È morto anche il Tribunale dell’Aja
Maurizio Blondet
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È stato avvelenato? Si è avvelenato da sé? S’è lasciato morire sputando di nascosto le medicine? Pare quest’ultima la tesi ventilata dalla procuratrice Carla De Ponte: Slobodan Milosevic è morto per colpa sua. Livida, la signora Del Ponte. Perché nel polverone dei sospetti e dei complotti che ormai non si poserà più, una sola cosa è chiara: Milosevic è riuscito a trascinare con sé nella tomba - e peggio, nel discredito - l’organo fra le cui mani è defunto: il Tribunale Internazionale dell’Aja.
Di questo, le persone sensate hanno da rallegrarsi. Il Tribunale dell’Aja ha avuto l’ambizione di essere la nuova Corte di Norimberga, ma con le mani pulite.
Su che cosa sia stato il processo di Norimberga contro i capi nazisti, i giuristi furono subito d’accordo. «Prima dei processi di Norimberga», scrisse William O. Douglas, giudice della Corte Suprema Usa, «i crimini dei quali i nazisti sono accusati non erano tali secondo le leggi penali… e nessuno può essere giudicato per aver violato una legge che non era in vigore al tempo dei fatti». Al che, il presidente britannico del tribunale, lord Geoffrey Lawrence, replicò quanto segue: il concetto di “conquista” attribuisce al vincitore di «dettare legge nel modo che ritiene opportuno».
Ecco, si erano detti all’Aja: noi faremo meglio. Niente leggi retroattive né su misura; niente “diritto del vincitore”; niente giudici che, come quelli sovietici a Norimberga, avevano fatto ancor peggio di quello per cui condannarono i nazisti; qui facciamo un vero processo, nel rispetto dei fondamenti del diritto.
Piccolo dettaglio: a Norimberga, la possibilità di assoluzioni fu esclusa per principio. Era impensabile che Keitel o Goering fossero restituiti liberi alle famiglie. Se ben ricordo, il solo assolto fu il banchiere centrale del Reich, Hjalmar Schacht: sarebbe stata grossa, impiccare come nazista il più famoso banchiere ebreo dell’epoca. Invece, un processo come si pretendeva all’Aja, con i crismi del diritto, non può escludere di concludersi con una sentenza assolutoria. E magari non perché l’imputato sia davvero innocente, ma solo perché si è difeso bene: il diritto non è «sostanziale» ma «formale», come si dice. Del resto, basta un dubbio, e la giustizia deve decidere a favore dell’imputato: meglio un colpevole fuori che un innocente in galera, dice il diritto.
Ma ve lo immaginate Milosevic, assolto e libero di tornare nella sua Serbia? Sarebbe stato rimesso sulla poltrona presidenziale, a furor di popolo. E che magari avrebbe fatto causa per i danni ai suoi accusatori per aver bombardato il suo Paese.
Questo non doveva essere. Non “poteva”. Così, qualche smagliatura è stata permessa sui “principii del diritto”, anche all’Aja. Piccole doppiezze, se si vuole.
Il fatto è che Milosevic si è voluto difendere da sé, ed è stato troppo bravo. Abile nell’usare tutti i trucchi, traccheggiamenti ed inghippi che - secondo i principi del diritto - un imputato può adottare a sua difesa: difatti un imputato ha il permesso di mentire, dopotutto il suo interesse è scampare dalla pena.
Qualche esempio fra i tanti, giusto per capirci. Il Tribunale dell’Aja è stato creato nel 1993 dall’Onu (risoluzione 827, art. 29): ma il Consiglio di Sicurezza ha creato la Corte come «organo ausiliario delle operazioni di mantenimento della pace», senza stilare un trattato internazionale che consentisse agli stati firmatari di trasferire una parte della loro giurisdizione al nuovo tribunale. Anzi, il Paese che più fortemente lo ha voluto - gli Stati Uniti - è quello che oggi non riconosce la giurisdizione dell’Aja, temendo che i suoi generali possano essere chiamati lì a rispondere di atrocità tipo Abu Ghraib e Guantanamo. Milosevic lo ha fatto notare: il tribunale non ha fondamenti di diritto per dirsi organo giudiziario.
Anzi, peggio. L’imputato scopre che il Tribunale dell’Aja, le cui spese (ben 200 milioni di dollari fino ad oggi) dovrebbero essere a carico dell’Onu, invece è finanziato in parte dalla Open Society Foundation, un centro privato del finanziere George Soros. Ora, che cosa diventa un tribunale pagato da privati? Un tribunale privato. Che fa giustizia privata: una contraddizione in termini. Ma la cosa è tanto vera, che George Soros risulta aver pagato anche varie Ong “umanitarie”, e proprio quelle che hanno raccolto le prove dei crimini supposti di Milosevic. Gli accusatori pagano i giudici. Non c’è qui un piccolo, piccolissimo conflitto d’interessi?
Finisce come doveva finire: nel settembre 2004, la Corte dell’Aja sottrae a Milosevic il diritto di difendersi da sé. Gli impongono di prendersi degli avvocati: sono gli avvocati, sanciscono i giudici, ad avere «il diritto di decidere che corso tenere» nella difesa. Il «corso» tenuto da Milosevic non piaceva. E gli danno due avvocati: britannici, che già hanno lavorato per la corte non come difensori d’ufficio, ma come periti e testimoni volontari (“Amicus curiae”, nel diritto britannico). Altro piccolo, piccolissimo conflitto giuridico: assistenti dei giudicanti che diventano difensori. Siccome Milosevic si rifiuta di parlare loro, i due, poveretti, provano a dare le dimissioni: e il tribunale vieta le dimissioni.
Il fatto è che Slobo, nel difendersi da sè, mostra una tendenza imbarazzante: chiamare in causa i capi di Stato occidentali che hanno sferrato la forza della Nato contro la Serbia. Insiste perché la Corte senta, come testimoni a suo discarico, Bill Clinton, Tony Blair, il plenipotenziario americano Hoolbroke che fu l’inviato speciale nei Balcani… Brutt’affare davvero.
Perché in un procedimento giudiziario, coi crismi della legalità, può accadere benissimo che un testimone divenga - se l’imputato lo chiama in correità e riesce a dimostrarlo - un imputato. Potete immaginare Clinton e Blair arrestati in aula, seduta stante, per deposizioni menzognere? No. Non può essere. Non deve.
Così, ecco altre piccole modifiche ai “principi fondamentali del diritto”. Milosevic riesce a far deporre Welsey Clark, il generale che ha guidato i 78 giorni di bombardamento sulla Serbia e il Kossovo. Ma gli Stati Uniti chiedono - e ottengono dalla corte - che la deposizione sia fatta a porte chiuse. E non solo: ottennero che ogni resoconto della deposizione di Clark fosse «ritardato di 48 ore, sì da dare il tempo al governo Usa di rivedere le trascrizioni e fare opposizione, nel caso che sia da proteggere l’interesse nazionale degli Stati Uniti». Testuale. Insomma: un paese ostile all’imputato, che per di più non riconosce l’autorità della Corte dell’Aja, ottiene di censurare le deposizioni di un testimone prima che diventino pubbliche.
Che la Casa Bianca abbia molto da proteggere, è un fatto. Quando la Yugoslavia cominciò a spaccarsi per la secessione di Slovenia e Croazia, gli Usa si chiesero: e ora, chi paga i debiti? Tito aveva ricevuto prestiti immensi per non andare nel campo sovietico. Ora, era l’intera Yugoslavia che pagava i ratei del mutuo. Ma chi paga, se la Yugoslavia scompare?
E così, la Casa Bianca si affidò al serbo Milosevic per «mantenere l’integrità del Paese», insomma del debitore. Da giornalista, ricordo bene gli inviati americani di allora: due alti membri del Dipartimento di Stato e del Consiglio di Sicurezza Nazionale, di nome Brent Scowcroft e Lawrence Eagleburger. Parlavano correntemente il serbo-croato. E di Milosevic non erano amici: erano compagnoni, anzi soci. Al punto che, insieme a lui, crearono una società per vendere in Usa la più piccola utilitaria prodotta dalla Zastava serba, la “Yugo”. Un business che finì come la politica di collusione: disastrosamente.
Perchè gli americani erano ben disposti: che Milosevic e la sua armata serba tenessero «unito il Paese» con la mano pesante, non era un problema. Un’azione dura e rapida, ecco tutto ciò che volevano.
Il guaio è che i generali serbi, come strateghi, sarebbero stati capaci di perdere un torneo di rubamazzetto. Si fecero sconfiggere dagli sloveni in un paio di settimane; dai croati, allora quasi disarmati, in due anni. Vollero cogliere di sorpresa Sarajevo, e finirono per assediarla per tre anni: il primo e ultimo assedio di una città nel ventesimo secolo. E Sarajevo resistette.
Onu e Stati Uniti fecero l’impossibile per dichiarare che quello che succedeva nei Balcani era «una faccenda interna» della Yugoslavia. L’errore fatale di Milosevic e dei suoi generali fu, a parte il massacro di civili bosniaci a Srebrenica, la faccenda del Kossovo: quando le armate serbe gettarono in Albania 700 mila kossovari. Ora, quando uno stato butta, come spazzatura, quasi un milione di suoi cittadini in uno stato vicino, non si può più dire che è una faccenda interna: è diventata, volere o no, internazionale. I media rumoreggiavano. Si dovette bombardare la Serbia: con l’occasione, si approfittò per buttare giù tutti i ponti dentro il Danubio, tanto per bloccare in modo permanente la via d’acqua che, a pace fatta, sarebbe servita alle esportazioni tedesche.
Poi, i tre anni di processo. Durante i quali l’accusa di genocidio, caldamente sostenuta da Carla Del Ponte, cade a carico di Radislav Brdjanin, un caporione della rivolta anti-croata della Krajna; e viene ridotta a carico di Radislav Krstic, un altro generale, che interpone appello. Perché già, nei veri procedimenti giudiziari c’è anche questa formalità, che Norimberga ignorò: l’appello. Insomma, il quadro accusatorio si sgretola. Peggio: ai primi di marzo, si toglie la vita un presunto complice di Milosevic, Milan Babic, che era stato condannato a 13 anni.
Ed ora, Milosevic non c’è più. Carla Del Ponte si trattiene a fatica dal dire che «si è sottratto alla giustizia». Le è dolorosamente chiaro che altre cause del genere non saranno affidate né a lei né alla Corte.
La conclusione giusta l’ha tratta Avril Mac Donald, un giurista internazionale britannico: «Milosevic», ha detto, «è morto innocente». Già, perché anche questa formalità è contemplata nei principi del diritto: che un imputato è innocente finchè non è dimostrato colpevole. A momenti, ce ne dimenticavamo.
[Data pubblicazione: 14/03/2006]