Declino e crollo della monarchia in Italia. I Savoia dall’unità al referendum del 2 giugno 1946. Di Aldo A. Mola, © 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, Mondadori 2006.
EPILOGO
pp. 307-8
Nell’estate del 2006 Vittorio Emanuele di Savoia è balzato al
centro dell’attenzione. Tratto in arresto presso Lecco per accuse
avvilenti (16 giugno), detenuto a Potenza, assegnato agli arresti
domiciliari, rilasciato con il vincolo di rimanere in Italia
perché indagato, due mesi dopo venne sommerso dallo sdegno
per alcune frasi dette (o attribuitegli) mentre era detenuto. Da
articoli, lettere e domande a emittenti radio-televisive anche
straniere emerse che per i più Vittorio Emanuele era “il re”.
Molti conclusero che lo scandalo era troppo grave e che la monarchia
era morta. Di registrazione ambientale.
L’indignazione dilagò, perché tra fine maggio e inizio giugno i
media avevano dato molto rilievo all’affollato raduno
dell’ordine cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro nella basilica
romana di San Paolo fuori le Mura: uno spazio che appartiene
alla Santa Sede, ma molti pensarono, ingenuamente,
che l’incontro fosse approvato dalla repubblica. Nient’affatto.
Per l’Italia quell’ordine non esisteva dal 1° gennaio 1948 e non
esiste. La XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione
è perentoria: “L’Ordine mauriziano (cioè dei santi Maurizio
e Lazzaro) è conservato come ente ospedaliero e funziona
nei modi stabiliti dalla legge”. Il tempo dirà che valore esso
abbia o avrà per la Santa Sede.
Chi più aveva creduto, più si sentì deluso.
La monarchia però non risultò annientata dalle dichiarazioni
sui propri impulsi rese da Vittorio Emanuele di Savoia ai magistrati
di Potenza né da quanto seguì. Dal 18 marzo 1983 la
successione alla Corona aveva un altro titolare: Amedeo di Savoia.
pp. 310-14
Umberto II elencò al figlio le conseguenze patrimoniali della
sua esclusione dalla successione dinastica: cadeva il privilegio
riservatogli per testamento quale principe ereditario, non avrebbe
ricevuto i lasciti di “persone” a suo favore e l’assegno
mensile (sino al quel momento doppio rispetto a quello conferito
alle sorelle) sarebbe stato ridotto. Non avrebbe ricevuto alcuno
dei diritti spettanti o rivendicati dal padre quale Capo della
Casa. Il re tenne però a ricordargli soprattutto che “ogni considerazione
di carattere materiale deve essere secondaria a
quelle di carattere morale”. Umberto riecheggiò il grido di David
al figlio dalle lunghe chiome: “Assalonne, Assalonne...”.
Vittorio Emanuele covava la ribellione verso il padre, la Casa,
la monarchia? Era consapevole di quanto alta fosse la sfida?
Il re gli fece consegnare la lettera da persone di sua assoluta fiducia
e ne informò chi poteva influire sulle decisioni del figlio.
Vittorio sottoscrisse “per presa conoscenza” (sic). Però non
ebbe fretta di rispondere. Meditò solingo? Si consultò? Con
chi? Tre mesi dopo, il 15 aprile 1960, scrisse al padre da Cascais.
Lo ringraziò dello “scrupolo” posto nell’esporgli “tanto
pazientemente e diligentemente” la situazione nella quale si sarebbe
trovato se avesse sposato una donna, “qualunque essa
fosse – non di sangue reale”. Promise di “riflettere, meditare,
decidere”. Declinò le proposte di viaggi offertegli: preferiva
imboccare subito la via del broker.
Nel 1959 Roger Garaudy pubblicò Perspectives de l’homme,
Ernesto “Che” Guevara scrisse la
Guerra de guerrillas (“guerra
per bande” avrebbe tradotto Giuseppe Mazzini) e Giovanni
XXIII annunciò la convocazione del concilio ecumenico Vaticano
II. Era l’anno del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa (1896-1957), del Tamburo di latta di Gunter Grass
e del film Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Subito
dopo vennero La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi
fratelli di Luchino Visconti. Come doveva condursi un ventenne
quando il rock era norma? Insomma, Vittorio Emanuele faceva
bene? Faceva male? Poteva seguire i propri impulsi o doveva
uniformarsi a norme secolari? Doveva sottostare alla “ragion
di Stato” quando non esisteva più la forma di Stato che
aveva dato vita a quelle regole?
In Lampi di vita, “storia di un principe in esilio” scritta a quattro
mani con il giornalista Alessandro Ferodi, nel 2002 Vittorio
Emanuele di Savoia ha evocato alcuni momenti dell’itinerario
coronato dalle nozze con Marina Ricolfi Doria. A quei “ricordi”
non sempre corrispondono fatti accertati. Da un canto,
l’autore si proclama “erede al trono”; dall’altro afferma di essere
il primo ad accettare la repubblica: “Oggi come oggi” aggiunge
“non vedo l’utilità di riportare in Italia una corona…
Sappiamo tutti che l’Italia non può tornare a essere una monarchia…
Ormai la monarchia in Italia non ha più ragion
d’essere”. Una liquidazione totale, questa, che comportava
l’inutilità di un “partito monarchico” e, per coerenza, doveva
completarsi con abolizione e scioglimento degli ordini dinastici:
Santissima Annunziata, Santi Maurizio e Lazzaro… Taluni
giudizi espressi in quelle pagine paiono improntati da modesta
cognizione e persino disprezzo delle norme che regolavano e
reggono la Casa di Savoia.
Ma quali erano e sono tali regole? A differenza di quanto viene
solitamente detto, la “legge della Casa”, accoratamente richiamata
da Umberto II, non interdice matrimoni fra “dispari”, vale
a dire fra principi e persone di altro lignaggio, borghesi inclusi.
Le regie patenti emanate da Vittorio Amedeo III il 13
settembre 1780 sono chiarissime: “Non sarà lecito a Principi
del Sangue contrarre matrimonio senza prima ottenere il permesso
Nostro o dei reali nostri successori…”. Esse furono ribadite
il 17 luglio 1782: i membri della Casa non possono contrarre
matrimonio “senza la permissione nostra o dei reali successori…”.
Ovvio. La norma risponde a necessità politiche: le
nozze dei principi suggellavano o almeno prospettavano alleanze,
senza escludere conflitti futuri. Solo il Capo della Casa –
non solo quella di Savoia: valeva per tutte -, conoscendo a
fondo tutti i segreti della politica estera e militare, era in grado
di stabilire di volta in volta ciò che giovava allo Stato. Era impensabile,
per esempio, che venisse contratto matrimonio con
il membro di una famiglia che era o di lì a poco poteva divenire
nemica, a meno che le nozze servissero da coperture per
strategie occulte.
Tale principio, ricorda il costituzionalista Franco Edoardo Adami,
fu recepito dal codice civile del Regno d’Italia, che riservò
al “capo famiglia” il benestare alle nozze dei figli e subordinò
il matrimonio di speciali categorie (ambasciatori, ufficiali
d’arma…) al consenso di autorità preposte, chiamate a
decidere nell’interesse dello Stato.
Quel 25 gennaio 1960 Umberto II parlò dunque chiaro. La Casa
comprendeva principi reali, cioè discendenti del re e del
principe ereditario, e principi del sangue, cioè appartenenti alla
famiglia per rami collaterali. Così era stato nei secoli, Nessuno
poteva modificare tali norme perché “nei paesi liberi nessuno
può stare sopra o fuori della legge”, come affermò la relazione
sul codice civile del Regno d’Italia del 1865.
Con data 18 luglio 1963 il settimanale “Oggi” pubblicò
un’intervista a Vittorio Emanuele. Toccò i temi delicati, di famiglia
e politici. Umberto II sapeva per esperienza che il pensiero
dell’intervistato viene spesso travisato. Amareggiato perché
il figlio non aveva sentito il bisogno di parlargli, di scrivergli
di “questioni che riguardavano direttamente lui” anziché
spiattellare a un periodico, come padre e anzitutto come sovrano
e Capo della Casa di Savoia gli chiese di precisargli se condividesse
o no ciò che gli veniva attribuito. E non era poco.
Affiancato da Marina, la maggiore e “la più graziosa” delle sorelle
Ricolfi Doria a giudizio dell’intervistatore, il principe disse
che il partito monarchico italiano “avrebbe dovuto sciogliersi
subito dopo il referendum e la partenza di suo padre per il
Portogallo. I principali fautori del regno erano scomparsi, non
erano più in Italia… i voti erano persi e oggi lo sono ancora di
più”. I monarchici erano serviti o, quanto meno, avvertiti. Aggiunse
che bisognava “guardare in faccia la realtà”: era “praticamente
impossibile” che in Italia avvenisse una restaurazione
monarchica. Tanto valeva...*
Il principe disse anche che, entro pochi mesi, avrebbe sposato
Marina Doria senza perdere affatto i diritti alla successione. La
“decisione ultima” sarebbe dipesa solo da lui. A suo avviso, infine,
era falso che Umberto II avesse parlato di successione
con suo nipote, Amedeo d’Aosta.
Umberto II era esule da quindici anni. Quando andava a contemplare
l’Atlantico gli occhi gli si velavano di malinconia. Di
giorno in giorno era più solo. Sentiva l’eco dei versi struggenti:
“Amore di terra lontana, / per voi tutto il cuore mi duol…”. Incarnava
il vissuto e le speranze di milioni di connazionali,
convinti che lo Stato aveva bisogno di lui. Senza forzare, senza
chiasso. Per la patria. Il suo motto era “l’Italia innanzi tutto,
l’Italia sopra tutto”, preso di peso da una pagina di Giosue
Carducci, di fieri spiriti repubblicani, garibaldino ma anche senatore
del Regno e cantore della Bianca croce di Savoia e
dell’Eterno femminino regale. Se mai gli fosse accaduto di ritornare
sul trono, sarebbe stato quale aveva cercato di essere:
re non di una casta, di un partito, dei soli monarchici ma di tutti,
anche dei repubblicani sfegatati, come avevano fatto suo
padre e gli avi. Però… Però occorreva rispettare le norme.
Sconcertato dalle dichiarazioni del figlio (o attribuite al figlio)
circa progetti matrimoniali mai comunicatigli, il re ammonì
Vittorio Emanuele. Al riguardo non aveva che da ribadire “parola
per parola” quanto gli aveva scritto tre anni prima, nel
gennaio 1960: non poteva accasarsi senza l’assenso paterno.
Diversamente, avrebbe perduto successione dinastica, assegno
mensile privilegiato, eredità patrimoniale speciale e, soprattutto,
titolo di principe ereditario, anzi anche quello di principe di
Napoli. Sarebbe “uscito dalla Casa”. Certo, le nozze contratte
senza preventivo consenso del re sarebbero state valide sotto il
profilo civile e l’affetto di padre non sarebbe venuto meno. Però
non bisognava né si può confondere il sentimento personale
con la continuità della Casa e della monarchia. Repetita juvant…
Persone di fiducia recarono di persona anche questa breve eloquente
missiva. Poiché era una sorta di “ultimo appello”, il re
chiese al figlio risposta scritta. Vittorio Emanuele la vergò sul
foglio paterno, datandola 25-VIII-63. “L’intervista” rispose
“non rispecchia il mio pensiero”.
Dal gennaio 1960 il re fissò dunque la cornice entro la quale
suo figlio avrebbe potuto muoversi in piena libertà: matrimonio
anche fra dispari, ma previo assenso paterno. “Sai bene”
concluse Umberto II il 13 luglio 1963 “che sono spinto solo
dall’affetto che ho per te e dal desiderio di assicurarti il migliore
avvenire, che non potrebbe mai essere in contrasto con
quanto è sempre stato fatto nella nostra famiglia.”
Tutto era possibile nell’ambito delle regole che da 29 generazioni
regolavano la Casa, nulla al di fuori di esse. Il re rimase
fermo sul punto centrale: non voleva né, ciò che più conta, poteva
mutare le norme vigenti giacché il sovrano non è al di sopra
delle leggi, è il loro supremo custode, il garante della loro
efficacia e ne ordina l’esecuzione.
pp. 316-19
All’inizio degli anni Sessanta, Umberto II ripercorreva le turbinose
vicende del suo breve regno. Si prospettava quale era
stato: tassello nel drammatico dopoguerra europeo. Macerie e
ansia di ricostruzione. Entusiasmi ed errori catastrofici.
Fra gli Stati usciti sconfitti dalla Seconda guerra mondiale, due
mutarono forma: da monarchie divennero repubbliche. Furono
l’Italia nell’Europa occidentale e la Bulgaria in quella orientale.
In Bulgaria, lo zar dei bulgari, Boris III, morì di morbo improvviso
e violento al rientro da un burrascoso incontro con
Hitler a Berchtesgaden. La corona passò al figlio Simeone, con
la reggenza del primo ministro, Bogdan Filov. I monarchici
vennero massacrati. I più fortunati ripararono all’estero. Il
Fronte patriottico, di ispirazione comunista, era guidato da
Dimitrov, già stratega della Terza Internazionale di Mosca. Il
capo del partito agrario, moderatamente conservatore, venne
condannato a morte. L’8 settembre 1946 un referendum cancellò
la monarchia. La zarina vedova, Giovanna di Savoia, figlia
di Vittorio Emanuele III e di Elena di Montenegro, si trasferì
per tempo in salvo con la famiglia. L’eliminazione della
monarchia in Bulgaria fu un episodio dell’instaurarsi
dell’egemonia dell’Urss sull’Europa orientale, duramente subordinata
agli interessi economici sovietici e suggellata infine
dal Patto di Varsavia, che lasciò mano libera a Mosca per praticare
la dottrina della “sovranità limitata”: interferenza militare
a sostegno dei “partiti comunisti fratelli” al governo di Repubblica
democratica tedesca, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia,
Romania e, appunto, Bulgaria.
Nel 1946 il cambio istituzionale in Italia non era necessario agli
equilibri politici generali né dell’Europa occidentale né delle
future alleanze politico-militari (la Nato, l’Alleanza atlantica…)
fondate sulla Carta atlantica del 1941. Anche il processo
di integrazione dell’Europa occidentale non aveva bisogno di
una repubblica in più o di una monarchia in meno. Vi concorsero
i regni del Belgio e dei Paesi Bassi e il granducato del
Lussemburgo. L’Unione europea, a sua volta, contò altre monarchie:
la corona di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Danimarca,
Svezia. Anche la Norvegia è una monarchia, e non
sembra sia un Paese antidemocratico.
Nel ventennio post-bellico si registrò il rovesciamento
dell’istituto monarchico in Grecia (dicembre 1967) poi bilanciato,
nell’area mediterranea, con il ritorno della monarchia in
Spagna, preannunciato dal 1969, quando Juan Carlos venne
proclamato erede del caudillo alla guida dello Stato. Al crollo
dell’Urss, non seguì alcuna restaurazione monarchica
nell’Europa orientale. Colto, apprezzato, animato da forte passione
per il proprio Paese, Simeone ascese a capo del governo
della Bulgaria e operò con ampio consenso, ma il superamento
del comunismo non si risolse nella restaurazione. Lo stesso accadde
in Romania. Anche in Albania la monarchia giunse a un
passo dal successo, ma fallì. Pare acquisito che la forma monarchica
non venga affatto incoraggiata dai governi che hanno
favorito il crollo del sistema sovietico e si sono inseriti nei
mercati dell’Europa orientale, anzitutto Stati Uniti d’America,
Francia e Germania, mentre la Gran Bretagna si appaga della
monarchia propria. Lo stessa vale per Serbia, Croazia e, per
quanto consta, Montenegro, Paesi nei quali la forma monarchica
risultò poco radicata ed effimera.
In Italia l’approvazione e l’entrata in vigore della Costituzione
resero immutabile l’opzione repubblicana del 2-3 giugno 1946.
La monarchia seguì il destino storico segnato dall’insanabile
cesura del 13 giugno 1946, quando il governo avocò i poteri
del capo dello Stato, e il sovrano, che ne era e rimase unico legittimo
titolare sino al 18 seguente, lasciò l’Italia. Per Umberto
II si ripeté, ingigantito, il dramma vissuto da suo padre dopo la
“resa senza condizioni” del settembre 1943, quando anche
molti monarchici pensarono che la sua abdicazione avrebbe
salvato la monarchia. Quei monarchici andavano con la memoria
a Carlo Alberto, che abdicò la sera della sconfitta di Novara.
Compivano, dunque, un errore di storia, e fatalmente ne traevano
una conclusione politicamente infondata. Carlo Alberto,
infatti, non abdicò dopo l’armistizio, bensì per mettere suo figlio,
Vittorio Emanuele II, in condizione di ottenere clausole di
pace migliori di quelle che, verosimilmente, gli sarebbero state
riservate dal feldmaresciallo Radetzky, come in effetti accadde.
Nel settembre 1943 era stato invece il re, tramite il suo governo,
a ottenere che la resa non si tramutasse nella debellatio
dello Stato stesso. Andò male, ma poteva andare molto peggio.
Due anni prima il ministero degli Esteri britannico aveva messo
a punto un progetto di spartizione dell’Italia in quattro zone
da assegnare a Gran Bretagna, Francia, Jugoslavia e Grecia,
mentre Roma sarebbe stata completamente assegnata al papa.
Il 14 gennaio 1943 il ministro degli Esteri il britannico, Anthony
Eden, aveva scritto al segretario di Stato Usa, Cordell
Hull, che gli anglo-americani dovevano prefiggersi il “collasso
interno dell’Italia” provocandovi tali disordini “da richiedere
un’occupazione tedesca”. Anche Churchill non escludeva che
“tanto il re quanto Badoglio sprofondino sotto l’odio provocato
dalla resa”. Nel maggio 1943 il Dipartimento di Stato americano
propendeva per la sospensione delle prerogative della Corona;
soltanto dopo il 25 luglio Churchill cominciò a domandarsi
se davvero convenisse “abbattere e distruggere (in Italia)
l’intera struttura ed espressione dello Stato”.
Non avendo abdicato in coincidenza con l’armistizio, per il re
divenne sempre più difficile individuare un altro momento
propizio a farlo. La decisione maturò, infine, su pressione esterna
più che per convinzione interna, come già era accaduto
per l’istituzione della luogotenenza: annunciata con
l’indicazione dell’evento con cui avrebbe dovuto coincidere (la
liberazione di Roma), ma non della data, che nessuno era in
grado di prevedere.
Altrettanto accadde per Umberto II.
pp. 321-23
Mentre il padre riordinava carte e teneva desta la fiammella
della Tradizione, Assalonne saltò il fosso. Il 15 dicembre 1969
Vittorio Emanuele “IV” firmò un decreto in cui sentenziò che
l’“amatissimo e mitissimo” padre aveva violato lo Statuto controfirmando
i Dll 25 giugno 1944 n. 151 e 16 marzo 1946, n.
48 (sic), che affidarono e regolamentarono la scelta della forma
dello Stato da parte dei cittadini. Non solo: a sua detta, quando
sciolse dal giuramento di fedeltà al re tutti coloro che
l’avevano prestato e lasciò il Quirinale, di fatto Umberto II abdicò.
L’originale del decreto fu depositato in plico chiuso presso
un notaio di Ginevra, lo attestarono il commercialista Aldo
A. Giacci, sedicente referente di un movimento monarchico
naufragato prima di decollare (come ricorda Licio Gelli), e
Giordano Gamberini, da quasi nove anni gran maestro del
Grande oriente d’Italia: nei suoi piani l’affiliazione di Vittorio
Emanuele avrebbe accelerato il riconoscimento della massoneria
italiana da parte di quella inglese. L’indomani “Vittorio
Emanuele IV” conferì a Marina Ricolfi Doria il titolo di duchessa
di Sant’Anna di Valdieri. Era fatta. Il matrimonio non
sarebbe più stato fra “dispari”.
Come egli stesso narra in Lampi di vita, Vittorio Emanuele e
Marina si sposarono con rito civile dinnanzi a un giudice di
pace a Las Vegas l’11 gennaio 1970. Il padre? Le regie patenti?
la Casa? Anticaglie. “Non informai nessuno, neanche i miei
genitori”, ha scritto Vittorio Emanuele. Il 7 ottobre 1971 seguì
il matrimonio religioso nella cappella dell’Istituto salesiano a
Teheran. Umberto II non seppe nulla prima: non ebbe quindi
alcunché né da approvare né da disconoscere. Era tutto scritto
nelle leggi della Casa. Lo aveva ripetutamente ricordato al figlio.
Non serviva ribadire. Del resto, da tempo aveva preso le
misure: come si legge in Lampi di vita “un bel giorno
l’appannaggio (di due milioni di franchi svizzeri al mese) gli fu
tolto all’improvviso”.
Contratte le nozze a quel modo, di sua scelta Vittorio Emanuele
“uscì dalla Casa”. Ipso iure, principe ereditario divenne
Amedeo d’Aosta.
Il re si raccolse sempre più in se stesso: leggere, riordinare carte,
appellare gli italiani alla concordia e all’unità.
Nella notte tra il 17 e il 18 agosto 1978 avvenne l’“incidente”
dell’isola di Cavallo, in Corsica. A Vittorio Emanuele fu imputata
la morte di un giovane spentosi mesi dopo essere stato ferito
da un colpo d’arma da fuoco.
Umberto II tacque. Che cosa mai poteva dire? Gli divenne
sempre più difficile contenere in un solo animo l’affetto di padre
e il senso del dovere verso la Casa e la storia.
Il processo venne celebrato dal 13 al 18 novembre 1991. Vittorio
Emanuele fu assolto dall’imputazione principale, ma condannato
per detenzione abusiva di arma da fuoco.
Altro intanto era avvenuto. Il 18 marzo 1983 Umberto II morì,
dopo un lungo calvario. Volle essere chiuso in un avello
nell’abbazia di Hautecombe, in Savoia, la terra degli antenati:
l’ultimo dei Savoia-Carignano volle riposare di fronte a Carlo
Felice, estremo discendente diretto di Carlo III il Buono (1486-1553) e di Beatrice di Portogallo. Testimonianze concordi affermano
che Umberto II fece chiudere nel proprio feretro il regio
sigillo.
Non indicò in modo esplicito il successore. Ve n’era bisogno?
Le norme parlavano da sole. Non doveva certo chiedere che
fossero avallate dalla repubblica, da lui mai riconosciuta, o da
altre famiglie regnanti. Ciascuna ha le regole proprie. Le applica
e, al più, ne dà conto se e quando lo ritenga necessario.
D’altronde non vi erano precedenti, non era mai accaduto, non
era mai stato necessario. Il re non amava gesti superflui. Non
sono regali. Carlo Alberto abdicò a favore del figlio: passaggio
chiarissimo. Vittorio Emanuele II morì fra le braccia di Umberto
I, che il 29 luglio 1900 venne assassinato. Vittorio Emanuele
III abdicò su carta da bollo a favore di Umberto II, che
dal canto suo ricordò le leggi e lasciò fare alle leggi.
Casa Savoia non usò incoronazioni, fasti, feste. Stile sobrio,
concreto. Così fece Umberto II.
Il 7 luglio 2006 Amedeo di Savoia, V duca d’Aosta, di concerto
con la Consulta dei senatori del Regno ricordò il proprio
rango di capo della Casa di Savoia. Affidò al figlio Aimone,
duca delle Puglie, il compito di fare chiarezza negli ordini dinastici,
e alla cugina Maria Gabriella di restituire smalto alla
riscoperta culturale della monarchia.
L’intricata vicenda del referendum istituzionale, dei contrasti
fra componenti della Casa, del ruolo dei Savoia nella storia
d’Italia e d’Europa tornò al centro dell’attenzione, oltre la
semplice curiosità, talora troppo incline ad aspetti secondari.
Dall’abbazia di Hautecombe parve giungere l’eco del grido antico:
“Il re è morto, viva il re…”.