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    Predefinito Ripensare Marx per abbandonarlo? Una riflessione

    Articolo interessante,e da discutere sulla questione di un presunto abbandono di Marx che ripropongo qui interamente.


    di Ennio Abate

    Può darsi che le proposizioni del marxismo non siano, e forse da cent’anni, più attendibili di quelle di tanti altri studiosi di economia e di sociologia; e che solo per complicati e repellenti equivoci presso due terzi del genere umano si sia continuato e si continui a credere, sulla fede di libri probabilmente non letti o non capiti, di poter dare o ricevere speranze, tormenti e morte, tuttavia levando il pugno e cantando l’Internazionale
    (F. Fortini, Lettere da lontano. A Enzo Forcella, L’Espresso 29 giugno 1986)


    Ho seguito, sia pur da isolato, per una sorta di fedeltà intellettuale alle figure scelte durante il mio tardivo apprendistato politico avvenuto in Avanguardia Operaia tra 1967 e 1976, molti dei discorsi, oggi completamente inattuali, sulla «crisi del marxismo» svoltisi dagli anni Ottanta in poi. Lessi i vari libri di Costanzo Preve (Il filo di Arianna, Il pianeta rosso, Il convitato di pietra), che mi parevano un argine alla liquidazione del pensiero di Marx. Mi affaticai per capire un mattone filosofico come «Marx oltre Marx» di Antonio Negri. Mi sono inoltrato con cautela pure tra le pagine di «Impero» e «Moltitudine» per annusare tracce di zolfo marxiano, sia pur mescolato a emanazioni foucaultiane e deleuziane. E più di recente, incappato un po’ casualmente nel sito «Ripensare Marx», ho seguito con assiduità soprattutto gli interventi di Gianfranco La Grassa, letto alcuni suoi libri e tentato in qualche occasione persino di interloquire con lui. Constatare che oggi anche lui, studioso serio e non per qualche stagione ma per una vita di Marx, giudichi necessario abbandonarlo («Due passi in Marx per uscirne» è il significativo titolo dell’ultimo libro che sta per pubblicare), mi ha posto di fronte a un aut aut. E sono arrivato alla decisione, testimoniata da questo mio scritto, di non seguirlo nel suo adieu a Marx(e al problema del comunismo) sulla nuova strada intrapresa col sito «Conflitti e Strategie», che ha sostituito il precedente «Ripensare Marx».

    Qui non intendo, come di solito dicono gli intellettuali, fare i conti con le tesi di La Grassa. Né contrapporgli un secco e tondo «Ripartiamo da Marx». Mi limito a chiarire la questione quasi solo a me stesso, riflettendo su uno scritto che fa una sintesi delle sue ultime posizioni. È intitolato «Il comunismo irrealizzabile. L’illusione del soggetto rivoluzionario».È apparso sul blog Ripensare Marx, curato da Agostino Santisi ma con l’approvazione di La Grassa. Altri risponderanno ai suoi meditati studi in modi – spero - altrettanto approfonditi e puntuali. Io non ho né il tempo né la preparazione necessaria per provarci. Da tempo mi sono attestato nella condizione che definisco dell’esodo Sinistra (terra terra mi si può definire anche con un vecchio termine: “cane sciolto”). E, pur condividendo moltissime delle critiche ad essa mosse da La Grassa, diffido però del suo «nuovo paradigma» prevalentemente geopolitico.
    Proseguirò, dunque, come posso il resto del mio viaggio, rimuginando ancora sparsi pensieri di Marx o – e lo dico senza complesso d’inferiorità e senza antintellettualismi comodi – la vulgata della sua opera che mi è pervenuta. In un impegno di fedeltà nient’affatto cieca all’ultimo dolente, ma fermo invito di Franco Fortini: «proteggere le nostre verità».
    Condivido (vedi anche citazione in exergo) ancora oggi quella sua posizione degli anni Ottanta(1):fossero tutti evidenti gli errori imputati a Marx(2),non trovo nelle attuali posizioni di La Grassa una cosa per me preziosa: il legame di quel pensiero con le esigenze di lotta dei dominati. In Marx (e in Lenin)(3) c’era. E, pur eroso o ridotto a «rovine», nei loro scritti lo colgo ancora. Nel nuovo paradigma proposto da La Grassa temo di no. O non riesco a coglierlo.

    Entrando nel merito dello scritto esaminato, che indicherò di seguito con la formula «di La Grassa/Santisi», mi pare che esso ripeta alcune cose che potevano essere dette decenni fa. Anzi che erano state in sostanza già dette da Eduard Bernstein (1850-1932). Era stata, infatti, la socialdemocrazia di allora a svalutare subito la rivoluzione russa, affermando quanto oggi qui si afferma: «Le stesse rivoluzioni sedicenti “proletarie” si sono affermate non in formazioni sociali ad alto livello di sviluppo delle forze produttive e di diffusione delle grandi imprese, bensì in quelle in cui la netta preminenza spettava a rapporti sociali di forma ancora precapitalistica».
    Tuttavia credo che sia sempre giusto misurarsi con la lettera del pensiero di Marx e correggere le distorsioni procurate per vari motivi da lettori-seguaci o seguaci-non lettori. Le ragioni di tali distorsioni andrebbero però valutate a fondo, spiegate e non demonizzate, perché hanno avuto comunque degli effetti su milioni di uomini e donne di vari paesi nell’Otto-Novecento. Lo scrupolo che La Grassa e altri hanno dedicato ai testi di Marx o al problema di cosa ha detto veramente Marx sarebbe necessario per capire quelle distorsioni, per capire cosa di profondo (e magari di valido) si è sedimentato tuttavia nella storia delle lotte socialiste e comuniste e che andrebbe ereditato.
    A me pare che, richiamandosi a una poco indagata «eterogenesi dei fini»,quella storia venga liquidata nella sua componente liberatoria o in prevalenza ridotta al risultato non previsto e - diciamolo chiaro - non voluto dai migliori chi vi parteciparono: la creazione di una grande potenza (l’Urss di Stalin) al posto della perseguita società socialista e/o comunista.
    Una grande potenza sedicente comunista non è la stessa cosa del comunismo inseguito da quelle lotte. Non è indifferente che io, entrando in un negozio per acquistare una cosa che non so descrivere con precisione, ne esca con un’altra che non corrisponda più alle mie intenzioni. Così non è indifferente che dei partiti e dei movimenti comunisti siano entrati nella storia per ottenere una cosa e ne siano usciti con un’altra, che non pare (e non solo a me) neppure un surrogato accettabile di quella per cui lottavano. Prendo atto che è un’altra cosa e che è ovviamente reale. Riconosco che quella cercata era definita con approssimazione. Ma quella reale non può essere presentata come accettabile comunque (non dico che lo faccia La Grassa/Santisi). Reale è, l’ammetto. Ma non la confondo con quella per cui si lottava. E non vedo perché la sua realtà debba far smettere la sua ricerca. Che si debba, insomma, svalutare o rinunciare a quella ricerca.
    Credo, perciò, che il fallimento del comunismo ci metta di fronte a un rompicapo. La Grassa/Santisi non l’affronta. Non lo sente come un dramma, come lo sento io, forse. Prende atto che la storia è andata così e passa oltre. Qui non sono d’accordo. Non credo si possa sorvolare. E non per idealismo o attaccamento a un mito. Quella realtà altra dal comunismo, essendo realtà di dominatori(sedicenti comunisti), io dominato non potrò mai accettarla. Accetterei allo stesso tempo di essere in essa nient’altro che un dominato o mi dovrei dimenticare di esserlo, negando la realtà della mia/nostra condizione.

    Certamente La Grassa dà un bel colpo alla vulgata di Marx da me ricevuta. Essa fu – l’ammetto - impregnata di operaismo (preciserei, per i pignoli, di un “operaismo leninista” rafforzato anche dall’incontro con Danilo Montaldi(4)).
    Ora mi viene detto che la classe operaia – in questo articolo definita “tute blu”e fatta coincidere in pieno con la concezione socialdemocratica kautskiana del «nascente movimento operaio» - non è stata mai rivoluzionaria e non lo può (più) essere. Non ha fatto che lottare da sempre (“giustamente” si concede) per migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro. E dunque io, che negli anni di militanza facevo intervento di fabbrica etc., ho sprecato il mio tempo, inseguendo un mio confuso e illusorio desiderio rivoluzionario. Empiricamente sarei tentato persino di dargli ragione. Un dubbio del genere rientra, infatti, nel mio vissuto. Ma la storia – ho imparato – non si riduce mai al vissuto (tanto meno al mio).
    Da Marx poi avremmo assorbito l’idea sbagliata che il comunismo maturasse (quasi da solo) nel modo di produzione capitalistico. Ne deriverebbe che la militanza politica non costruiva le condizioni (o almeno alcune condizioni) necessarie per la sua (del comunismo) manifestazione. Non facevamo che commentare, per così dire, un ipotetico suo manifestarsi. Che poi non c’era, non c’è stato e oggi – ci dice La Grassa/Santisi – non può esserci più, tanto che non vale neppure più la pena di pensarci. Il militante (più in generale il soggetto), che credeva di fare la rivoluzione, era in effetti un illuso, un “religioso”, un “nuovo prete”. Nei casi migliori, al massimo un osservatore partecipe di una realtà che andava da un’altra parte.
    Ma è andata proprio così? Mi chiedo se anche la classe operaia torinese che occupò le fabbriche nel biennio 1920-‘21 (o non era classe ma operavano anche allora generici operai, come si usa dire oggi?), volesse solo migliorare le sue condizioni di vita e lavoro. E se la maledetta/benedetta soggettività di quegli “agitati” agitatori rivoluzionari (magari in minoranza) sia stata talmente irrilevante nel processo di miglioramento delle stesse condizioni di vita e di lavoro degli operai. Sarebbero migliorate lo stesso? Non ci metto la mano sul fuoco.

    Liquidata (troppo in fretta a mio avviso) questa complicata storia o queste complicate storie del rapporto tra operai (non voglio dire, solo per precauzione, classe operaia) e rivoluzionari comunisti, si arriva, come hanno fatto in tanti in questi ultimi decenni, a mettere la pietra tombale sul problema comunismo; e a sfidare così i cosiddetti “irriducibili”: «Se qualcuno vuol ancora parlare di comunismo, deve dimostrare che sono valide le ipotesi marxiane relative alla dinamica del modo di produzione capitalistico».
    Non sono – ripeto - certamente io quel desso capace di portare prove inconfutabili contro le tesi di La Grassa/Santisi. Mi permetto però una obiezione non del tutto illogica, spero. Dato pure per morto il comunismo marxiano, non ne potrebbe nascere un altro? Non potrebbe cioè ripresentarsi nella storia umana in altre forme, diverse da quella pensata da Marx (o dal Marx interpretato da La Grassa/Santisi)?
    Accetto che l’idea marxiana di comunismo oggi non corrisponda più a nulla di visibile, tantomeno ad occhio nudo, per così dire, cioè senza teoria. Né in Italia né altrove. Ma una cosa è riconoscere che il comunismo (o quello che i nostri antenati chiamarono così) sia divenuto un’incognita non più verificabile scientificamente con gli strumenti dei nostri antenati (e tantomeno con quelli della scienza degli attuali dominatori). Altra vietarsi di parlarne o d’interrogarsi ancora su tale incognita. E sottolineo: sia religiosamente sia scientificamente. Poiché per me la richiesta di verificabilità è legittima e ha pari dignità rispetto alla spinta soggettiva (o volontà o, diciamo pure, fede) che spinge a scavare, a lavorare su quell’incognita in qualsiasi modo. Non stabilisco una gerarchia tra “scientifici” e “religiosi”, pur avendo presente e non confondendo i differenti modi di conoscenza.
    Un‘incognita (nel caso: la possibilità di un comunismo altro da quello pensato dallo stesso Marx) rimanda a qualcosa che può esserci o no. Ma perché cancellare dai nostri pensieri e discorsi tale incognita? Né si può chiedere agli indagatori di un’incognita di portare le prove come si fa con qualcosa di reale(o che passa per reale secondo certi collaudati e correnti e non disprezzabili strumenti d’indagine). Anche perché, a fine Novecento, per quel poco che ne so, lo stesso sapere scientifico ufficiale non è riducibile alla positivistica constatazione dei fatti o all’accumulo di dati. Sapere pienamente scientifico è anche formulare nuove ipotesi su nuove incognite. (E mi pare che su questo lo scritto in questione concorda, se vi si afferma: «Se qualcuno vorrà imbastire una discussione con noi, dovrà saper scendere sul terreno scientifico, un terreno aperto alle “realtà ipotetiche”, alla prova dei “fatti” (evidentemente non nel giro di “due balletti”»).
    Insomma, quel fenomeno storico complesso detto comunismo (o più tardi comunismi) non si esauriva interamente nelle formulazioni che Marx ne diede. La cosa o realtà non è mai riducibile alla sua interpretazione, anche la più lucida e geniale. Attorno al nucleo scientifico, che preme a La Grassa/Santisi, c’era/c’è un alone politico-religioso, che premeva/preme a quanti – detto in breve - in questo mondo stanno male e spesso malissimo e per questo tentano comunque di ribellarsi.

    Entrambi gli aspetti (nucleo scientifico e alone politico-religioso) a me – ripeto - non sono mai parsi del tutto separabili. Ecco un altro rompicapo che La Grassa/Santisi evita di approfondire o, pur riconoscendo ad entrambi la loro importanza(5), risolve con una drasticità sospetta. Punta, infatti, a «scindere i due ambiti di discussione», scelta che semplifica una complessità e mette in dubbio il raggiungimento dell’obiettivo dichiarato: «ridare carica interpretativa, e un domani d’azione, ad una teoria critica della società capitalistica».
    Non si tratta, infatti, soltanto «due ambiti di discussione». Questo è il bello (o il complicato). Non siamo, insomma, in una scuola o in una riunione di soli dotti o esperti. Siamo di fronte, e allo stesso tempo dentro, due pratiche collettive aperte a tutti gli sviluppi (positivi e negativi); e, per di più, vissute profondamente e spesso oscuramente nella vita di milioni di uomini e donne. È un errore, secondo me, ripudiarne una, staccandola con pervicacia e una certa superbia dall’altra. Si dovrebbe sempre tentare la quadratura del cerchio.
    Quando, ad esempio, si sostiene che Kautsky avrebbe travisato il “vero” Marx, facendolo diventare da scienziato (osservatore partecipe di un fenomeno che si faceva da sé o quasi) in profeta del comunismo, si dice qualcosa di vero. Ma il discorso resta unilaterale. Poiché si rimuove dall’orizzonte della propria ricerca il problema di quell’alone politico-religioso, che Kautsky interpretò secondo una logica socialdemocratica riformista e Lenin, invece, seppe interpretare secondo una logica rivoluzionaria.
    Si poteva non rispondere alle spinte dei molti operai che a quei tempi erano cresciuti di numero e che ai tempi di Marx non c’erano o erano meno numerosi? Sì, nacque il “marxismo” (magari anche contro il “vero Marx”) ma, da un punto di vista storico, la risposta di Kautsky fu rilevante. Come lo fu molto di più (per me) quella di Lenin. Sì, le tute blu non rientravano nel concetto ampio di classe operaia («dall’ingegnere all’ultimo manovale»)(6) pensato da Marx come sostiene La Grassa/Santisi. E con questo? Non era emerso un nuovo soggetto che – rivoluzionario o riformista - comunque non c’era prima e non lasciò dormire sonni tranquilli ai capitalisti (i padroni) di allora(7)?

    La quadratura del cerchio che per un momento riuscì a Lenin, forse dovrà essere ritentata. Altrimenti i discorsi assumono inevitabilmente una piega scolastica. La domanda di fondo mi pare sempre quella: una teoria ha da avere rapporti con la politica degli uomini concreti o no? Io risponderei: sì, prima o poi; e meglio ancora se la teoria nel suo farsi presupponesse l’intento politico a cui pervenire.
    Senza il nucleo scientifico l’alone politico-religioso si espande all’inverosimilie e si riduce a pura utopia (non a caso Ernst Bloch, influenzato da Marx, parlò invece di utopia concreta). Separata drasticamente dall’alone politico-religioso, la teoria resta inutilizzabile nella storia, resta la grigia teoria, da cui Lenin volentieri si staccò per ravvivarla (= renderla rivoluzionaria). A me pare che proprio la teoria(8) venga indebitamente, unilateralnete e scolasticamente (nel senso di ridurre la questione a «discussione» tra “esperti” e solo tra loro) privilegiata da La Grassa/Santisi. E tutto il suo serio e puntuale riesame storico-teorico appare fin troppo condizionato dalla polemica contro i “marxisti”. Non ha senso scontrarsi da scolastici con altri scolastici. Ci si distrae dai punti decisivi della ricerca, che invece di concentrasi su ciò che conta, invece di essere condotta generosamente e liberamente, rischia di rinchiudersi in aule (o oggi su siti, blog, etc.) forse non accademiche ma comunque settarie; e in un linguaggio comunque da “specialisti degli scritti di Marx”(9).

    E sorge allora spontanea e preoccupata una domanda: a che serve la teoria se è costretta a starsene in un suo mondo separato da quello delle apparenze in cui vivono e pensano gli altri? Ammesso che nelle nostre condizioni storiche «la scienza sociale non si costruisce sulla base delle motivazioni effettive, quelle della vita vissuta, che spingono all’azione gli individui nella loro concretezza empirica», quando si sarà gettata «la propria sonda nelle sue profondità per cogliere i reali movimenti ascendenti, quelli che configureranno e daranno infine forma alle correnti in superficie», che ce ne facciamo – dico noi, noi non scienziati - di quella conoscenza se rimane inefficace nelle pratiche umane?
    Si sostiene che chi ancora oggi parla di comunismo faccia “poesia”. Oh bella! Ma una scienza, se inefficace nelle pratiche sociali, non è anch’essa ridotta a “poesia”? L’ironia verso i poeti o i preti travestiti da rivoluzionari vale anche per gli scienziati costretti anch’essi a rimanere puri e quasi vergini (politicamente). A chi con troppa sicumera polemica afferma: «Se però qualcuno si riferisce ancora alla futura società che dovrebbe sostituire l’attuale, non deve fermarsi a predicare il comunismo come i preti predicano la salvezza eterna dell’anima, ma dirmi quali tendenze (oggettive), in direzione della nuova società, egli crede di vedere in atto nel corpo stesso della società nella sua attuale fase storica. Così fece Marx, e con indubbio realismo» si potrebbe rispondere: Ma tu/voi sapete dirmi cosa distingue la vostra nuova dottrina dalla semplice accettazione dell’esistente, della realtà dei dominatori?

    La Grassa/Santisi sostiene, infatti, che la sua scelta (spostare il paradigma dalla teoria della proprietà dei mezzi produttivi al conflitto di strategie per la supremazia) sia un «andare avanti». Non ne sono convinto. Ho pure io «il sentore che stiamo entrando in una nuova epoca, che tutto l’armamentario precedente è inadeguato», ecc. E che sia legittimo «formulare ipotesi guida per analisi parziali, di fase». Eppure la lotta per la supremazia, che a me pare nicciana o sotto sotto neodarwiniana, è una vecchia teoria e non un passo avanti. Passi avanti non mi pare che ne facciano i dominati, come avvenne con Marx e Lenin, perché ora si sostiene (se ho ben capito) che essi sono tagliati fuori dallo scontro che conta e che è esclusivo appannaggio dei dominatori.
    I dominati – era un’obiezione che avevo fatto a La Grassa e sulla quale non credo di aver avuto risposta - o devono continuare ad aspettare Godot(l’acutizzarsi delle crisi nel multipolarismo) o vedono le loro lotte condannate in partenza al fallimento.
    Da qui una svalutazione totale dei movimenti. Ad essi non si riconosce un briciolo di autonomia. Anzi sembra che non facciano che infastidire il proprio dominatore nazionale(in Iran ad es.), non lasciandolo competere al massimo delle sue forze nella gara-guerra con gli altri dominatori.
    Siamo, credo, al capovolgimento del leniniano «guerra alla guerra»: i dominati dovrebbero starsene buoni e non tentare di volgere il fucile (o almeno opporsi come possono) contro il proprio dominatore nazionale. Tanto l’internazionalismo proletario si è dimostrato una chimera. Ora io assieme a tanti sto tra i dominati. Non intendo chiudere gli occhi sullo scontro tra le potenze dominanti. Non sono neppure così velleitario da pensare che oggi i dominati possano sfidare apertamente i dominatori o tutti insieme i dominatori tra sé litiganti. Ma non riesco ad adattarmi al ruolo di tifoso per l’uno o per l’altro dei dominatori, specialmente se non ho alcuna certezza che l’ipotesi del «conflitto multipolare»(più potenze nazionali dominanti e litiganti tra loro) apra più spazi favorevoli alle lotte dei dominati.
    Tifare è sempre operazione parziale e spesso umiliante. (Ricordare, tra l’altro, il finale di Dagli atri muscosi dai fori cadenti di Manzoni). Meglio non dimenticare un solo momento che si è dominati e che la strategia da costruire deve sempre tenerlo presente.

    Si vider le lance calate sui petti,
    A canto agli scudi, rasente agli elmetti,
    Udiron le frecce fischiando volar.
    E il premio sperato, promesso a quei forti,
    Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,
    D’un volgo straniero por fine al dolor?
    Tornate alle vostre superbe ruine,
    All’opere imbelli dell’arse officine,
    Ai solchi bagnati di servo sudor.
    Il forte si mesce col vinto nemico,
    Col novo signore rimane l’antico;
    L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
    Dividono i servi, dividon gli armenti;
    Si posano insieme sui campi cruenti
    D’un volgo disperso che nome non ha.


    Note:

    1. Purtroppo non sono riuscito a rintracciare un intervento di Fortini, ben più articolato della citazione qui riportata. Era proprio sulla «crisi del marxismo» e ricordo di averlo letto sul «Corriere della sera».
    2 Ma ci sono o no questi errori in Marx? Nello scritto di La Grassa/Santisi a volte si virgoletta la parola “errore”, precisando giustamente che Marx, vissuto nell’Ottocento, non parla come uno di noi che viviamo a Novecento concluso e non poteva vedere le cose che noi vediamo. Altre volte, all’inizio, si parla di «previsioni teoriche errate di Marx»: «Questo è stato il più grave “errore” di Marx, una previsione che sia chiaro può essere rilevata “con il senno di poi”. Affermare che Marx ha sbagliato previsioni nell’immaginare il formarsi, per dinamiche oggettive, del soggetto rivoluzionario in grado di realizzare il «comunismo in quanto movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», non vuol dire parlare di svarioni commessi da Marx nell’epoca in cui egli formulò la sua geniale teoria, bensì di previsioni che la storia ha dimostrato errate; spettava ai suoi successori capirlo e attuare le opportune modifiche, che ormai debbono essere del tutto radicali».
    3 Lo stesso ragionamento mi pare di poterlo ripetere per Lenin. A lui viene attribuito un limite di comprensione di certi aspetti.teorici, ma subito dopo – contraddittoriamente a mio parere- si aggiunge:«Certamente Lenin – e non poteva non essere che così in quella fase storica – non arrivò a capire fino in fondo la non rivoluzionarietà della “classe operaia”».
    4 Cfr. Danilo Montaldi riletto nel 2006. Elogio di un compagno periferico ([POLISCRITTURE])
    5 «Scindere i due ambiti di discussione – e non certo perché l’altro venga svalutato in alcun modo, solo ricollocato in una diversa problematica che assilla da millenni gli uomini (figuriamoci se non è importante!) – è indispensabile per ridare carica interpretativa, e un domani d’azione, ad una teoria critica della società capitalistica che riprenda la via intrapresa da Marx e abbandonata ormai da svariati decenni. Non è possibile ripercorrere – se non scrivendo un’opera in mille tomi – tutte le elucubrazioni sviluppate da certi pensatori pseudomarxisti al fine di cancellare dall’opera marxiana ogni vestigia del suo atteggiamento scientifico. I loro autori forse non se ne rendono conto, ma stanno imbrogliando le carte e svolgendo una funzione eminentemente negativa e di freno.».E più oltre: «Per quanto mi riguarda, sono convinto che si tratti di problemi spesso più rilevanti – per la vita degli individui reali, concreti, non per l’Umanità! – di quelli del modo di produzione o dell’attuale fase storica attraversata dal capitalismo (capitalismi). Non si confondano però i due livelli di discussione; “a ciascuno il suo”». Oppure: «Le incoerenti mescolanze di problematiche diverse sono irritanti e fanno sorgere talvolta il sospetto di una consapevole volontà volta ad impedire la rinascita di una teoria scientifica (critica) dell’attuale formazione sociale».
    6 Che una situazione nuova si fosse creata e che Kautsky a suo modo ad essa rispondeva viene però ammesso: «La concentrazione e centralizzazione dei capitali appariva in stretta correlazione con il continuo ed esponenziale aumento delle dimensioni delle fabbriche, il vero fulcro delle unità produttive in concorrenza fra loro. Marx non avrebbe mai potuto concepire a quell’epoca il passaggio dalla “fabbrica” alla “impresa” così come si è andata configurando successivamente».
    7 Tra parentesi: parlare di Kautsky come “Papa rosso”(Lenin si limitò a chiamarlo “rinnegato”) rivela comunque un civettare con un linguaggio parareligioso in contrasto con quello programmaticamente scientifico a cui ci si vorrebbe rigorosamente attenere. Segno, a mio parere, che non si sono risolti ( né si possono risolvere facilmente) i conti con l’alone politico-religioso di cui dicevo.
    8 «Per conoscere il movimento reale, bisogna prescindere dal “verde albero della vita” degli individui concreti; ci si deve “astrarre”, cioè ci si deve immergere nella “grigia teoria”, in cui quelli che indichiamo, forse per i limiti del linguaggio, come individui diventano soltanto maschere di rapporti sociali»
    9 Anche il ricorso a concetti e termini come ‘ ortodossia’ («Lenin mantenne un’apparente ortodossia») chiude per me la ricerca in un ambito “pseudochiesastico”, come se il pensiero dovesse continuamente rintuzzare attacchi provenienti da ex-credenti diventati nemici.
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    Predefinito Rif: Ripensare Marx per abbandonarlo? Una riflessione

    Potrebbe benissimo essere uno di noi ad averlo scritto, no?

 

 

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