Repubblica e democrazia: un mito
per ciechi e sordi
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da: http://www.geopolitica.info/
PRIMO PIANO - Dall’Algeria all’Afghanistan problemi di democrazia
Sempre più analisti concordano nell’affermare come la volontà di esportare la democrazia nei Paesi in via di sviluppo, con maggiore o minore intensità, non abbia prodotto i frutti sperati, sia al livello politico che sociale. Si è spesso paragonata la democrazia ad un “abito” che Europa e Stati Uniti hanno confezionato e voluto far indossare alle Nazioni diventate indipendenti a seguito del disfacimento degli imperi coloniali dopo la seconda guerra mondiale. Ma ci si è resi conto che questo non sempre calza, soprattutto quando si parla di Medio Oriente (allargato anche al Nord Africa).
Lo confermano le vicende di Stati che hanno dovuto affrontare periodi di guerra civile, come l’Algeria o lo Yemen unito (nel 1994) o come, più recentemente, l’Iraq o l’Afghanistan nella fase immediatamente successiva ai conflitti scatenati da missioni internazionali. Benché occorra tener presente che l’ex-patria dei talebani rappresenta, nella regione, un caso a sé per la natura della società che la compone, organizzata in gruppi tribali.
A quasi mezzo secolo dalla decolonizzazione la costruzione di uno “Stato democratico” (così come inteso dalle potenze occidentali) si può dire che, se non completamente fallita, ha dato vita ad una particolare forma di gestione del potere: la repubblica a vita o la repubblica ereditaria. L’ultima conferma arriva dalle elezioni presidenziali nello Yemen dello scorso 20 settembre, che hanno visto riconfermare Alì Abdallah Saleh.
Esaminando le vicende delle singole Nazioni, il cammino verso la democrazia, in questo angolo del globo, risulta più agevole negli Stati monarchici che non in quelli repubblicani.
Le Monarchie stanno tentando di aprirsi a forme democratiche soprattutto grazie alla volontà dei loro sovrani che aspirano a presentarsi non più come regnanti dal potere assoluto e illimitato, bensì come guide illuminate che accompagnano i proprio popolo verso il benessere e lo sviluppo. E’ il caso di Marocco, Giordania e Oman, che confermano, attraverso un seppur lento cammino di sviluppo sia economico che sociale, la loro intenzione a realizzare una forma statuale che sia quanto più possibile democratica. Per le piccole Monarchie del Golfo (Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Qatar) si stanno facendo altrettanti piccoli, ma molti significativi, passi in avanti, cercando di sfruttare l’onda lunga della ricchezza fornita dal petrolio per avviare un processo di riforme non solo politiche, ma anche sociali. Il Monarca è colui che, pur detenendo ancora un potere decisionale assoluto, funge da garante dell’alternarsi delle diverse correnti politiche presenti nel Paese e votate dal popolo. La culla dell’Islam ultraortodosso wahabita, l’Arabia Saudita, rimane, al contrario, molto lontana dall’obiettivo di raggiungimento di qualche forma democrazia compiuta. Riyadh è accusata di ignorare i più elementari diritti umani, in particolare per quanto riguarda le donne e le minoranze religiose.
Diversa è la situazione delle repubbliche che presentano, in generale, le stesse caratteristiche, anche se con specifiche peculiarità. Si tratta di casi particolari: il Libano, per il suo multiconfessionalismo regolamentato persino dalla Carta Costituzionale, e la Repubblica Islamica dell’Iran, in quanto Stato confessionale a maggioranza sciita. A partire dalla fine del colonialismo Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Iraq e Yemen hanno assistito all’emergere di un’identica forma statuale, incentrata sul mito della personalità di un padre della Patria. Più che di oligarchia, quindi, sarebbe meglio parlare di potere individuale e personale, dove la componente carismatica è fondamentale e la vita stessa del presidente sembra coincidere con quella della Repubblica. Nasser, Gheddafi, Bourguiba, Assad, Saddam Hussein sono tutti leader dalla fortissima personalità, capace di far presa sulla gente non solo con la forza, ma anche con quell’aurea e quella presenza che gli hanno permesso di rimanere in carica per decenni. Quanto sarebbe rimasto al potere Gamal Abdel Nasser, padre dell’Egitto moderno, se non fosse morto d’infarto nel 1970? Lo stessa domanda la si potrebbe fare su Saddam Hussein, se non fossero intervenuti gli eserciti statunitensi e britannici. Ricordiamo anche la Repubblica di Turchia di Kemal Ataturk, pur trattandosi di uno Stato non arabo per lingua, razza, cultura e tradizioni. Altre tre caratteristiche accomunano le repubbliche mediorientali. La prima è il peso decisivo e fortissimo dell’esercito per la presa e il mantenimento del potere. Nasser un ufficiale, Gheddafi un colonnello, Ataturk e Saleh generali. In Siria politici e militari appartengono entrambi alla stessa minoranza sciita, quella degli alawiti. Le forze armate, pertanto, rappresentano il terreno privilegiato di provenienza della classe dirigenziale di queste Nazioni.
Il secondo aspetto comune è dato dalla modalità di successione del potere, che non avviene tramite libere elezioni ma per ereditarietà. Le votazioni, infatti, rappresentano soltanto la conferma, schiacciante e scontata, che il leader ottiene dalla propria popolazione. Multipartitismo e opposizione politica, nella pratica della dialettica politica, è come se non esistessero. Un dato è significativo e rende chiaramente l’idea dell’attività che riescono a portare avanti i partiti di minoranza. Le percentuali con cui il presidente di turno viene confermato alla guida del proprio Paese: superano sempre l’80%, livello di consenso con cui è stato riconfermato Saleh, fino ad arrivare all’88% di Mubarak nelle presidenziali egiziane del settembre 2005. Un numero talmente schiacciante che di per sé indica la scarsa democraticità dell’evento elettorale.
Trasformate le votazioni in una pura formalità, l’effettiva attribuzione del potere politico avviene per un passaggio di consegne ereditario come accade in una monarchia.
In Sira, nel 2000, Bashar è succeduto al padre Hafiz al-Assad, mentre è sempre più chiaro che Gamal prenderà in mano le redini dell’Egitto direttamente dal padre Hosni Mubarak. Anche la Libia sembra voler seguire questa tendenza e come futuro leader è stato designato, già da tempo, il primogenito del colonnello, Saif al-Islam Gheddafi. Anche l’Iraq di Saddam Hussein avrebbe avuto lo stesso destino. In questo caso, però, sarebbe stata assai probabile un’accanita lotta interna tra i due figli, Uday e Qusay.
Ma l’ereditarietà non è solo biologica ma anche acquisita e per investitura. E’ il caso della Tunisia, dove, nel 1987, l’attuale presidente Zine El Abidine Ben Alì depone, per senilità, il proprio maestro Bourguiba. Quest’ultimo aveva già esplicitamente segnalato lo stesso Ben Ali quale suo naturale erede alla guida del Paese. Lo stesso percorso è stato seguito nell’Egitto del passato. Nel 1970 a Nasser succedette un altro degli “ufficiali liberi” e suo vice-presidente, Anwar al-Sadat. Nel 1981, a seguito dell’attento che uccise quest’ultimo, prese automaticamente il comando il vice-presidente in carica, Mubarak.
L’ultimo tratto comune è quello che maggiormente può trarre in inganno. Dietro le espressioni “riforma costituzionale”, “revisione della legge elettorale” o “necessità di nuove normative in ambito economico e sociale” si nasconde la volontà di non lasciare il potere, ponendo le basi a vere e proprie dittature.
In Tunisia la riforma costituzionale, approvata con referendum confermativo nel maggio del 2002, ha consentito a Ben Alì di innalzare il livello di età per l’elezione alla carica di presidente della Repubblica, portandolo da 70 a 75 anni, e di abrogare il limite massimo di mandati rielettivi, che ammontava a tre. In poche parole la nuova legge tunisina fornisce il lasciapassare giuridico alla presidenza a vita.
Allo stesso tipo di riforma sta lavorando l’Algeria di Bouteflika, dove il primo ministro Belkhaden è stato nominato nel maggio di quest’anno affinché il suo esecutivo prepari una riforma costituzionale che conferisca al Presidente della Repubblica più forti e ampi poteri. Come nel caso della vicina Tunisia, anche Bouteflika mira ad innalzare l’età per l’elezione alla carica presidenziale e abrogazione il numero di mandati rielettivi.
In Egitto e nello Yemen, al contrario, Mubarak e Saleh hanno più volte dichiarato che un sistema politico più democratico sarà possibile quando i tempi saranno maturi e solo dopo le riforme economiche e sociali prioritarie e necessarie. La volontà di portare avanti lo sviluppo socio-economico della Nazione diventa, paradossalmente, un ostacolo e non un incentivo all’affermazione della democrazia. Troppo spesso la carica di presidente della Repubblica, in Medio Oriente, arriva ad avere una durata degna di quella di un re.
In Libia il mandato di Gheddafi è il più lungo: il colonnello è al potere dal 1969. L’Egitto è guidato da Mubarak dal 1980 e la Tunisia da Ben Alì dal 1987. Quasi trent’anni per il primo, praticamente venti per il secondo. Ma c’è un politico arabo che si identifica completamente con la nascita della propria Nazione: Alì Abdallah Saleh. È il primo e, finora, unico presidente della Repubblica dello Yemen a partire dalla sua unificazione, il 22 maggio 1990. Saleh, generale dell’esercito come Ataturk e appartenente alla minoranza degli sciiti zayditi, dal 1978 al 1990 è stato presidente della Repubblica Araba dello Yemen (Yemen del Nord), in seguito unitasi alla Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (Yemen del Sud). Dopo quella di Gheddafi la sua è la presidenza più lunga nella regione.
Simona Verrazzo
(4 dicembre 2006)