Era pure il tempo degli "anni formidabili", del Sessantotto e dintorni, delle occupazioni, delle uova alla Scala, delle "maggioranze silenziose", dell'eversione "nera" preludio agli anni di piombo, al terrorismo brigatista, ai grandi scandali Sindona, Banco Ambrosiano, Ior, alla mafia che s'insinua nella Milano della finanza. A Washington, l'Italia preoccupava fin troppo. I "falchi" dell'amministrazione Usa agitavano lo spettro di un governo di sinistra in un Paese strategicamente fondamentale per gli Stati Uniti, per via anche di numerose ed importanti basi militari. Le reti Stay Behind e la loggia P2 lavoravano nell'ombra e cercavano di pilotare l'opinione pubblica italiana contro le sinistre, contro i sindacati, contro il movimento studentesco. Lo scopo era quello di portare a Palazzo Chigi un governo autoritario ed anticomunista. La bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano fu il drammatico e traumatico pretesto per accusare gli estremisti di sinistra e in particolare gli anarchici (il caso Valpreda). Giuseppe Pinelli, arrestato, durante una pausa degli interrogatori, volò "accidentalmente" da una finestra del quarto piano, alla Questura centrale milanese. La sera del 20 dicembre, l'ambasciatore americano Arkley telegrafò a Washington: "Bisogna prepararsi ad uno scenario alla greca", fu il suo dispaccio riservato. Il riferimento era al golpe dei colonnelli, i quali, appoggiati dagli americani, si impossessarono del potere ad Atene. Ci sarebbero voluti altri vent'anni per conoscere l'implicazione della P2 nella vicenda.
Quel doloroso pomeriggio di trentacinque anni fa stavo camminando per corso Europa, dopo aver appena attraversato piazza Fontana, assieme a Beppe L.R., un compagno di facoltà (Scienze Politiche) della Statale, quando sentimmo la violentissima esplosione: "E' scoppiata una caldaia!", gridò qualcuno, l'idea di un attentato di quella portata, in pieno centro e in un luogo così affollato era ancora molto remota a quei tempi. Dove era successo, lo capimmo subito: perchè vedemmo tutti correre verso piazza Fontana. Ricordo il fumo che usciva dai finestroni e dal portone della Banca, lì ci passavo davanti almeno quattro volte al giorno, e la vedevo sempre affollata. C'era la vecchia abitudine - un paio di volte la settimana - di restare nel grande salone interno anche dopo l'orario di chiusura, a far contrattazioni, a discutere: la clientela era formata per lo più da agricoltori e mediatori della provincia. Così come non potrò mai più dimenticare il sangue che colava in largo e in lungo per tutto il marciapiede, fin sulla strada, a fiotti, a ruscelletti. E poi, i lamenti dei feriti, le grida concitate dei vigili urbani accorsi dalla vicinissima piazza Fontana che cercavano di far cordone per impedire alla folla di entrare, i tranvieri (lì c'era una sorta di capolinea) che sono stati tra i primissimi a portare soccorso, le sirene delle "pantere" e delle "gazzelle", l'arrivo dei trafelati cronisti (tra i quali l'amico Massimo Nava, allora lavorava per l'Avvenire, oggi è corrispondente del Corsera da Parigi), quello degli studenti capitanati da Mario Capanna, l'atmosfera plumbea di quel grigio dicembre, l'angoscia della gente. Era come se avessero colpito al cuore Milano: da quel venerdì pomeriggio, nulla fu più come prima.