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Lunedì 20 novembre, ore 11:15: Umberto Bossi telefona a Giancarlo Giorgetti, il segretario uscente della Lega Lombarda, e gli ordina di annullare la manifestazione dei giovani padani contro la Finanziaria, organizzata a Milano per sabato 25 novembre. L'ex presidente della Commissione Bilancio della Camera rimane perplesso, ma poi obbedisce. L'ordine del capo è perentorio: "Dobbiamo concentrare le forze su Roma, per essere tutti il 2 dicembre al fianco di Berlusconi". Peccato che ormai fosse tutto pronto, con tanto di manifesti sparsi da giorni per la città. Questo episodio è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Nel Carroccio sono settimane che serpeggia un certo malumore per la linea troppo filo-Cavaliere del Senatùr, ma ora la protesta rischia di travolgere il movimento e di mettere per la prima volta in discussione la stessa leadership di Bossi. Un evento impensabile solo fino a pochi mesi fa. Per cercare di placare gli animi, la Lega ha deciso di accollarsi le spese della trasferta nella capitale almeno per i giovani padani. Senza però ottenere alcun successo. A Radio Padania arrivano molte telefonate da ogni angolo del Nord, dal Piemonte al Veneto passando per la Lombardia: la maggioranza dei leghisti contesta la decisione di scendere a Roma solo perché così vuole il leader di Forza Italia e accusa i vertici del Carroccio di essere troppo "molli". I numeri sono impietosi. Giusto per fare un esempio, la provincia del Ticino (che nel gergo padano vuol dire la circoscrizione a sud-ovest di Milano, una delle più grandi) conta migliaia di iscritti. Peccato che ci sia solamente un pullman organizzato per sabato prossimo, ovvero 75 persone.
Ascoltando la voce della base e degli storici militanti duri e puri, quelli che il 5 dicembre 1999 riempirono con circa 200mila persone proprio la capitale per chiedere il federalismo, lo scetticismo si spreca. "Non vogliamo essere schiavi del Cavaliere", raccontano da Varese. "Mai più in piazza con An e Forza Italia", replicano da Treviso. Insomma, il rischio è che sabato prossimo in Piazza San Giovanni le bandiere con il 'Sole delle Alpi' siano davvero poche. Una sparuta pattuglia di fedelissimi, 2-3 mila persone. Non di più. Cifre a parte, il nodo è tutto politico. Il malessere dei leghisti è iniziato con lo schiaffo ricevuto nei congressi provinciali di Varese e Bergamo, quando, proprio in due storiche culle del Carroccio, gli uomini indicati da Via Bellerio, quindi da Bossi, sono stati sonoramente bocciati.
Parlando con parlamentari e consiglieri leghisti, a microfono spento, dietro le quinte, si percepisce un senso di stanchezza, se non addirittura di vera e propria incomprensione per le ultime scelte del capo. C'è chi fa notare come all'iniziale apertura al Centrosinistra sul federalismo, colta subito dal ministro per le Riforme Chiti (intervistato da Affari), abbia fatto seguito una retromarcia di Bossi affidata alle colonne di Panorama. "E chi è l'editore di quel settimanale...?", spiega con un misto di ironia e disillusione un leghista d'annata. Il Senatùr poi ha messo a tacere le voci sulla possibile creazione della figura di vice-segretario. "Se ci sarà vuol dire io mi farò da parte", ha tagliato corto.
In realtà, quelle indiscrezione sarebbero circolate continuamente sui giornali perché suggerite da molti colonnelli leghisti, i quali, non volendo sfidare direttamente il Senatùr, hanno tentato di indebolirlo attraverso i media. La stessa decisione di Giorgetti (l'unico sul quale il Senatùr puntava veramente per la successione) di mollare la guida del movimento in Lombardia, oltre che da ragioni personali, potrebbe anche essere motivata da un certo dissenso con la linea filo-berlusconiana di Bossi. E come dimenticare le parole di Maroni di qualche settimana fa... "la Casa delle Libertà è morta". Veri e propri macigni. La pancia della Lega, e anche molti dirigenti, non ha mai digerito troppo l'alleanza con An e Forza Italia. Durante il governo di Centrodestra hanno accettato diversi bocconi amari (dal falso in bilancio alla legge Cirielli, tanto per fare qualche esempio), il tutto nella speranza della devolution.
Riforma che - fanno notare in Via Bellerio - pur essendo nel programma elettorale del 2001, è stata prima stoppata da Fini (con l'interesse nazionale) e poi rivista e riscritta all'interno di una più ampia modifica della seconda parte della Costituzione. Che, di fatto, ha trasformato la devoluzione in "un pastrocchio" e in "un blando compromesso al ribasso". Tanto per usare le parole dei leghisti al momento del via libera definitivo del Parlamento. Ma come se non bastasse, il referendum confermativo è finito in un bagno di sangue, con i 'no' che hanno superato il 60%. In molte regioni del Sud, i 'sì' alla riforma non hanno superato il 20% e molti leghisti, anche parlamentari, sono convinti che, nonostante le rassicurazioni della campagna elettorale, gli alleati non abbiano fatto praticamente nulla per tentare di vincere una sfida che era già difficile in partenza.
Insomma, rabbia, delusione e timore di essere stati traditi. Ed è per questo che ora, con la CdL all'opposizione e divisa al suo interno, molti padani sono stanchi di dire "sisignore". Dopo aver dovuto turarsi il naso e votare come presidente del Senato Giulio Andreotti, uno dei nemici storici del Carroccio. La misura è colma. Quando è troppo è troppo. La prima conseguenza di questa rivolta interna nella Lega sarà una scarsa partecipazione alla manifestazione del 2 dicembre a Roma. Ma non si escludono altri colpi di scena. Non a caso, sembra sempre più probabile che Bossi decida di rinviare il congresso federale, originariamente in programma per fine marzo - inizio aprile, proprio per evitare il rischio di plateali contestazioni sia da parte della base sia da parte di alcuni dirigenti. Ma ormai il mito del capo non esiste più. E quanto durerà l'Alberto da Giussano prima di cadere da cavallo?