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    Predefinito Personaggi ed interpreti

    Prodi....e il suo Paese

    Roma. Ecco un altro colpo alle larghe intese, diciamo pure al bipartitismo mite, forse addirittura alla concordia nazionale.
    Quando Prodi dice che “siamo in un paese impazzito”, facendo intendere che questa è pessima cosa e grande disgrazia, è chiaro che scava un nuovo solco con il Cav., che con un paese tutto matto di suo andrebbe a nozze.
    Si potrebbe qui dire che il premier si fa seguace di san Filippo Neri, secondo i versi canterini di Angelo Branduardi, “state buoni, se potete”, mentre è notorio quanto il suo predecessore abbia caro Erasmo, avendo a suo tempo argomentato, ragionando intorno a “L’elogio della follia” che la vera saggezza sta “non in un atteggiamento razionale, necessariamente conforme alle promesse e perciò sterile, ma nella lungimirante, visionaria pazzia”.
    Due Italia che trent’anni dopo neanche sull’approvazione della 180 saprebbero intendersi. Volendo, vespianamente un’Italia spezzata pure dal giudizio sulla pazzia.
    Tema, peraltro, che aveva già trovato il suo cantore epico nel presidente Cossiga: “Ma io non sono matto. Io faccio il matto. E’ diverso”.
    Ora invece Prodi ricaccia il tema dell’impazzimento nel buco nero delle cose dannate, del politicamente dannoso. Di conseguenza nel Palazzo è un rodersi dubbioso tra squilibrio e ghiribizzo, stramberia e mattana. Un vero peccato che il professor Meluzzi, con la sua autorevolezza di psichiatra, anziché figurare ancora nei ranghi dei senatori forzisti si sia imbarcato per l’Isola dei famosi a soccorso dei naufraghi di Simona Ventura.
    Ma per il Transatlantico passeggia Franco Grillini, che canticchia “je so’ pazzo/ je so’ pazzo/ e oggi voglio parlare”, e spiega:
    “Io sono psicologo, e sostengo che ognuno di noi ha una sua quota di follia, e per buona salute mentale una parte di noi stessi è inconoscibile al mondo”.
    Je so’ pazzo, dunque.
    E peggio ancora forse sta messo il suo collega dirigente della Margherita, che ride e insieme si lamenta: “Per Berlusconi ero un coglione, per Prodi sono matto, qualcuno vuole pure mandarmi a fare in culo?”.
    Essendo impazzito, prodianamente parlando, il paese, è chiaro che il capo del governo pensa che, come in quella vecchia canzone di Vecchioni, “i pazzi sono fuori”, nel caso specifico da Palazzo Chigi.
    Ma quelli fuori fanno capire invece che i più matti proprio lì sono allocati, praticamente il reparto grandi agitati.
    E ieri sull’Unità Dario Franceschini lo spiegava, mentre Dacia Maraini invece l’opposto illustrava. Il capogruppo dell’Ulivo fa notare che “finora hanno fatto più squadra i gruppi parlamentari che non i ministri”, mentre la scrittrice dice che “siamo esattamente a ‘Prova d’orchestra’ il film di Fellini” in cui tutti andavano per conto loro, il trombettista e il violinista parevano due ministri prodiani.
    E persino i lettori di Liberazione scrivono al giornale per lamentarsi, “ci sentiamo offesi”.
    Presi dalla Finanziaria, gli squinternati fuori da Palazzo Chigi questa faccenda dell’Italia matta non l’hanno presa troppo sul serio, “per fortuna neanche quelli dell’opposizione”.
    Che se non hanno insistito hanno però dato pratica dimostrazione.
    Così l’altra sera hanno portato in aula, recita lo stenografico della seduta, “un dolce per il suo quarantaseiesimo compleanno” al capogruppo di Forza Italia, Elio Vito.
    E per l’appunto il suo collega di An, Ignazio La Russa, ha tenuto a precisare, e risulta sempre dallo stenografico: “Presidente, siamo tutti matti!”.
    Comprensione per Prodi mostra invece Rosi Bindi, “è un ragionamento condivisibile”.
    Ma il ministro della Sanità in carica, Livia Turco, di suo autorizzata a esprimersi sul tema, non ha detto nulla.
    Però intanto ha saggiamente raddoppiato i quantitativi di cannabis per uso personale.
    Visto mai.

    saluti

  2. #2
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    Predefinito United Tonino of

    Roma. Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro ha attaccato ieri la decisione del commissario europeo al Mercato interno Charlie McCreevy che ha avviato una procedura d’infrazione contro l’Italia riguardo alla revisione del sistema delle concessioni autostradali, che tocca le tariffe da applicare agli utenti e le regole degli appalti.
    La scelta di Bruxelles è considerata da Di Pietro “sbagliata nel metodo e nel merito”.
    Secondo il ministro, si riferisce a un articolo del decreto già modificato e arriva senza una richiesta preventiva di informazioni.
    Di Pietro attacca anche la società Autostrade. Dice che ritiene necessaria l’autorizzazione al trasferimento della concessione ad AutoAbertis. Autostrade non è d’accordo, ma il ministro ritiene che su questo punto “è stata smentita dal commissario Neelie Kroes (responsabile per la Concorrenza, ndr), che ha riconosciuto il nostro diritto di valutare l’operazione dal punto di vista dell’interesse pubblico, prima di concedere l’autorizzazione. Lo ha fatto sospendendo la procedura d’infrazione sine die”.
    Di Pietro continua nella sua azione di resistenza ossessiva ai termini della fusione tra Autostrade e Abertis, fondata sulla premessa di un sospetto di sostanziale extraprofitto da parte degli azionisti che conferiscono Autostrade alla fusione.
    La posizione del ministro, appoggiato in silenzio dal collega Tommaso Padoa-Schioppa, si scontra con due macigni.
    Primo: l’interventismo del ministro è culturalmente superato, tanto che la Commissione europea lo tiene nel mirino.
    La seconda questione, sollevata naturalmente dalle società interessate – ma nel complesso da tutti gli operatori di mercato – è la disinvoltura con cui Di Pietro si è occupato della fusione Autostrade-Abertis, colpendo le società coinvolte.
    Negli ultimi sei mesi, dall’annuncio dell’operazione fino a oggi, il titolo Autostrade è rimasto sì sostanzialmente stabile, tenendosi tra i 21 e i 24 euro, ma in questa banda del 12-15 per cento, ci sono state oscillazioni giornaliere abbastanza intense, registrate sempre in funzione delle dichiarazioni del ministro, spesso arrivate a mercati aperti, cioè con il rischio concreto di influenzare i corsi di Borsa.
    Inoltre, c’è l’aspetto che tocca i conti delle società. Schema 28, che detiene il 50,1 per cento della società Autostrade, ha chiesto i danni per difendere i propri interessi riguardo alla revisione dei termini delle concessioni.
    Intanto il gruppo Benetton si ritrova con un altro fronte aperto, interno questa volta, le dimissioni dell’ad della società che si occupa di abbigliamento, la Benetton Group, Silvano Cassano.
    In realtà i campi d’azione dei Benetton sono vasti e complessi. La finanziaria cui fanno capo le attività della famiglia Benetton, Edizione Holding, è stata scissa in due rami. C’è una società retail, che controlla tra l’altro la Benetton group, la Autogrill, e le partecipazioni finanziarie tra cui: 5 per cento di Rcs, 2,24 per cento di Caltagirone Editore, lo 0,69 per cento delle Generali, poco più del 2 per cento di Banca Leonardo. Nell’altro ramo, in una società chiamata Sintonia, ci sono le partecipazioni nelle infrastrutture, innanzitutto il controllo di Autostrade, attraverso una lunga catena di società; poi la quota del 20 per cento di Olimpia, che a sua volta detiene il 18 per cento di Telecom, il pacchetto di Grandi Stazioni in alleanza con Caltagirone, e la partecipazione in una serie di aeroporti regionali. I golfini dunque sono all’altra estremità dei caselli autostradali. E quello che capita in Benetton Group è molto distante dalle attività di Schema 28. La società ha fatto sapere che è finito il mandato dell’ad e che c’era divergenza sulle strategie estere tra manager e proprietà.
    Nessuno tra gli osservatori si è stupito, il gruppo veneto è considerato un tritamanager, dunque è già un buon risultato il triennio di Cassano. D’altra parte tutto sembra lasciare intendere che stia crescendo il peso in azienda di Alessandro Benetton.
    Un segnale ulteriore è arrivato ieri con l’annuncio delle dimissioni dello stesso Benetton dal cda di Permasteelisa, società del settore edilizio, per i crescenti impegni.
    Semmai desta un po’ di perplessità l’apertura di un nuovo fronte, con la partita Autostrade in piena bagarre e le voci che darebbero in uscita altri grandi manager del gruppo.

    Da il Foglio

    saluti

  3. #3
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    Predefinito La terza vita di Bondi

    Santa meraviglia”, è possibile dire.
    Nella sua terza vita – che potremmo poeticamente decantare come vita assaporata, vita preceduta e vita inseguita, così come “A Silvio” cantò il nuovo poeta, non meno intensamente di come “A Silvia” cantò l’altro poeta – Sandro Bondi si è trovato a poetare dopo tanto lottare.
    “Vita nova”, dunque. Che se da Berlusconi pur sempre promana, ora va ad accasarsi lietamente tra Apollo e Charles Baudelaire, condizione certo meno mesta che quella posta tra Fabrizio Cicchitto ed Elio Vito.
    Letizia artistica, ciò che nella terza vita brilla negli occhi di Bondi, che lo spinge a farsi ermetico come Giuseppe Ungaretti e ardito come Sandro Penna.
    E’ la nascita dell’haiku di Arcore, dopo secoli di predominio di quello nipponico,
    “canto degli uccelli”, per dire, oppure “vuoto di silenzio”.
    Bondi è cambiato, cambiamento del cuore e cambiamento di metrica. Come a qualcuno succede di avere incontri ravvicinati del terzo tipo, a lui ora accade di avere una terza vita, dopo quella rossa giovanile e quella berlusconiana della (prima) mezza età. Ormai s’innalza, si strugge, come il passero solitario della nuova colleganza cantando va finché non more il giorno, liberamente lascia correre tanto il riso e tanto il sentimento.
    Un “berlusconiano di cuore”, ora si definisce, che sfida a singolar tenzone in versi Patrizia Valduga, che eleva il suo canto poetico per le belle grazie di una giovane commessa di Montecitorio, “mite regina/ misteriosa malia/ polvere di stelle”, e con non meno suggestione per i quarant’anni della signorina Marina B., “parola di Dio” – si capisce.
    Ecco, eppure non è l’essenziale.
    Il poetare è solo il modo di Bondi di ringraziare, e lui, persona di sfibrante gentilezza, non negherà ad alcuno un componimento e a un uditorio una pubblica lettura. Ma i versi – che Vanity Fair golosamente ospita e che i giustizialisti sfottono, “dopo essere stato tra i compagni/ adesso coi padroni t’ingozzi e magni” – sono solo un’espressione, pur alta, dell’ennesima vita di Sandro Bondi.
    Che ha aggiunto ironia e leggerezza a quella sorta di stordimento che sempre lo prende quando parla del Cav., tramutandolo da estasi politica in estasi poetica.

    L’ironia del rinato
    L’ironia del rinato Bondi (dopo tanta sul Bondi medesimo), si diceva.
    Bastava vederlo l’altra sera a “Crozza Italia”, con il comico che faceva Marzullo e lui su una sedia che rispondeva a tono e si faceva abbracciare senza un “vade retro” mentre quello cantava l’Internazionale, anzi si è pure “un filino” commosso e si capiva che si faceva forza (il caso di dirlo) per tenere il passo con l’inno di Forza Italia.
    “Soprattutto poeta”, ha detto di se stesso, con una pelata orgogliosa che il Cav. cose del genere non ha mai visto, e poi l’inevitabile componimento,
    “Perdonare Dio” – e tra Dio e l’Unto la differenza è questione da teologi mica da spettatori.
    E si offre all’imitazione di Max Tortora, va persino a ritirare un premio da Gene Gnocchi, che quasi lo tratta con il trasporto che riserva a Bersani. “Torni comunista!”, lo ha implorato Crozza.
    Forse sì, ma solo tendenza Majakovskij.

    Su il Foglio

    saluti

 

 

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