Originariamente Scritto da
mustang
Nel caso di Luca Coscioni si parlò di “corpo contundente”. Non diversamente, nella vicenda di Piergiorgio Welby il dramma umano si fa ariete per sfondare le resistenze alla realizzazione di un intento politico.
Ha spiegato assai bene Eugenia Roccella come qui non sia in gioco l’entità delle sofferenze da risparmiare – ché questo sarebbe un discorso aperto e praticabile –, quanto l’obbiettivo di risparmiarle tutte in un colpo solo, mediante un atto di suicidio assistito. È un passo che muta radicalmente il ruolo del medico e della medicina; non più chiamati ad aiutare, assistere, accompagnare nel percorso della vita e nell’inevitabile declino verso il trapasso, ma anche a “decidere” se e quando si debba morire; a mettere in opera tale decisione, o addirittura a farsi semplici “esecutori” di una volontà di morte.
Non insisteremo sul fatto che è inaccettabile dedurre norme legislative (la liceità del suicidio assistito e programmato) da casi singoli, per quanto drammatici essi siano e per quanto meritino rispetto: soltanto un arrogante può giudicare con supponenza chi arrivi al punto di desiderare di morire.
Intendiamo soffermarci su un altro aspetto.
Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l’alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto.
Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento? Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere. Qual’è la differenza?
Abbiamo forse dimenticato che esistono dolori dell’anima che possono essere anche molto più devastanti e insopportabili dei dolori del corpo? E’ evidente che lo stiamo sempre più dimenticando, e stiamo riducendo la medicina a una pratica meramente materiale che non ha più nulla di umanistico e nel cui ambito il medico è una sorta di meccanico (con tutto il rispetto per i meccanici), e quindi anche esecutore di morte senza scrupoli (come un meccanico distrugge senza scrupoli un apparecchio inservibile). Il professor Severino dichiara che morire “senza soffrire” è un “diritto” e che debbono esistere strutture pubbliche che garantiscano questo diritto, in altre parole una medicina di stato preposta al suicidio assistito.
Egli è noto per predicare la tesi dell’invincibilità della scienza e della tecnologia. In tal modo rischia però di essere un “testimonial” triste di tale invincibilità: triste, perché questa invincibilità appare piuttosto come una sconfitta, essendo la scienza medica ridotta non a combattere il dolore attraverso la cura ma a vincerlo banalmente attraverso la soppressione della persona che ne è afflitta.
Il professor Severino non parla di aspirazione a morire (come a vivere, del resto) soffrendo il meno possibile, ma di “diritto” a morire “senza” soffrire.
Nella società tecnoscientifica semplificata in cui egli crede di vivere lo stato possiederebbe tramite la sua scienza medica il potere di sopprimere la sofferenza e non soffrire sarebbe quindi un diritto: come se la decisione di suicidarsi non comportasse un’atroce sofferenza psicologica e la decisione di aiutare qualcuno ad uccidersi non fosse un atto parimenti tormentoso (almeno si spera…). Ma quel che più conta è che la decisione di chi dovrebbe accogliere la richiesta di morire non ha nulla di oggettivo. In base a quale sistema di valori parametrici può decidersi obbiettivamente che la scelta di morire è giustificata?
Ciò è perfettamente possibile per una macchina: il tecnico mi dirà, anche quantificando la spesa della riparazione, se vale la pena inviare la mia auto allo sfasciacarrozze oppure no; e se dovrò farlo sarà senza scrupolo e dolore (a parte quello del portafoglio) e senza dolore della macchina. E questo per il semplice motivo che la macchina, a differenza di un essere umano, non ha alcun fine esistenziale, a parte quello che noi le conferiamo antropomorficamente inserendola nella nostra vita e nei nostri progetti. Per quanto Piergiorgio Welby stia soffrendo, la battaglia che egli sta conducendo – qualsiasi cosa se ne pensi – è chiaramente una fonte di vitalità per lui, qualcosa che da un “senso” al suo dolore. E, di certo, se tra un istante un’autorità decidesse che egli può farsi sopprimere a termini di legge, il contesto psicologico in cui egli dovrebbe prendere la sua decisione sarebbe profondamente diverso, certamente più intimo e non ci permettiamo neppure di tentare di immaginarlo. E’ quindi insensato e inaccettabile togliere la vita dal corso che è caratteristico della natura dell’uomo, e pretendere di assoggettarla a regolamentazioni analoghe a quelle della rottamazione delle macchine.
Giorgio Israel su il Foglio
saluti