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Discussione: Onore eterno!

  1. #1
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    Unhappy Onore eterno!

    Annuncio con infinita gratitudine nell'anima, che oggi la vita di Pio Filippani Ronconi ha raggiunto il suo compimento perfetto di vita.

    Dopo aver espresso in piena felicità e armonia le potenzialità dell'umano, Egli ora riceve il premio di una vita più alta.

    La gioia infinita di chi lo ha conosciuto negli anni oggi si muta in un silenzioso rispetto, come di fronte a cose che superano l'umano.

    Padre, maestro, camerata, uomo pio, ha indicato durante tutta la sua permanenza in mezzo a noi il retto pensiero, l'alto sentire, la nobile azione.

    Per quel che tu sei
    e perchè tu sei stato insieme a noi
    noi Pio
    ti rendiamo grazie.


    Alfonso Piscitelli


    Mi associo alle parole di Piscitelli, che riposi in pace.

  2. #2
    SMF
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    Predefinito Rif: Onore eterno!

    Una triste perdita.
    Pio Filippani Ronconi è stato un grande uomo, un vero aristocratico. Nessuno potrà mai disconoscerne le qualità umane e spirituali.
    Che la terra gli sia lieve.

    R.I.P.

  3. #3
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    Predefinito Rif: Onore eterno!

    che la terra ti sia lieve, professore....

    Selezione da “ROMANITÀ”

    Pio Filippani Ronconi

    Conferenza tenuta presso l’associazione “Fons perennis”, via Stamira 21, 00162 Roma


    Il fatto che io parli della romanità e, soprattutto, dei Romani dipende dal fatto che si presenta in questo momento, in questo particolare periodo, direi, di marciume, di putrescenza di quelle che sono le strutture anche statuali di una nazione come la nostra, si presenta una urgenza; che è quella di abbeverarsi alle fonti della nostra gente, della nostra razza e delle nostre idee in modo da poter trarre non solo l’incitamento - il che è abbastanza normale - ma trarre una specie di guida interiore che agisca dentro di noi come fantasia morale. Fantasia morale significa agire senza delle idee preconcette; significa sentire...

    … ciò che mi impelle a parlare dei Romani è una constatazione: la origine dell’essere romano è veramente un mistero. Lì non è a dire “i Romani sono una varietà delle culture create dai popoli arii”, non basta questo. Perché di popoli arii l’Europa era piena. C’avevamo i Celti sulle spalle, di là dai Celti c’erano i Germani, gli Illiri, i Baltoslavi, e via discorrendo. Certamente gli Umbri avevano una cultura di gran lunga superiore a quella dei Romani, anche una cultura magico-religiosa profondamente articolata. Chi legga con attenzione le Tavole Eugubine resta semplicemente stupefatto di questa meravigliosa cultura interiore per cui la Terra, il Cielo e gli uomini formavano una unità. E formavano una unità che funzionava.
    Ora, i Romani sono veramente una specie di cosa strana, sono una anomalia. Perché noi alla radice del popolo romano non troviamo tanto una razza, quanto un foedus, quanto un atto spirituale, una alleanza. Anche le storie tradizionali che narrano di Roma raccontano che c’erano i Titii, i Luceres e i Ramnes, che erano tre popoli differenti. I Titii erano certamente degli umbro-sabini, i Ramnes erano casa nostra, erano i Romani, i Luceres erano probabilmente degli Etruschi, fra l’altro che Luceres ha la stessa radice di Luchmon, che è Lucumone.
    Quindi noi non abbiamo un fenomeno, diciamo così, terrestremente naturale... da questo terreno viene fuori abitualmente questa pianta. La pianta romana è un’anomalia. Perché la pianta romana pur agendo e muovendosi con la perfetta normalità, ma una normalità sovraccaricata, è riuscita a sviluppare delle attitudini propriamente spirituali che la loro - diciamolo chiaramente - incultura rispetto ai popoli che erano vicini - Etruschi, Umbri, Greci - la loro incultura avrebbe reso impossibile. Era veramente un elemento molto particolare e molto speciale. Possiamo dire che i Romani erano figli di un destino. I Romani son nati praticamente da una leggenda. Da una leggenda che è stata contestata già nell’antichità, ma non è stata mai demolita. Adesso dagli scavi recenti fatti a Sant’Omobono poi ad Ardea ed altri luoghi, a Lavinio, si è visto che la famosa favola di Enea era vera. Io stesso son stato un giorno con molta fortuna nelle viscere del Campidoglio, ho trovato dei cocci che erano praticamente dei cocci micenei. Quindi Roma esisteva prima ancora di essere. Lo stesso nome Roma non sappiamo cosa vuol dire. Scartata la etimologia dorica di forza, sì Roma potrebbe corrispondere al greco reuma che vuol dire lo scorrimento del fiume. Qualsiasi radice. Io potrei anche dire che Roma significa l’urlo dalla radice sanscrita ru, e via discorrendo. Ma c’è veramente un mistero. E il mistero è tanto più profondo, il mistero della romanità... infatti i Romani eran delle persone perfettamente normali. Erano uomini profondamente religiosi. Noi diremmo, o qualcuno direbbe, - sto tirando fuori Aristotile, fuori caso - che i Romani erano molto superstiziosi. Sì, perché erano superstiziosi, direi, proprio perché presso di loro tutto quello che era retaggio - eaque supersunt - era stato da loro accolto ed elaborato. Ma pensate il miracolo straordinario di questo popolo che dal 509 a.C. quando i Re furono espulsi fino, più o meno, al 250 a.C. ha cambiato in tale modo la propria lingua da far dire a Jacopo Devoto che la lingua di Roma è più mutata in quel periodo - periodo in cui eran Romani, non son stati dominati da nessun altro popolo - molto più cambiata in quel piccolo periodo che da allora a oggi. Nel senso che un uomo di trecento anni avanti Cristo, duecento anni avanti Cristo, riuscirebbe, con un po’ di attenzione, a capire il nostro italiano. Mentre non avrebbe capito il suo antenato di trecento anni prima. Eppure c’è una continuità. Non si è spezzato questo nastro. Ora io non è che dica questo per dire “Figlioli cari, nos possumus equidem latina eloquia possumus autem italicae colloquiare”. No, non è questa la cosa importante. Quello che è importante è il fatto che quello che conta della romanità è il suo spirito. E soprattutto quello che conta per noi è quello di ritrovare quel filo occulto che ci permette di collegarci con gli autori della nostra civiltà. Indipendentemente se noi, poi, personalmente siamo Longobardi di origine, o Goti o quello che sia. L’essere romano significa essere una razza spirituale. È un atto dello spirito l’essere romano. Un atto dello spirito che, poi, scendendo nella profondità, ne permea l’anima. Dal nous, dallo spiritus si scende nell’anima e dall’anima foggia anche il corpo.

    È che, a un certo momento, in seguito, proprio, a uno di quei mutamenti, che sono mutamenti storici, politici, razziali e talvolta addirittura climatici, a un certo momento c’è stato un grande rimescolamento in una zona del Mediterraneo, la zona orientale, che si è configurato praticamente nelle successive distruzioni della città di Troia. E il crollo, o meglio detto, proprio, la frana di questa civiltà antica che veniva sopraffatta da un’altra civiltà indoeuropea che era la civiltà greca. La civiltà greca ancora a livello puramente barbarico. I greci venivano dal nord, stavano completamente nudi, o seminudi, e deridevano i Traci e i Frigi, come li chiamavano madentes myrrae, che gocciolavano di mirra, portavano le brache e la tunica dipinta in testa. E questo crollo ha portato una risonanza. Una risonanza che è giunta fino alle nostre coste. Ora molti possono dire “È una semplice leggenda, è una favola. Il popolo latino, il popolo romano si son formati naturalmente per commistioni, per ragioni economiche, e via discorrendo”. Quindi le ragioni cosiddette naturali. Però vi dico una cosa: la natura è la linea orizzontale, l’uomo è una linea verticale. Che noi siamo cresciuti su questo terreno di cultura è anche ammissibile. Però l’orientamento della romanità è una cosa totalmente differente, perché l’orientamento dell’uomo romano era un orientamento volto a consacrare in primo luogo lo spazio dove viveva; i rapporti sociali con i suoi con-Romani, gli altri Quiriti; e soprattutto essere in rapporto costante con gli Dèi dell’Alto e gli Dèi del Basso.

    Però il simbolo è qualcosa di più. Il simbolo è praticamente il risvegliatore di una potenza magica. I Romani si sentivano in quel momento, il ponte era chiuso, le porte della città erano chiuse, i Romani si sentivano tutti conclusi come se fosse una cerchia magica. Loro evocavano il potere primordiale della stirpe, il quale avrebbe indicato loro che cosa dovevano fare.

    Quando il romano antico guardava il cielo distingueva la sinistra dalla destra, il sud, il nord, l’est, l’ovest eccetera, ma lo fa con un atto sacro, che è un atto magico. C’è praticamente una adeguatio animi ad re. Vi è lo spirito interiore che si plasma e si modella al mondo che ha attorno. E quindi questo mondo viene a far parte di Sé medesimo. Chiunque di noi che sia salito sul Palatino o sia andato sulle nostre montagne tante volte avrà avuto il senso del suo rapporto profondo con lo spirito dei luoghi. E lo spirito dei luoghi è anche semplicemente quello di un piccolo ruscello che corre giù per le montagne. E noi sentiamo talvolta che questa terra nella quale riposano i nostri antenati, sulla quale si ergono gli edifici fatti da essi - pensate all’Istria alla Dalmazia, che sono le più belle regioni del Mediterraneo, con tutti quegli edifici ormai diventati inutili a cui vorremmo ridare voce - noi sentiamo che la loro esteriorità fa parte della nostra interiorità.

    Noi abbiamo allora la immagine del rex in cui i poteri civili, militari erano congiunti, che era il rappresentante di tutto questo popolo non sorto naturaliter da una razza animale bensì sorto per un foedus, unito, proprio fatto assieme, riunito per una parola di fedeltà data l’uno all’altro, il quale determina lo spazio nel quale si trova. Questo è la cosa meravigliosa dei Romani: il fatto che i Romani conquistassero il mondo determinando e denominando i paesi che andavano conquistando. Io mi ricordo che una volta ebbi una lunga conversazione con un latinista emerito, il quale si dilettava naturalmente anche di storia romana, ed egli mi disse: “Ma non trovi straordinario che quando i Romani arrivarono, per modo di dire, a Vetralla, contemporaneamente arrivavano ad Anzio. Quando arrivarono, secoli dopo, in Spagna contemporaneamente occupavano la Dalmazia. Quando scesero giù nell’Africa pingitana contemporaneamente occupavano l’Asia Minore”. C’è questa crescita naturale che indica una capacità di intuire lo spazio. Perché insomma coloro che decidevano tutte queste belle cose, fino ed escluso il tempo delle guerre civili ulteriori, erano dei gruppi di robusti contadini con i calli alle mani ed ai piedi, della gente robusta, dura che sapeva molto bene zappare la terra e farla zappare ai proprio schiavi, mangiava delle cose che facevano ridere i Greci, che era della gente piuttosto rozza, semplice e primitiva la quale però aveva il senso della propria presenza, della propria potenza, ed aveva il senso della Terra.

    Cioè vi è sempre stato per il romano un rapporto fra quella che è la Terra, le potenze ctonie, e il mondo celeste. Vi è sempre stato questo rapporto. Per cui noi vediamo delle figure di uomini che non riusciamo assolutamente a comprendere come non morissero di disperazione come, non so, quando furono assediati in Armenia - al tempo di Coubuloni, di Cesenio Teto - furono assediati da Armeni che improvvisamente avevano cambiato opinione e parere e in più Persiani di ogni genere e colori, i Parti, questa gente non si sono assolutamente persi d’animo. Quante volte durante le campagne delle Gallie sono stati sul punto di perdere tutto. Giulio Cesare disse addirittura che se Vercingetorige non fosse uscito quel giorno, il giorno dopo i Romani si sarebbero dovuti ritirare. Ora, considerate che ogni uomo romano portava sulle sue spalle, oltre ai vectigalia e le cose per mangiare, quattro o cinque pali semplicemente per fare lo steccato la sera. Perché quando calava il sole i Romani ricostruivano fisicamente una fortezza. Ma questo non era tanto per pararsi da attacchi improvvisi, quanto per possedere il terreno e consacrarlo. Il piantare un palo, l’impiantamento, come si dice in latino?, pactio, proprio pactio, come pactus, cos’era? Il rapporto che io ho con gli altri e con gli Dèi. Quindi la fides, poi con il mondo degli Dèi. Nel campo degli uomini quello che domina è lo ius, nel campo degli Dèi ciò che domina è il fas. Sono i due piani, il piano terrestre e il piano celeste. Ora, quello che realmente, su cui conviene riflettere, è questo senso profondo di interiorizzazione dell’ambiente e allo stesso tempo di proiezione della propria interiorità sul luogo dove ci si trova.


    La Roma antica e la natura dell’essere romano non nasce dalla natura animale: è stato un atto di volontà. Un atto di volontà che è stato consacrato da due atti: un atto giuridico per cui gli uomini si son dati reciprocamente la fides e un atto sacrale che era la pax deorum. Pax in latino non significa la “pace” e tantomeno significa l’ipocrita anglosassone peace, invocato dai vari tiranni che vanno dall’India fino al cuore dell’Africa. La “pace” significa un’altra cosa: lo “stare in rapporto con gli Dèi”, la pax deorum.

    Io non è che qui vengo a fare - vedete che non sono rivestito della porpora, nulla del genere - un’apologia di un periodo che, in quella forma, era finito. Che fosse bene o fosse male in quella forma era finito. Io non sto neppure a strologare sul fatto che Romolo abbia fatto bene o male ad ammazzare suo fratello Remo. Però il fatto è avvenuto. E il fatto ha rappresentato una categoria fondamentale a cui i Romani hanno obbedito fino ad Alarico, fino al saccheggio di Roma. Cioè che nel pomerio nessun uomo potesse né costruire né metterci i piedi sopra. Il saltare sul fosso è un atto di dichiarazione di guerra. Non contro i Romani ma contro gli Dèi.

    Ora, è questo: conviene ricordare che se noi abbiamo un particolare destino di essere nati sul finire di questo secolo e vivere queste esperienze in questo particolare popolo, con questa particolare abitudine, dall’abitudine del vestirsi e del mangiare fino a quelle più spirituali, questo non è un caso. È veramente una electio deorum. Sono gli Dèi che ci hanno spinto a nascere in questo momento in questa cultura e in questo popolo. E dobbiamo, in un certo modo, restituire a Loro la grazia che Essi ci hanno dato. È necessario far rinascere la nostra razza, perché la nostra razza è stata sovente confusa con una razza animale. Noi non siamo degli animali. E anche se avessimo il volto di pellirossa o di persiani o di polinesiani, noi siamo Romani, perché abbiamo, prima di nascere, eletto di essere Romani. Altrimenti non saremmo nati Romani. E anche non parlo di Roma come città, ma dico Roma come realtà spirituale. Ora riconoscere questo implica tre ordini di doveri.
    Costantemente mantenersi presenti dentro la propria pelle, esercitarsi, avere una condotta particolare, disprezzare il facile comodo, disprezzare l’inutile lusso, essere uomini raffinati, ma essere uomini fermi. Mantenere la fedeltà della parola. E nel fisico esercitarci a combattere.

    Cioè fondate, fatevi una cultura solida, che non sia una cultura puramente, così, trasmessa, una cultura solida. Una cultura che vi permette di essere dei capi. Se ci sono dieci uomini e uno di voi sta in mezzo, egli è il capo. E allo stesso tempo forgiatevi il vostro corpo. Pensate a magnis itineribus, i militi romani che raggiunsero in dodici giorni il lago di Ginevra. Marciando. Ricordate che i Romani portavano sessanta chili sulla schiena.

    Consideratevi un gruppo di ufficiali, di giovani ufficiali, perché voi siete questo. Questo è quello che può far rinascere un germe in questa nazione. Questa nazione è quello che è. È un coacervo di debolezze e di forze. Quando si mettono tre pali assieme che sono forze, allora si può costruire un Colosseo. Quello che è importante è far nascere Roma entro l’Italia. Ora, spesso la nascita e lo sviluppo di Roma entro l’Italia significò la distruzione dell’Italia. Ma vale la pena di distruggerla se costruiamo qualcosa che regga i secoli?
    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

  4. #4
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    Predefinito Rif: Onore eterno!

    Fu un vero aristocratico che mai si tirò indietro di fronte alle intemperie politiche del suo tempo.
    Onore eterno a questo grande uomo, uno degli ultimi patrizi romani che merita di essere preso ad esempio dalle future generazioni.
    Uomo di infinita cultura, anticomunista di ferro, combattente coraggioso.



    Presente!

  5. #5
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    Predefinito Rif: Onore eterno!

    onore massimo
    ieri in piedi tra le rovine, oggi forte e degno nei campi elisi
    «Puoi togliere il selvaggio dalla foresta, ma non puoi togliere la foresta dal selvaggio.»
    Paolo Sizzi

  6. #6
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  7. #7
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    Predefinito Rif: Onore eterno!



    Onore a lui.

  8. #8
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  9. #9
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    Predefinito Rif: Onore eterno!

    Intervista al prof Pio Filippani Ronconi.
    Caballero en un caballo - y en su mano un gavilán"

    Erano mesi che lo inseguivo. Non perché scappasse, ma la salute, ultimamente, lo aveva un po’ maltrattato, affaticandolo. Ho aspettato, e alla fine, eccolo qua: Pio Filippani Ronconi, classe 1920, è uno dei più grandi orientalisti viventi e professore emerito dell'università orientale di Napoli. Per elencare i suoi titoli e i suoi meriti avrei bisogno di un foglio allegato. Ma devo aggiungere che, in ogni caso, è arduo mettere su carta una delle qualità più nette di Pio Filippani Ronconi, la presenza, e di ancora più ardua resa è la chiarezza dei suoi silenzi. Ma proverò a raccontarvi tutto. Filippani è una delle ultime memorie storiche (e sapienziali) delle destre italiane: diversi autori che molti di noi amano leggere, lui li ha conosciuti e ne è stato amico (come Evola, ad esempio, o anche Massimo Scaligero, con il quale Filippani si esercitava nella meditazione: "Era un cammino molto placido, il suo. Conobbi anche il maestro di Scaligero, Egidio Colazza… Fu molto gentile con me, che al contrario ero poco propenso alla placidità, in quel tempo").
    La sua partecipazione alla guerra con la divisa tedesca non gli procurò problemi a guerra finita - a parte gli arresti di fortezza ("molto poco romantici!") e il "parcheggio" nel campo di concentramento di Coltano - tanto da poter avviare, nel 1959, una carriera accademica di tutto rispetto all’Istituto orientale dell’Università di Napoli. Poco tempo fa, invece, chiamato a collaborare al Corriere della Sera, in qualità di illustre orientalista, ha dovuto subire un’epurazione ad opera del komintern di redazione, con il quale non ha voluto polemizzare ("L’acqua bagna, il fuoco brucia: è il dharma, come lo chiamano gli indiani… sarebbe a dire che ognuno fa le cose con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che inzaccherarti"). Certe miserie sembrano scivolargli addosso, come si suol dire: ma il bello è che nel suo caso è tutt’altro che un luogo comune.

    Da dove è cominciato tutto? Cos’è che porta ancora dentro dell’inizio del cammino?

    "Senz’altro i racconti della vita di mio padre… Ecco, vede?" dice indicando una vecchia fotografia appesa al muro dietro di noi, che prende luce dagli ampi viali dell’Eur, "mio padre è quel signore a cavallo. Il luogo dove si trova è la Patagonia. Aveva venduto i beni di famiglia per andare in quella terra sperduta. Portava il bestiame dall’Atlantico al Pacifico, a cavallo. La sua vita stessa era un’avventura da raccontare… Un giorno, aveva appena depositato i soldi incassati dalla vendita di una mandria che aveva portato valicando le Ande, quando i banditi assaltarono la banca, rubando tutto. Lui inseguì il "mucchio selvaggio" per tre giorni e tre notti".


    Come Tex Willer!Un Tex Willer con la laurea in Ingegneria. Mio padre rappresentava per noi un polo di grande attrazione. Era un uomo che non si limitava ad insegnarci… che so… l’importanza dell’acqua, ma, anche per la vita che conducevamo, ci mostrava la necessità di raggiungerla anche nelle condizioni più difficili, come quella volta che dovette scavare un pozzo profondo ottantaquattro metri. E i suoi racconti, i racconti di famiglia, sono stati fondamentali per noi, bambini italiani lontani dall’Italia.


    Perché fondamentali?

    Perché mentre in patria si è omogenei all’elemento vitale in cui si procede, all’estero avevamo, come dire, una doppia o tripla esistenza. Io son vissuto in Catalogna, e nella vita quotidiana ci trovavamo in un ambiente che da una parte era spagnolo, e già non era il nostro, dall’altra, essendo in terra catalana, si odiavano gli spagnoli, e noi parlavamo il castigliano. E siccome la mia famiglia abitava in un palazzo di sette, otto piani, quindi molto moderno, ero letteralmente circondato da gente che parlava una lingua diversa da quella in cui io pensavo.


    In italiano?
    No, in castigliano.


    I primi libri?
    Cominciai a leggere molto presto. Amavo i racconti sul mondo mitico romano: erano, come dire, un’ancora di salvezza del nostro costume di vita. Ma il nutrimento della mia anima erano le gesta del Cid Campeador, che corrispondevano in tutto e per tutto all’insegnamento silenzioso di mio padre: io sentivo di dovermi comportare come un caballero. Fortunatamente ero nato in un ambiente non confortevole che mi consentiva di temprarmi. Mio padre mi aveva insegnato i principi della boxe… e anche mio figlio ora si diletta in quest’arte… ma nei miei tempi, e nei luoghi dove vivevo, il picchiare forte e picchiare per primo era assolutamente indispensabile, perché se no il giorno dopo mi sarei trovato altri quattro ragazzotti che mi avrebbero riempito di pugni. E in ogni caso ne andava dell'onore italiano!

    Un italiano nato in Spagna, con il padre passato da Inghilterra, Carabi e Patagonia. Non era facile conservare chiarezza sulle proprie radici…

    Non solo! Mia madre aveva iniziato la sua adolescenza a Massaua, dove il padre, mio nonno, lavorava presso il governo militare italiano: lui parlava perfettamente l’arabo classico e l’arabo comune. Non per niente, la prima lingua che ho imparato fuori della scuola, oltre all’inglese, è stato l’arabo.

    A che età?

    Quattordici anni. Eravamo poveri, così avevo risparmiato per un anno gli spiccioli per le piccole merende che portavo a scuola. Alla fine comprai finalmente una malridotta grammatica araba, che però non era quella giusta, era un dialetto parlato dai berberi: mio nonno mi indirizzò poi verso l’arabo puro. Subito dopo imparai il turco e più tardi, già in Italia, imparai il persiano… Ecco, vede? [indica un’altra foto, su una cassettiera] là sto conversando con lo Sha di Persia.

    Aveva una certa facilità con le lingue.
    Ma non era mica tanto facile! E’ che mi ci mettevo di buzzo buono! La mia giornata era divisa in due parti: la prima era impiegata a seguire la scuola… e non ero un bravo allievo, ero piuttosto sognante, mentre la scuola italiana era estremamente dura: studiavamo lo spagnolo, l’italiano, il francese, l’inglese… tutti i giorni avevamo molto da studiare, molto da fare ginnastica, corsa e altre cose del genere. Nella seconda parte studiavo da solo quel che piaceva a me. Anche il greco lo imparai da solo, come il turco e lo spagnolo antico. Una mia zia mi regalò poi una grammatica sanscrita, un dono preziosissimo; io avevo già studiato, sempre da solo, quelle che erano le migrazioni dei popoli arii, quindi il portato culturale delle varie tradizioni indoeuropee, come l’Edda poetica e in prosa e il sanscrito, mi consentì di approfondire quelle conoscenze. Molti anni più tardi imparai un’altra lingua scandinava, lo svedese, ma avevo già studiato l’antico norvegese, il norreno… Poi, vediamo… l’anglosassone, l’aramaico (ma non sono mai riuscito a togliermi quel fastidioso accento arabo), il tibetano, il cinese, un po’ il giapponese…

    Prendiamo per buono il buzzo buono…
    E’ che non si può galleggiare su quello che ci insegnano: bisogna approfondire!

    Tornando alla difficoltà di conservare le proprie radici in una babele simile…
    Vede, per me l’Italia era… come dire… il Paese Fatato. Eravamo poveri, dicevo, perché scontavamo la scelta di mio padre di tornare dalla Patagonia per combattere: perdette tutto quello che aveva. Lui sapeva quello che rischiava lasciando i suoi animali dall’altra parte del mondo, ma la sua risposta, alle nostre domande se non fosse cosciente di quello che avrebbe rischiato venendo in Italia, lui tranquillamente rispose che "siccome noi siamo signori, dobbiamo combattere e dobbiamo essere di esempio agli altri". C’era il mito della Patria, insomma, ma una patria estremamente spirituale, per cui il non esserle vicino fisicamente non rappresentava alcuna limitazione.

    Suo padre come il Cid.

    Il mio mondo iniziava con il Cid Campeador, visto che lo avevo tra i piedi: era un’immagine di coraggio. Avevo una vita intima in profondo contrasto con la povertà che dovevo assaporare… una vita che guardava ad un futuro eroico. Quando io partii per la seconda volta in guerra, da giovane ufficiale, mi affacciai al finestrino del treno e gridai Viva la muerte! Perché la bella morte era quel che di meglio potesse capitare per difendere la Patria… ciò per cui vale la pena di vivere: un uomo si educa per allevare i figli e per combattere, questo avevo sempre pensato fin da bambino, ascoltando i racconti di mio padre e Il cantar del mio Cid.

    Il combattimento, insomma, nel Dna.

    Ma la guerra è una delle funzioni umane! Nei tempi antichi si soleva dire che le dame odiano la guerra, ma amano gli uomini che la fanno.

    E le popolane dicevano che "si nun è bbono per il re, nun è bbono manco pe’ la reggina".

    Appunto. Inoltre a quindici anni trovai in una bancarella L’uomo come potenza, di Julius Evola… Lui mi presentava un quadro per superare la miseria del sopravvivere quotidiano e dava un senso al fatto che io cercassi sempre di combattere… Dio!, sono molto cambiato da allora, eh? L’uomo come potenza, dicevo, mi apriva una concreta esperienza di ordine metafisico più che religioso, e così quei canti epici che tanto amavo acquistavano una dimensione reale: io potevo davvero realizzare quello che la tradizione indoeuropea mi proponeva. E questa fu per me una grande scoperta.

    La guerra fa parte dei racconti che ricorda da bambino?Certo. Fu l’esperienza di mio padre ad avvicinarmi a ciò che era la guerra. Lui era un pezzo d’uomo, molto forte… il contrario di me. Come dicevo, lasciò la Patagonia per combattere la Prima guerra mondiale, e si arruolò in un reparto qualunque. Poi, grazie alla sua prestanza fisica, venne assegnato ai "plotoni scudati", quelli che portavano un casco e uno scudo in acciaio per coprirsi, e andavano a mettere le cartucce di gelatina sotto i reticolati nemici. Era il racconto di un’esperienza concreta che ascoltavo con attenzione. Nella Seconda guerra mondiale venne il mio turno, e mi arruolai volontario nel Terzo Granatieri. Fui ferito un paio di volte, poi mi trovai ad essere molto malamente ferito il giorno dopo l’otto settembre 1943, ricoverato all’ospedale militare del Celio, a Roma. Il nove settembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso ed entusiasta; quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo.

    Ossia?

    Lavare l’onta del tradimento. Mi trovai a combattere a Nettuno, con la divisa della Waffen SS, i reparti combattenti, tutta un’altra cosa rispetto alla SS Polizei… quelli ci hanno rovinato il nome. Insomma, costituimmo una squadra mista, italiani e tedeschi. Quando ci fu lo sbarco alleato facevo parte del Battaglione degli Oddi, il conte Carlo Federico degli Oddi, un vecchio ufficiale delle camicie nere, tenente colonnello. Al tramonto andavo con alcuni uomini a tagliare i reticolati e passarci sotto… Era un’esperienza molto bella, anche se il fatto di lasciarci la pelle era fatale. Oggi sono l’ultimo sopravvissuto di quel battaglione, l’ultimo di quei settecento: il settanta per cento morirono a Nettuno. Era un compito duro, non pensavamo alla gloria… era la gioia di vivere davvero, malgrado rischiassimo la morte.

    Una fratellanza d’armi.

    Precisamente. Una cosa molto profonda, che mi riportava al cuore le emozioni vissute sulle pagine lette da ragazzino. E’ ancora il Cid Campeador, che… [silenzio, chiude gli occhi, poi ritorna con un sorriso] "Caballero en un caballo - y en su mano un gavilán; por hacerme más enojo - cébalo en mi palomar; con sangre de mis palomas - ensangentó mi brial. ¡Hacedme, buen rey justicia, - no me la queráis negar! Rey que non face justicia - non debía de reinar…" [poi si ferma di nuovo e chiude gli occhi, scuote la testa e li riapre, guardandomi]… Che peccato, dimentico più di quel che riesco a ricordare…

    E’ sempre molto di più di quel che sappiamo noi (dico sorridendo a Rodrigo, suo figlio, seduto accanto a me).

    Non è una consolazione, ma tant’è.

    In guerra è riuscito a continuare i suoi studi, in qualche modo?

    Altro che in qualche modo! Riuscivo a concentrarmi dovunque. Tanto per farle capire, una volta, in Africa orientale, uscito in missione per misurare la posizione delle batterie inglesi, mi immersi con tanto piacere nei calcoli riportati sulla pagina scritta che dimenticai di trovarmi a pochi metri dai nemici e mi misi a camminare senza precauzioni: fecero il tiro al bersaglio, fortunatamente senza conseguenze. In seguito, la vicinanza con i tedeschi mi ha permesso d’imparare la loro lingua, che mi è tornata molto utile nel corso degli studi. Seguendo una mia via, poi, senza quasi rendermene conto ho intrapreso la carriera accademica, fino a diventare professore ordinario di Religioni e filosofie dell’India. Il fatto è che avevo un’ottima memoria… E sottolineo la forma passata del verbo avere.

    Laurea in…

    Indologia, tornando al vecchio amore. Subito dopo la laurea andai in Persia.

    Ma il fatto di aver continuato la guerra nella Repubblica sociale, inquadrato nelle SS combattenti, le creava problemi nei rapporti con gli altri studenti e con i professori?

    No. Anche per il fatto molto semplice che non frequentavo molto, ero solitario. Quasi tutte le lingue da studiare, ad esempio, le avevo già imparate da solo, quindi non avevo bisogno di seguire le lezioni.

    E con il lavoro?

    Nemmeno. Avendo la fortuna di conoscere molte lingue riuscivo a guadagnare facendo, ad esempio, un periodo da segretario ad un ministro sudamericano, poi doppiaggi cinematografici e, un po’ più a lungo, alla radiodiffusione per gli Esteri.

    Nel frattempo lavorava su se stesso.

    Sì, in ogni senso, non solo spirituale o mentale. Mio padre mi aveva insegnato i primi rudimenti del pugilato, che lui aveva imparato quando era studente a Londra, e quando ero arrivato a Roma, a sedici anni, ero passato nelle mani di Enzo Fiermonte.

    Un mito per il pugilato romano.

    Ho praticato anche Judo, Aikido… tra l’altro, poco tempo fa, ho guadagnato la cintura nera…

    A quanti anni?

    Ottantadue. E la cintura nera è, in qualche modo, simbolo di una iniziazione. Nel senso che io resto il solito quotidiano imbecille, però dentro di me ho altre esperienze di genere più… più concreto.

    Alcuni anni dopo la fine della guerra ha anche fondato l’Urri, acronimo di Unione rinnovamento ragazzi d’Italia.

    Sì. E l’ho mantenuto. Un impegno forte. Le domeniche le passavamo in montagna, tra escursioni, corsi di alpinismo. La montagna è maestra, e chi sale con te deve essere tuo fratello, perché la sfida alla natura è senza mezze misure o infingimenti: se sbagli paghi. I ragazzi venivano preparati anche in speleologia e archeologia; molti diventarono parà. Un gruppo di ragazzi in gamba, che preparavo anche alla meditazione profonda. Ma che tenni lontani dalle beghe politiche.

    Da cosa era mosso?
    Dalla necessità di riscrivere il mondo, cominciando da me stesso. Cercavo di mettere le mie deboli forze sotto i piedi, perché o si vive o si muore, ma se si vive bisogna darsi un po’ da fare. Esercitarsi col fisico, esercitarsi con la mente, esercitarsi con lo spirito.

    L’Urri riassumeva le due linee guida della sua vita: lo studio e il combattimento.
    Certo, perché a quel tempo era ancora palpabile il rischio di uno scontro fra i due blocchi nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e la preparazione spirituale doveva andare di pari passo con quella fisica… come peraltro insegnavano i romani. Ma "Urri" non è soltanto una sigla, è soprattutto un termine vedico che indica il dio che sopravvive al tramonto degli dèi. Mi ispirai a questa figura: esser capace di fare qualsiasi cosa. Un po’ in contrasto con questo vecchio malandato che le sta parlando!

    Le pesa la vecchiaia?

    Bah, non me ne importa un fico secco, anche se dimentico molte cose. Ho avuto la possibilità di vivere la poesia, nel senso greco di poiesis, la bellezza di esprimere me stesso in quella che era la vita di un caballero. Ma sono passato attraverso queste esperienze come… come un divertimento
    Gli Arya seggono ancora al picco dell'avvoltoio.

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    Non so a voi ma a me è dispiaciuto assai di questa grave perdita..

 

 
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