l’ascesa al trono di Francia di Luigi Filippo, la crescente preoccupazione di Francesco per una possibile reazione del Metternich, ormai perfettamente al corrente delle sue manovre, la fedeltà dello zar Nicola ai dettami del Congresso di Vienna, indussero di certo il Duca ad appoggiarsi ai consigli più realistici di Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa. Un legittimista convinto come il sovrano di Modena, non poteva non nutrire una salutare avversione per Luigi Filippo, il “Re delle barricate”, e, verosimilmente, diffidava di lui, temendo che il Francese, per ingraziarsi la Santa Alleanza, cercasse di metterlo in cattiva luce. Il Canosa, da parte sua, ex ministro di polizia nel Regno delle due Sicilie, acerrimo nemico dei Carbonari, era arrivato a Modena grazie all’insistenza del conte Girolamo Riccini, consigliere di Stato di S. A. R., con un preciso incarico: mettere fine alla commedia.

    L’epilogo della commedia
    Francesco IV si preparò, reclutando, per la sua difesa, trecento montanari del Frignano, tra i più fedeli al casato degli Este, e chiedendo, in prestito, armi più moderne al ben fornito Carlo Felice, mentre fingeva di ignorare la frenetica attività cospirativa di Ciro Menotti. Costui, checché se ne dica, non si era accorto del vento cambiato, o era stupido, altrimenti non avrebbe perseverato, imperterrito, nel mettere su comitati insurrezionali a Bologna, in Romagna, a Firenze, Mantova e Parma o nell’inviare missive al suo socio, a Parigi, se pur scritte con l’inchiostro simpatico., inneggianti all’unità, libertà e indipendenza, Roma capitale, tricolore e altre amenità del genere. Faceva pure gli inviti, il buon Ciro, come accadde durante un suo viaggio a Firenze: a far parte della sua cospirazione avrebbe voluto i fratelli Bonaparte, Luigi Napoleone e Carlo Luigi Napoleone. Cercò anche di rastrellare denari presso le comunità ebraiche modenesi, ostili al Duca, ma, ricevuto un secco rifiuto, sbottò, in una lettera all’amico, con un “Maledetti Ebrei , che potrebbe apparire ora poco politicamente corretto, ai suoi estimatori attuali.
    Non ebbero migliore trattamento dal nostro “patriota” i rappresentanti della ricca borghesia liberale modenese, anch’essi restii ad aprire la borsa per la “causa”: “Nessuno di queste canaglie di ricchi che lo divennero all’ombra della libertà che voglia far sacrifizi ”.
    Finalmente il carpigiano ebbe sentore dell’imminente e inevitabile repressione e, non potendo o volendo più tornare indietro, come un don Abbondio che aveva scorto i bravi, affrettò il passo: la data della rivolta, a Modena e nel ducato, venne fissata per il 5 di febbraio e tosto comunicata “astutamente”, seguendo i normali canali postali, a Misley a Parigi.
    Secondo il piano e secondo gli accordi con il comitato di Parigi, che avrebbe dovuto inviare armi, denaro e uomini, compiendo anche azioni diversive sulle coste italiane, un gruppo di giovani scelti e ben armati avrebbe dovuto trovarsi in teatro, accanto al palco ducale, pronto a bloccare la prevedibile reazione della guardia del duca; Ciro Menotti, a questo punto, si sarebbe presentato al Sovrano per comunicargli “il nuovo ordine di cose stabilito dai popoli d’Italia e offrendogli la corona dell’indipendenza, ove si fosse posto a capo della rivoluzione ”.
    L’impreparazione, l’ingenuità, l’assoluta mancanza di coordinamento, il difetto delle più elementari precauzioni e non l’ambiguità del Duca o il tradimento di qualcuno fra i liberali, fu la causa principale del fallimento del moto insurrezionale del 1831 a Modena.
    Tutta la città era a conoscenza dei preparativi della rivolta, anche per il continuo andirivieni, notturno e diurno, a casa Menotti, tra l’altro a due passi dal Palazzo Ducale, di cavalli e gente armata. Non fu certo necessaria la vigile azione della polizia estense, quando lo stesso Francesco avrebbe potuto seguire i preparativi della farsa da una delle finestre alte della sua dimora. A questo punto, forse per un estremo avvertimento, la mattina del 3 febbraio, l’Este fece arrestare alcuni cospiratori di medio calibro, come Nicola Fabrizi e bandì dallo Stato Carlo Zucchi e Achille Fontanelli, ma, imperterrito, Ciro Menotti aspettò il tramonto e i soldati ducali, nella sua casa di corso Canalgrande, insieme ai compagni, ancora convinto di fare la rivoluzione.
    Il Duca in persona si recò sul posto per intimare la resa, ma non ottenne che qualche fucilata dalle finestre del solaio, che centrarono due sodati, un dragone e un pioniere, mentre il “fulgido eroe” inseguiva la gloria in piccionaia, dandosela a gambe sui tetti delle case vicine. Ferito, a sua volta, ma di striscio a una spalla, Menotti fu finalmente preso, insieme agli altri cospiratori, dal maresciallo dei dragoni Pioppi. Le cronache dell’epoca riferiscono che nessun modenese si fece avanti per salvare i Carbonari.
    Il consigliere Carlo Roncaglia, capo dell’Ufficio di Statistica, uno degli uomini più lungimiranti e capaci dello Stato, degno di ammirazione e di rispetto anche presso gli avversari liberali, che si distinse anche durante il regno di Francesco V, riferendosi alla famosa sera del 3 febbraio, scrisse su La Voce: “Menotti non poteva far coraggio agli altri, mentre non ne aveva egli stesso: nella sua casa avvi una scaletta interna, che mette in comunicazione il primo appartamento col superiore…Egli non faceva che ascendere e discendere tutto confuso, e commetteva degli atti di somma viltà, provando a nascondersi, ora in una parte ora in un’altra”.
    Sottoposto poi a un regolare interrogatorio, la mattina del 4 febbraio, il carpigiano, al cospetto della commissione militare, (“ tremava, rispose alle interrogazioni generali gemendo…rispose che non poteva essere responsabile di quanto era accaduto, perché si trovava nell’appartamento superiore; che egli non aveva dato alcun ordine di far fuoco; che se fosse stato ove erano gli altri, ciò non sarebbe accaduto ”), diede prova di esemplare coraggio, ben degno dello Stato di cui sarebbe diventato nume tutelare.

    Una condanna esemplare
    Il tribunale di Stato pronunciò ben 212 condanne, ma, quasi tutte, contro imputati in contumacia. Due sole le condanne a morte eseguite: la cittadella di Modena vide la forca di Ciro Menotti e di Vincenzo Borelli, quest’ultimo tirato in ballo, alla fine, per una inopportuna sottoscrizione, la mattina del 9 febbraio, di una “Dichiarazione” antiducale del dittatore Biagio Nardi, che lo fece incorrere nel delitto di lesa maestà. A Enrico Misley, ancora al sicuro in quel di Parigi, non fecero nemmeno un processo in contumacia, non ostante le pressioni del capo della polizia sul Duca e un poco commendevole tentativo, da parte del nostro eroe carpigiano, di fargli assumere, da solo, la responsabilità della rivolta. Anche durante i suoi ultimi istanti di vita, il “patriota”, secondo i giornalisti dell’epoca, non fornì ai posteri bella prova di sé, dato che “Lo sciagurato, che non desiderava certo di andare sì presto nell’asilo dei martiri, non sapeva risolversi ad abbandonare la prigione. I sacerdoti confortandolo con sentimenti di vera religione, ve lo determinarono ”.

    Considerazioni del senno di poi
    La figura dell’avvocatino modenese, Enrico Misley, “agente provocatore”, a detta di Filippo Buonarroti, “imbroglione”, per Giuseppe Mazzini, che vedeva in lui un ingombrante e abile rivale presso i comitati patriottici di Parigi e Londra, che il fondatore della Giovane Italia considerava da tempo “cosa sua”, è scomparsa, a torto o a ragione, dall’immaginario popolare dell’epoca.
    La memoria collettiva, a Modena, è stata nutrita, infatti, con drammi e commedie, discorsi e martirologi, creazione di veri e propri “templi del Risorgimento”, come il rinnovare la toponomastica cittadina, per monumentalizzare e mitizzare soprattutto certi personaggi, tra cui Ciro Menotti, ai fini di una costruzione virtuale di una identità nazionale, peraltro inesistente. Lo stesso periodo fascista, come abbiamo visto, ci mise copiosamente del suo. Le numerose ambiguità del “patriota”, la grande ambizione, il desiderio di mondanità, il suo spendere e spandere quattrini mai suoi, vennero velati da un mito, creato ad arte dai liberali, che ne avevano veramente bisogno, per avvalorare un carente o inesistente spirito rivoluzionario nel ducato degli Este.
    Per tutti, ricordiamo il falso, di cui si macchiò lo storico Atto Vannucci, proprio per corroborare sentimenti di amor patrio, ancora abbastanza striminziti all’epoca: rimaneggiò e alterò profondamente l’ultima lettera, rinvenuta nel 1848, di Menotti, scritta alla moglie poche ore prima della morte, aggiungendo persino intere frasi, solo per rendere più bella e ricca di interesse la figura del cospiratore e diffonderne il culto, soprattutto tra i giovani.
    Soltanto cinquant’anni dopo, Giuseppe Bayard de Volo, nell’estremo tentativo di limitare l’inganno, avrebbe scritto nel suo opuscolo Perché un monumento a Ciro Menotti?: “Attore di un lurido romanzo, ove due amanti finiscono col celebrare le loro orge maritali sulla tomba ancora scoperchiata di un uomo che aveva pur esso diritto di vivere e di amare, e del quale, se non insidiarono i giorni e si contentarono solo di attendere e bramare con impazienza l’estremo anelito, fu solo perché, ad onta sua, poterono bearsi di un amore illecito bensì, ma non infruttuoso”.

    Quaderni Padani

 

 

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