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  1. #21
    roberto m
    Ospite

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    la rappresentanza di un aterantiva alla repubblica esiste sempre, ora e fra 50 anni, la monarchia non ha fretta, le mode e le opinioni della gente cambiano: nel XX secolo Spagna, Grecia e Cambogia sono passati dalla monarchia alla repubblica poi di nuovo alla monarchia, mentre la Bulgaria non ha trovato di meglio che affidare il proprio governo al suo ex Re, noi monarchici dobbiamo sempre essere pronti al cambiamento di situazione con un candidato degno

  2. #22
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    Da www.realcasadisavoia.org

    PANORAMA - ED. 07.12.2006
    Pp. 231-232
    INEDITI 1 - LA SUCCESSIONE IN CASA SAVOIA E FU COSÌ CHE RE UMBERTO PRIVÒ VITTORIO DEL TRONO
    Tre lettere pubblicate per la prima volta in un libro di storia gettano nuova luce sulla destituzione del figlio. Fra polemiche accese, articoli di cronaca rosa e un matrimonio scomodo.
    di ALDO ALESSANDRO MOLA
    Il 4 dicembre lo storico Aldo A. Mola pubblica il volume Declino e crollo della monarchia in Italia (Mondadori) che contiene interessanti retroscena e documenti inediti riguardanti le polemiche sulla successione in casa Savoia. A lui Panorama ha chiesto questo intervento.
    Per decenni si è trascinata la disputa sul vero successore di Umberto II, ultimo Savoia re d’Italia. Ora abbiamo la risposta: il principe ereditario non è suo figlio, Vittorio Emanuele, ma il nipote, Amedeo di Savoia duca d’Aosta. Tre documenti sinora inediti chiudono la discussione. Li pubblico in un volume sul discusso referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946: Declino e crollo della monarchia in Italia (Mondadori, in libreria dal 4 dicembre).
    Siamo dinanzi a tre lettere, due firmate da Umberto II e controfirmate dal figlio, la terza di Vittorio Emanuele. Esse ci dicono che il re conferì ad Amedeo, anziché al figlio, il rango di capo della Casa di Savoia. Perchè?
    Nel 1970, quando prese moglie, Vittorio Emanuele di Savoia uscì di Casa sbattendo la porta.
    Fece quello che riteneva giusto per se stesso, ma da quel momento cessò di essere principe ereditario, per sé e i discendenti. Sin dal 25 gennaio 1960, dieci anni prima, Umberto II gli aveva richiamato «la legge della nostra Casa, vigente da ben 29 generazioni e rispettata dai 43 Capi Famiglia, miei predecessori, succedutisi secondo la legge Salica attraverso matrimoni contratti con famiglie di Sovrani ».
    Che cosa dice quella legge? In primo luogo, come in altre dinastie, in Casa Savoia il trono passa di maschio in maschio. In assenza di eredi maschi diretti, la Corona va al parente prossimo.
    Avvenne nel 1831 quando a Carlo Felice seguì Carlo Alberto, principe di Carignano, congiunto di tredicesimo grado. Inoltre, le regie patenti emanate da Vittorio Amedeo III nel 1780 e nel 1782, mai modificate, ordinano che i principi reali, cioè i figli del sovrano regnante, e i principi del sangue, cioè appartenenti alla famiglia del re, devono chiedere al capo della Casa l’assenso preventivo alle nozze.
    Nel 1960, quando richiamò il figlio ai doveri verso la Casa e la Corona, Umberto II era esule da 14 anni. Aveva lasciato l’Italia il 13 giugno 1946, quando non era ancora chiaro il risultato vero del referendum del 2-3 giugno 1946 sulla scelta tra monarchia e repubblica. Alle 0.15 di quel giorno il governo conferì i poteri sovrani al presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi.
    L’Italia si trovò con due capi di Stato: il re e il presidente provvisorio di una repubblica non ancora proclamata. Incombeva il rischio della guerra civile. Per evitare spargimento di sangue Umberto II lasciò la patria, sicuro di rientrarvi presto. Invece la Costituzione impose l’esilio a lui e ai suoi discendenti maschi.
    Esule, Umberto II si comportò sempre da re. Perciò, come si vede in uno dei documenti da me pubblicati, chiese al figlio di attenersi alle regole secolari della Casa. Il 25 gennaio 1960 gli scrisse: «Tale legge (sul matrimonio), io, quarantaquattresimo Capo Famiglia, non intendo e non ho diritto di mutare, nonostante l’affetto per te. Ma se anche mancassi al mio dovere, sarebbe vano, perché nessuno potrebbe riconoscere valido il mio operato».
    Nel 1947 la regina Maria José lasciò Umberto II a Cascais con le tre figlie, Maria Pia, Maria Gabriella e Maria Beatrice, e condusse in Svizzera Vittorio Emanuele. Nato a Napoli nel 1937, il principino vi crebbe un po’ spaesato. Dal 1959 si mormorò che volesse sposare Dominique Claudel, nipote del celebre poeta. Fu allora che Umberto II gli scrisse: «Il tuo matrimonio porterebbe come conseguenza la tua decadenza da qualsiasi diritto di successione come capo di Casa Savoia e di pretensione al trono d’Italia, perdendo i tuoi titoli e il tuo rango e riducendoti alla situazione di privato cittadino. Perciò tutti i diritti passerebbero immediatamente a mio nipote Amedeo, Duca d’Aosta».
    Era una decisione “irrevocabile”. Umberto II sapeva che chi viola una norma in vigore da secoli poi lo fa con altre e quindi non è degno di rappresentare la monarchia, che è una forma di stato fondato sull’onore. Vittorio Emanuele firmò la lettera paterna “per presa conoscenza”. Mesi dopo ringraziò il padre di avergli esposto «tanto pazientemente e diligentemente» la situazione in cui si sarebbe trovato «tanto sotto l’aspetto morale, quanto sotto l’aspetto strettamente dinastico», se avesse violato le regole della Casa. Dopodichè fece di testa propria.
    Si susseguirono anni complicati. A metà luglio del 1963 il principe annunciò a un settimanale italiano che entro l’anno avrebbe «definito il suo rapporto» con Marina Doria Ricolfi: «O romperemo tutto o ci sposeremo». «La decisione ultima» aggiunse, «dipenderà solo da me stesso». Allarmato, Umberto II gli ricordò allora «parola per parola» quanto gli aveva scritto nel 1960.
    Indifferente ai richiami paterni, l’11 gennaio 1970 Vittorio Emanuele sposò Marina a Las Vegas, nel Nevada: un «matrimonio civile, di cui non informai nessuno, neanche i miei genitori»
    scrisse poi in Lampi di vita (Rizzoli). Il 7 ottobre 1971 seguirono le nozze religiose nella cappella dell’Istituto salesiano di Teheran, in Iran. Il re nulla seppe e nulla approvò, né allora né mai.
    A quel punto, senza bisogno di proclami clamorosi, il rango di principe ereditario e capo della Casa passò automaticamente al duca d’Aosta, Amedeo di Savoia, padre di Aimone, duca delle Puglie. La dinastia fu salva e, con essa, la monarchia, quale patrimonio storico e principio ideale.
    Per Umberto II fu una decisione dolorosa ma necessaria: un sovrano non decide per la felicità propria, bensì per la continuità della Casa, riconosciuta da tutte le dinastie e titolare di diritti nei confronti dello stato e del proprio paese.
    Queste lettere, tratte dalle carte di Amedeo di Savoia duca d’Aosta, mettono un punto fermo a lunghe dispute. Perché compaiono ora? Solo per fare chiarezza. In tempi recenti, lo volesse o meno,Vittorio Emanuele ha recato qualche problema all’immagine dei Savoia. Basti ricordare quando sferrò un pugno sul volto del cugino durante una “cena di famiglia”, in casa di Juan Carlos di Borbone,re di Spagna. Molto altro è poi accaduto. Parecchie amministrazioni pubbliche italiane investono somme ingenti per proporre Casa Savoia quale protagonista di una grande storia meritevole di rispetto.
    Nuovi documenti provano che Vittorio Emanuele III non fu affatto il responsabile dell’avvento del fascismo, che Umberto II sarebbe stato un ottimo re costituzionale e che nel referendum del 2 giugno 1946 la monarchia perse ma la repubblica non vinse. Insomma, il ruolo svolto da Casa Savoia nella storia d’Italia e d’Europa appare in una luce nuova e più positiva rispetto al passato. Perciò era ed è necessario distinguere tra fatti di cronaca, che coinvolgono alcuni “privati cittadini”, e i veri eredi di Umberto II. Nel 1960 il re fu chiarissimo: suo figlio non poteva contrastare «con quanto è sempre stato fatto nella nostra famiglia». Altrimenti rango e diritti-doveri sarebbero passati al nipote Amedeo duca d’Aosta, come infatti accadde.

  3. #23
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    Davo ammettere di essere un po' deluso per come è stata accolta dal mondo monarchico la notizia di questi documenti. Mi direte che non c'è nulla di nuovo e che, anche senza le lettere firmate dal Re e controfirmate da VE, si sapeva benissimo che il pretendente al trono è il Principe Amedeo.... Ma cavoli! I vittoriani si comportano quasi con decenza!
    Ora comunque tutti i nodi (sabaudi!) sono venuti al pettine. Ci sarà l'ultima definitiva divisione fra monarchici seguaci della Monarchia e della volontà di Re Umberto da una parte e di coloro che per vari motivi (che posso comprendere) si riconosceranno nel figlio che Re Umberto ha coscientemente "detronizzato".
    Il mio sogno sarebbe che VE si ritirasse a vita privata e riconoscesse come legittimo successore di Re Umberto il cugino Amedeo. Sarebbe il modo più dignitoso di uscire di scena (prima che ci pensi qualche magistrato a farlo!) e Ve si guadagnerebbe la riconoscenza dei monarchici, se non altro per avere fatto un gesto davvero monarchico! Mi rendo conto di essere un sognatore però...
    Dobbiamo comunque ringraziare per l'ennesima volta Re Umberto che, per fugare ogni dubbio, ha messo la firma sui quello che la Dinastia sancisce.
    Spero che ora non ci siano più impicci per cominciare a ricostruire sulle macerie che questi vent'anni di errori (certamente involontari) hanno comunque prodotto.
    W il Re!

  4. #24
    roberto m
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    comunque qui sul forum NFM non hanno reagito perchè non possono scriverci se no avresti sentito gli strilli offesi dei vari componenti dell'altro forum "niente QD per carità!" solo santi e Reza Pahlavi

  5. #25
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    Sarebbe molto bello Leuthold se VE lasciasse spontamente un ruolo che non gli appartiene, ma credo che in questo caso lo si possa bene assimilare a "quei padri fondatori della repubblica" che da sessant'anni sono alla guida del nostro paese e non se vanno neanche a colpi di cannone: uno sgabello [per VE un trono!!] con i privilegi che ne derivano è difficile da abbandonare ! quello che mi lascia ancora perplesso è che i tanti che si dichiarano fedeli e rispettosi delle volontà di SM il RE Umberto II ancora non abbiano commentato o preso posizione sulle sue lettere pubblicate il 30 novembre sul sito della REAL CASA di Savoia. Ha realmente così poca importanza il pensiero dell'ultimo Re d'Italia? O si cerca solo di evitare l'evidenza? ?

  6. #26
    roberto m
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    VE in questi ultimi tempi e nei suoi interventi pubblici e televisivi ha mostrato una totale abulia, Mercutio, lui è solo una marionetta nelle mani dell'avidissima e venalissima moglie che da 45 anni sta distruggendo come un cancro il ramo principale dei Savoia Carignano, per fortuna non è riuscita a distruggere quello Aosta, spero che questa innominata signora che ormai ha superato la settantina da un pezzo, si convinca a lasciare la presa e a lasciare vivere tranquilli i monarchici: penso che se VE avesse trovato un'altra moglie forse non sarebbe caduto cosi' in basso

  7. #27
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    Un altra moglie certo ma anche un'educazione vecchia maniera più consona all'erede di una millenaria dinastia (non mi si racconti che era in Svizzera per problemi di salute non ci credo).
    Se uno vuole e deve fare il Re è bene che sia fin da bambino allevato per ricoprire questo ruolo: è dura ma deve essere così. Però per Victor a suo tempo si è deciso diversamente. con un'educazione libera e moderna che ha portato ai frutti che tutti noi conosciamo

  8. #28
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    Io, comunque, non vedo la Ricolfi coma la causa di tutti i mali. Ricordiamoci che è solo grazie al matrimonio con lei che la Famiglia Reale ha alienato un personaggio torbido e poco raccomandabile come VE.
    La decadenza dei Savoia-Ginevra® (marchio registrato) è generale e l'origine va cercata all'interno dell'ambiente nel quale sono cresciuti, lontanissimi in tutto e per tutto da Re Umberto.

  9. #29
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    Continuo a non spiegarmi il loro silenzio. I Savoia-Ginevra®, negli anni, hanno sviluppato la cultura della querela. Sistematicamente chiunque abbia osato muovere loro delle critiche è stato contattato dai loro legali rapopresentanti per un ammonimento e una minaccia di querela, anche quando l'oggetto del contendere erano le stesse frasi pronunciate dagli esponenti S-G®....
    Come mai non è ancora saltato fuori il cortigiano di turno a dire che quelle lettere sono false?
    Come mai la loro portavoce, così solerte nel farsi sentire a sproposito, ancora tace?
    Perché questo cambiamento su una questione fondamentale?
    Mola da dove le ha tirate fuori queste lettere? Devo pensare che il custode di questi importantissimi documenti faccia davvero paura, altrimenti non mi spiego questo loro insolito agire.
    Forse è soltanto una questione talmente importante che anche loro sono rimasti a corto di fantasia per cercare di uscirne...

  10. #30
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    Declino e crollo della monarchia in Italia. I Savoia dall’unità al referendum del 2 giugno 1946. Di Aldo A. Mola, © 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, Mondadori 2006.





    EPILOGO
    pp. 307-8

    Nell’estate del 2006 Vittorio Emanuele di Savoia è balzato al
    centro dell’attenzione. Tratto in arresto presso Lecco per accuse
    avvilenti (16 giugno), detenuto a Potenza, assegnato agli arresti
    domiciliari, rilasciato con il vincolo di rimanere in Italia
    perché indagato, due mesi dopo venne sommerso dallo sdegno
    per alcune frasi dette (o attribuitegli) mentre era detenuto. Da
    articoli, lettere e domande a emittenti radio-televisive anche
    straniere emerse che per i più Vittorio Emanuele era “il re”.
    Molti conclusero che lo scandalo era troppo grave e che la monarchia
    era morta. Di registrazione ambientale.
    L’indignazione dilagò, perché tra fine maggio e inizio giugno i
    media avevano dato molto rilievo all’affollato raduno
    dell’ordine cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro nella basilica
    romana di San Paolo fuori le Mura: uno spazio che appartiene
    alla Santa Sede, ma molti pensarono, ingenuamente,
    che l’incontro fosse approvato dalla repubblica. Nient’affatto.
    Per l’Italia quell’ordine non esisteva dal 1° gennaio 1948 e non
    esiste. La XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione
    è perentoria: “L’Ordine mauriziano (cioè dei santi Maurizio
    e Lazzaro) è conservato come ente ospedaliero e funziona
    nei modi stabiliti dalla legge”. Il tempo dirà che valore esso
    abbia o avrà per la Santa Sede.
    Chi più aveva creduto, più si sentì deluso.
    La monarchia però non risultò annientata dalle dichiarazioni
    sui propri impulsi rese da Vittorio Emanuele di Savoia ai magistrati
    di Potenza né da quanto seguì. Dal 18 marzo 1983 la
    successione alla Corona aveva un altro titolare: Amedeo di Savoia.



    pp. 310-14

    Umberto II elencò al figlio le conseguenze patrimoniali della
    sua esclusione dalla successione dinastica: cadeva il privilegio
    riservatogli per testamento quale principe ereditario, non avrebbe
    ricevuto i lasciti di “persone” a suo favore e l’assegno
    mensile (sino al quel momento doppio rispetto a quello conferito
    alle sorelle) sarebbe stato ridotto. Non avrebbe ricevuto alcuno
    dei diritti spettanti o rivendicati dal padre quale Capo della
    Casa. Il re tenne però a ricordargli soprattutto che “ogni considerazione
    di carattere materiale deve essere secondaria a
    quelle di carattere morale”. Umberto riecheggiò il grido di David
    al figlio dalle lunghe chiome: “Assalonne, Assalonne...”.
    Vittorio Emanuele covava la ribellione verso il padre, la Casa,
    la monarchia? Era consapevole di quanto alta fosse la sfida?
    Il re gli fece consegnare la lettera da persone di sua assoluta fiducia
    e ne informò chi poteva influire sulle decisioni del figlio.
    Vittorio sottoscrisse “per presa conoscenza” (sic). Però non
    ebbe fretta di rispondere. Meditò solingo? Si consultò? Con
    chi? Tre mesi dopo, il 15 aprile 1960, scrisse al padre da Cascais.
    Lo ringraziò dello “scrupolo” posto nell’esporgli “tanto
    pazientemente e diligentemente” la situazione nella quale si sarebbe
    trovato se avesse sposato una donna, “qualunque essa
    fosse – non di sangue reale”. Promise di “riflettere, meditare,
    decidere”. Declinò le proposte di viaggi offertegli: preferiva
    imboccare subito la via del broker.
    Nel 1959 Roger Garaudy pubblicò
    Perspectives de l’homme,

    Ernesto “Che” Guevara scrisse la
    Guerra de guerrillas (“guerra
    per bande” avrebbe tradotto Giuseppe Mazzini) e Giovanni
    XXIII annunciò la convocazione del concilio ecumenico Vaticano
    II. Era l’anno del
    Gattopardo di Giuseppe Tomasi di
    Lampedusa (1896-1957), del
    Tamburo di latta di Gunter Grass
    e del film
    Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Subito
    dopo vennero
    La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi
    fratelli
    di Luchino Visconti. Come doveva condursi un ventenne
    quando il rock era norma? Insomma, Vittorio Emanuele faceva
    bene? Faceva male? Poteva seguire i propri impulsi o doveva
    uniformarsi a norme secolari? Doveva sottostare alla “ragion
    di Stato” quando non esisteva più la forma di Stato che
    aveva dato vita a quelle regole?
    In
    Lampi di vita, “storia di un principe in esilio” scritta a quattro
    mani con il giornalista Alessandro Ferodi, nel 2002 Vittorio
    Emanuele di Savoia ha evocato alcuni momenti dell’itinerario
    coronato dalle nozze con Marina Ricolfi Doria. A quei “ricordi”
    non sempre corrispondono fatti accertati. Da un canto,
    l’autore si proclama “erede al trono”; dall’altro afferma di essere
    il primo ad accettare la repubblica: “Oggi come oggi” aggiunge
    “non vedo l’utilità di riportare in Italia una corona…
    Sappiamo tutti che l’Italia non può tornare a essere una monarchia…
    Ormai la monarchia in Italia non ha più ragion
    d’essere”. Una liquidazione totale, questa, che comportava
    l’inutilità di un “partito monarchico” e, per coerenza, doveva
    completarsi con abolizione e scioglimento degli ordini dinastici:
    Santissima Annunziata, Santi Maurizio e Lazzaro… Taluni
    giudizi espressi in quelle pagine paiono improntati da modesta
    cognizione e persino disprezzo delle norme che regolavano e
    reggono la Casa di Savoia.
    Ma quali erano e sono tali regole? A differenza di quanto viene
    solitamente detto, la “legge della Casa”, accoratamente richiamata
    da Umberto II, non interdice matrimoni fra “dispari”, vale
    a dire fra principi e persone di altro lignaggio, borghesi inclusi.
    Le regie patenti emanate da Vittorio Amedeo III il 13
    settembre 1780 sono chiarissime: “Non sarà lecito a Principi
    del Sangue contrarre matrimonio senza prima ottenere il permesso
    Nostro o dei reali nostri successori…”. Esse furono ribadite
    il 17 luglio 1782: i membri della Casa non possono contrarre
    matrimonio “senza la permissione nostra o dei reali successori…”.
    Ovvio. La norma risponde a necessità politiche: le

    nozze dei principi suggellavano o almeno prospettavano alleanze,
    senza escludere conflitti futuri. Solo il Capo della Casa –
    non solo quella di Savoia: valeva per tutte -, conoscendo a
    fondo tutti i segreti della politica estera e militare, era in grado
    di stabilire di volta in volta ciò che giovava allo Stato. Era impensabile,
    per esempio, che venisse contratto matrimonio con
    il membro di una famiglia che era o di lì a poco poteva divenire
    nemica, a meno che le nozze servissero da coperture per
    strategie occulte.
    Tale principio, ricorda il costituzionalista Franco Edoardo Adami,
    fu recepito dal codice civile del Regno d’Italia, che riservò
    al “capo famiglia” il benestare alle nozze dei figli e subordinò
    il matrimonio di speciali categorie (ambasciatori, ufficiali
    d’arma…) al consenso di autorità preposte, chiamate a
    decidere nell’interesse dello Stato.
    Quel 25 gennaio 1960 Umberto II parlò dunque chiaro. La Casa
    comprendeva principi reali, cioè discendenti del re e del
    principe ereditario, e principi del sangue, cioè appartenenti alla
    famiglia per rami collaterali. Così era stato nei secoli, Nessuno
    poteva modificare tali norme perché “nei paesi liberi nessuno
    può stare sopra o fuori della legge”, come affermò la relazione
    sul codice civile del Regno d’Italia del 1865.
    Con data 18 luglio 1963 il settimanale “Oggi” pubblicò
    un’intervista a Vittorio Emanuele. Toccò i temi delicati, di famiglia
    e politici. Umberto II sapeva per esperienza che il pensiero
    dell’intervistato viene spesso travisato. Amareggiato perché
    il figlio non aveva sentito il bisogno di parlargli, di scrivergli
    di “questioni che riguardavano direttamente lui” anziché
    spiattellare a un periodico, come padre e anzitutto come sovrano
    e Capo della Casa di Savoia gli chiese di precisargli se condividesse
    o no ciò che gli veniva attribuito. E non era poco.
    Affiancato da Marina, la maggiore e “la più graziosa” delle sorelle
    Ricolfi Doria a giudizio dell’intervistatore, il principe disse
    che il partito monarchico italiano “avrebbe dovuto sciogliersi
    subito dopo il referendum e la partenza di suo padre per il
    Portogallo. I principali fautori del regno erano scomparsi, non
    erano più in Italia… i voti erano persi e oggi lo sono ancora di
    più”. I monarchici erano serviti o, quanto meno, avvertiti. Aggiunse
    che bisognava “guardare in faccia la realtà”: era “praticamente
    impossibile” che in Italia avvenisse una restaurazione
    monarchica. Tanto valeva...*
    Il principe disse anche che, entro pochi mesi, avrebbe sposato
    Marina Doria senza perdere affatto i diritti alla successione. La
    “decisione ultima” sarebbe dipesa solo da lui. A suo avviso, infine,
    era falso che Umberto II avesse parlato di successione
    con suo nipote, Amedeo d’Aosta.
    Umberto II era esule da quindici anni. Quando andava a contemplare
    l’Atlantico gli occhi gli si velavano di malinconia. Di
    giorno in giorno era più solo. Sentiva l’eco dei versi struggenti:

    “Amore di terra lontana, / per voi tutto il cuore mi duol…”. Incarnava
    il vissuto e le speranze di milioni di connazionali,
    convinti che lo Stato aveva bisogno di lui. Senza forzare, senza
    chiasso. Per la patria. Il suo motto era “l’Italia innanzi tutto,
    l’Italia sopra tutto”, preso di peso da una pagina di Giosue
    Carducci, di fieri spiriti repubblicani, garibaldino ma anche senatore
    del Regno e cantore della
    Bianca croce di Savoia e
    dell’Eterno femminino regale.
    Se mai gli fosse accaduto di ritornare
    sul trono, sarebbe stato quale aveva cercato di essere:
    re non di una casta, di un partito, dei soli monarchici ma di tutti,
    anche dei repubblicani sfegatati, come avevano fatto suo
    padre e gli avi. Però… Però occorreva rispettare le norme.
    Sconcertato dalle dichiarazioni del figlio (o attribuite al figlio)
    circa progetti matrimoniali mai comunicatigli, il re ammonì
    Vittorio Emanuele. Al riguardo non aveva che da ribadire “parola
    per parola” quanto gli aveva scritto tre anni prima, nel
    gennaio 1960: non poteva accasarsi senza l’assenso paterno.
    Diversamente, avrebbe perduto successione dinastica, assegno
    mensile privilegiato, eredità patrimoniale speciale e, soprattutto,
    titolo di principe ereditario, anzi anche quello di principe di
    Napoli. Sarebbe “uscito dalla Casa”. Certo, le nozze contratte
    senza preventivo consenso del re sarebbero state valide sotto il
    profilo civile e l’affetto di padre non sarebbe venuto meno. Però
    non bisognava né si può confondere il sentimento personale
    con la continuità della Casa e della monarchia.
    Repetita juvant
    Persone di fiducia recarono di persona anche questa breve eloquente
    missiva. Poiché era una sorta di “ultimo appello”, il re
    chiese al figlio risposta scritta. Vittorio Emanuele la vergò sul
    foglio paterno, datandola 25-VIII-63. “L’intervista” rispose
    “non rispecchia il mio pensiero”.
    Dal gennaio 1960 il re fissò dunque la cornice entro la quale
    suo figlio avrebbe potuto muoversi in piena libertà: matrimonio
    anche fra dispari, ma previo assenso paterno. “Sai bene”
    concluse Umberto II il 13 luglio 1963 “che sono spinto solo
    dall’affetto che ho per te e dal desiderio di assicurarti il migliore
    avvenire, che non potrebbe mai essere in contrasto con
    quanto è sempre stato fatto nella nostra famiglia.”
    Tutto era possibile nell’ambito delle regole che da 29 generazioni
    regolavano la Casa, nulla al di fuori di esse. Il re rimase
    fermo sul punto centrale: non voleva né, ciò che più conta, poteva
    mutare le norme vigenti giacché il sovrano non è al di sopra
    delle leggi, è il loro supremo custode, il garante della loro
    efficacia e ne ordina l’esecuzione.




    pp. 316-19

    All’inizio degli anni Sessanta, Umberto II ripercorreva le turbinose
    vicende del suo breve regno. Si prospettava quale era
    stato: tassello nel drammatico dopoguerra europeo. Macerie e
    ansia di ricostruzione. Entusiasmi ed errori catastrofici.

    Fra gli Stati usciti sconfitti dalla Seconda guerra mondiale, due
    mutarono forma: da monarchie divennero repubbliche. Furono
    l’Italia nell’Europa occidentale e la Bulgaria in quella orientale.
    In Bulgaria, lo zar dei bulgari, Boris III, morì di morbo improvviso
    e violento al rientro da un burrascoso incontro con
    Hitler a Berchtesgaden. La corona passò al figlio Simeone, con
    la reggenza del primo ministro, Bogdan Filov. I monarchici
    vennero massacrati. I più fortunati ripararono all’estero. Il
    Fronte patriottico, di ispirazione comunista, era guidato da
    Dimitrov, già stratega della Terza Internazionale di Mosca. Il
    capo del partito agrario, moderatamente conservatore, venne
    condannato a morte. L’8 settembre 1946 un referendum cancellò
    la monarchia. La zarina vedova, Giovanna di Savoia, figlia
    di Vittorio Emanuele III e di Elena di Montenegro, si trasferì
    per tempo in salvo con la famiglia. L’eliminazione della
    monarchia in Bulgaria fu un episodio dell’instaurarsi
    dell’egemonia dell’Urss sull’Europa orientale, duramente subordinata
    agli interessi economici sovietici e suggellata infine
    dal Patto di Varsavia, che lasciò mano libera a Mosca per praticare
    la dottrina della “sovranità limitata”: interferenza militare
    a sostegno dei “partiti comunisti fratelli” al governo di Repubblica
    democratica tedesca, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia,
    Romania e, appunto, Bulgaria.
    Nel 1946 il cambio istituzionale in Italia non era necessario agli
    equilibri politici generali né dell’Europa occidentale né delle
    future alleanze politico-militari (la Nato, l’Alleanza atlantica…)
    fondate sulla Carta atlantica del 1941. Anche il processo
    di integrazione dell’Europa occidentale non aveva bisogno di
    una repubblica in più o di una monarchia in meno. Vi concorsero
    i regni del Belgio e dei Paesi Bassi e il granducato del
    Lussemburgo. L’Unione europea, a sua volta, contò altre monarchie:
    la corona di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Danimarca,
    Svezia. Anche la Norvegia è una monarchia, e non
    sembra sia un Paese antidemocratico.
    Nel ventennio post-bellico si registrò il rovesciamento
    dell’istituto monarchico in Grecia (dicembre 1967) poi bilanciato,
    nell’area mediterranea, con il ritorno della monarchia in
    Spagna, preannunciato dal 1969, quando Juan Carlos venne
    proclamato erede del
    caudillo alla guida dello Stato. Al crollo
    dell’Urss, non seguì alcuna restaurazione monarchica
    nell’Europa orientale. Colto, apprezzato, animato da forte passione
    per il proprio Paese, Simeone ascese a capo del governo
    della Bulgaria e operò con ampio consenso, ma il superamento
    del comunismo non si risolse nella restaurazione. Lo stesso accadde
    in Romania. Anche in Albania la monarchia giunse a un
    passo dal successo, ma fallì. Pare acquisito che la forma monarchica
    non venga affatto incoraggiata dai governi che hanno
    favorito il crollo del sistema sovietico e si sono inseriti nei
    mercati dell’Europa orientale, anzitutto Stati Uniti d’America,
    Francia e Germania, mentre la Gran Bretagna si appaga della
    monarchia propria. Lo stessa vale per Serbia, Croazia e, per

    quanto consta, Montenegro, Paesi nei quali la forma monarchica
    risultò poco radicata ed effimera.
    In Italia l’approvazione e l’entrata in vigore della Costituzione
    resero immutabile l’opzione repubblicana del 2-3 giugno 1946.
    La monarchia seguì il destino storico segnato dall’insanabile
    cesura del 13 giugno 1946, quando il governo avocò i poteri
    del capo dello Stato, e il sovrano, che ne era e rimase unico legittimo
    titolare sino al 18 seguente, lasciò l’Italia. Per Umberto
    II si ripeté, ingigantito, il dramma vissuto da suo padre dopo la
    “resa senza condizioni” del settembre 1943, quando anche
    molti monarchici pensarono che la sua abdicazione avrebbe
    salvato la monarchia. Quei monarchici andavano con la memoria
    a Carlo Alberto, che abdicò la sera della sconfitta di Novara.
    Compivano, dunque, un errore di storia, e fatalmente ne traevano
    una conclusione politicamente infondata. Carlo Alberto,
    infatti, non abdicò dopo l’armistizio, bensì per mettere suo figlio,
    Vittorio Emanuele II, in condizione di ottenere clausole di
    pace migliori di quelle che, verosimilmente, gli sarebbero state
    riservate dal feldmaresciallo Radetzky, come in effetti accadde.
    Nel settembre 1943 era stato invece il re, tramite il suo governo,
    a ottenere che la resa non si tramutasse nella
    debellatio

    dello Stato stesso. Andò male, ma poteva andare molto peggio.
    Due anni prima il ministero degli Esteri britannico aveva messo
    a punto un progetto di spartizione dell’Italia in quattro zone
    da assegnare a Gran Bretagna, Francia, Jugoslavia e Grecia,
    mentre Roma sarebbe stata completamente assegnata al papa.
    Il 14 gennaio 1943 il ministro degli Esteri il britannico, Anthony
    Eden, aveva scritto al segretario di Stato Usa, Cordell
    Hull, che gli anglo-americani dovevano prefiggersi il “collasso
    interno dell’Italia” provocandovi tali disordini “da richiedere
    un’occupazione tedesca”. Anche Churchill non escludeva che
    “tanto il re quanto Badoglio sprofondino sotto l’odio provocato
    dalla resa”. Nel maggio 1943 il Dipartimento di Stato americano
    propendeva per la sospensione delle prerogative della Corona;
    soltanto dopo il 25 luglio Churchill cominciò a domandarsi
    se davvero convenisse “abbattere e distruggere (in Italia)
    l’intera struttura ed espressione dello Stato”.
    Non avendo abdicato in coincidenza con l’armistizio, per il re
    divenne sempre più difficile individuare un altro momento
    propizio a farlo. La decisione maturò, infine, su pressione esterna
    più che per convinzione interna, come già era accaduto
    per l’istituzione della luogotenenza: annunciata con
    l’indicazione dell’evento con cui avrebbe dovuto coincidere (la
    liberazione di Roma), ma non della data, che nessuno era in
    grado di prevedere.
    Altrettanto accadde per Umberto II.




    pp. 321-23

    Mentre il padre riordinava carte e teneva desta la fiammella
    della Tradizione, Assalonne saltò il fosso. Il 15 dicembre 1969
    Vittorio Emanuele “IV” firmò un decreto in cui sentenziò che
    l’“amatissimo e mitissimo” padre aveva violato lo Statuto controfirmando
    i Dll 25 giugno 1944 n. 151 e 16 marzo 1946, n.
    48 (
    sic), che affidarono e regolamentarono la scelta della forma
    dello Stato da parte dei cittadini. Non solo: a sua detta, quando
    sciolse dal giuramento di fedeltà al re tutti coloro che
    l’avevano prestato e lasciò il Quirinale, di fatto Umberto II abdicò.
    L’originale del decreto fu depositato in plico chiuso presso
    un notaio di Ginevra, lo attestarono il commercialista Aldo
    A. Giacci, sedicente referente di un movimento monarchico
    naufragato prima di decollare (come ricorda Licio Gelli), e
    Giordano Gamberini, da quasi nove anni gran maestro del
    Grande oriente d’Italia: nei suoi piani l’affiliazione di Vittorio
    Emanuele avrebbe accelerato il riconoscimento della massoneria
    italiana da parte di quella inglese. L’indomani “Vittorio
    Emanuele IV” conferì a Marina Ricolfi Doria il titolo di duchessa
    di Sant’Anna di Valdieri. Era fatta. Il matrimonio non
    sarebbe più stato fra “dispari”.
    Come egli stesso narra in
    Lampi di vita, Vittorio Emanuele e
    Marina si sposarono con rito civile dinnanzi a un giudice di
    pace a Las Vegas l’11 gennaio 1970. Il padre? Le regie patenti?
    la Casa? Anticaglie. “Non informai nessuno, neanche i miei
    genitori”, ha scritto Vittorio Emanuele. Il 7 ottobre 1971 seguì
    il matrimonio religioso nella cappella dell’Istituto salesiano a
    Teheran. Umberto II non seppe nulla prima: non ebbe quindi
    alcunché né da approvare né da disconoscere. Era tutto scritto
    nelle leggi della Casa. Lo aveva ripetutamente ricordato al figlio.
    Non serviva ribadire. Del resto, da tempo aveva preso le
    misure: come si legge in
    Lampi di vita “un bel giorno
    l’appannaggio (di due milioni di franchi svizzeri al mese) gli fu
    tolto all’improvviso”.
    Contratte le nozze a quel modo, di sua scelta Vittorio Emanuele
    “uscì dalla Casa”.
    Ipso iure, principe ereditario divenne
    Amedeo d’Aosta.
    Il re si raccolse sempre più in se stesso: leggere, riordinare carte,
    appellare gli italiani alla concordia e all’unità.
    Nella notte tra il 17 e il 18 agosto 1978 avvenne l’“incidente”
    dell’isola di Cavallo, in Corsica. A Vittorio Emanuele fu imputata
    la morte di un giovane spentosi mesi dopo essere stato ferito
    da un colpo d’arma da fuoco.
    Umberto II tacque. Che cosa mai poteva dire? Gli divenne
    sempre più difficile contenere in un solo animo l’affetto di padre
    e il senso del dovere verso la Casa e la storia.
    Il processo venne celebrato dal 13 al 18 novembre 1991. Vittorio
    Emanuele fu assolto dall’imputazione principale, ma condannato
    per detenzione abusiva di arma da fuoco.
    Altro intanto era avvenuto. Il 18 marzo 1983 Umberto II morì,
    dopo un lungo calvario. Volle essere chiuso in un avello
    nell’abbazia di Hautecombe, in Savoia, la terra degli antenati:
    l’ultimo dei Savoia-Carignano volle riposare di fronte a Carlo
    Felice, estremo discendente diretto di Carlo III il Buono (1486-
    1553) e di Beatrice di Portogallo. Testimonianze concordi affermano
    che Umberto II fece chiudere nel proprio feretro il regio
    sigillo.
    Non indicò in modo esplicito il successore. Ve n’era bisogno?
    Le norme parlavano da sole. Non doveva certo chiedere che
    fossero avallate dalla repubblica, da lui mai riconosciuta, o da
    altre famiglie regnanti. Ciascuna ha le regole proprie. Le applica
    e, al più, ne dà conto se e quando lo ritenga necessario.
    D’altronde non vi erano precedenti, non era mai accaduto, non
    era mai stato necessario. Il re non amava gesti superflui. Non
    sono regali. Carlo Alberto abdicò a favore del figlio: passaggio
    chiarissimo. Vittorio Emanuele II morì fra le braccia di Umberto
    I, che il 29 luglio 1900 venne assassinato. Vittorio Emanuele
    III abdicò su carta da bollo a favore di Umberto II, che
    dal canto suo ricordò le leggi e lasciò fare alle leggi.
    Casa Savoia non usò incoronazioni, fasti, feste. Stile sobrio,
    concreto. Così fece Umberto II.
    Il 7 luglio 2006 Amedeo di Savoia, V duca d’Aosta, di concerto
    con la Consulta dei senatori del Regno ricordò il proprio
    rango di capo della Casa di Savoia. Affidò al figlio Aimone,
    duca delle Puglie, il compito di fare chiarezza negli ordini dinastici,
    e alla cugina Maria Gabriella di restituire smalto alla
    riscoperta culturale della monarchia.
    L’intricata vicenda del referendum istituzionale, dei contrasti
    fra componenti della Casa, del ruolo dei Savoia nella storia
    d’Italia e d’Europa tornò al centro dell’attenzione, oltre la
    semplice curiosità, talora troppo incline ad aspetti secondari.
    Dall’abbazia di Hautecombe parve giungere l’eco del grido antico:
    “Il re è morto, viva il re…”.


 

 
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