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    Predefinito Compassione senza pietà

    Roma. Più che le dichiarazioni del mondo politico, a rinfocolare la battaglia radicale sul caso di Piergiorgio Welby “sono stati i sondaggi che indicano una volontà quasi generalizzata: il medico deve rispettare il volere del paziente”. Ne è convinto Marco Cappato, segretario dell’associazione Luca Coscioni, che ieri in via di Torre Argentina ha illustrato il percorso indicato dagli avvocati che permetterebbe “passi in avanti nella confusione positivamente generata dal caso Welby”. Tutto ruota intorno a una “non applicazione della legge attuale”, spiega al Foglio la nuova guida dei Radicali italiani, Rita Bernardini, convinta che il decreto in vigore contenga un ampio margine di ambiguità.
    Per questo ieri non si è parlato di eutanasia, per Welby –com’è stato fatto in passato nella sede storica dei radicali – ma di “un decreto scritto male” e in un certo senso frainteso dai medici.
    Cappato, secondo il quale basterebbe tracciare il confine di una legge poco chiara”, insieme con Bernardini chiede “una risposta urgente” sia alla magistratura sia al governo di Romano Prodi (con il quale i Radicali stanno portando avanti i colloqui per il rinnovo del comitato di Bioetica, vacante ormai da oltre sei mesi).
    Seguendo quello che Cappato definisce “un escamotage”, l’associazione Coscioni ha sponsorizzato il ricorso presentato al tribunale di Roma dai legali di Welby, fondato sull’ambiguità illustrata da Rita Bernardini con una sfumatura: “La legge avrebbe dovuto permettere al medico di assecondare la volontà del paziente, perché è in piena coscienza quando chiede la cessazione delle cure artificiali, ma non è più capace di decidere nel periodo che segue il distacco”, quando a scegliere finora è stato il medico. Cappato s’è rivolto anche al governo di Romano Prodi, proponendo un decreto legge alternativo in materia di trattamenti sanitari, autodeterminazione del malato e consenso informato – allegato a una lettera recapitata ieri al presidente del Consiglio e al ministro della Salute, Livia Turco – che autorizza il medico a interrompere le cure su richiesta del paziente.
    Il confine richiesto da Cappato in questa proposta c’è, perché essa vieterebbe di intervenire quando il paziente si trova in condizioni di fine vita qualora avesse preventivamente rinunciato a essere curato.
    Con Piergiorgio Welby adesso succede questo: potrebbe staccare il respiratore in modo cosciente, ma i medici sarebbero costretti a riattivarlo
    “immediatamente” per legge. Il 25 novembre scorso la struttura ospedaliera e il medico di Welby hanno rifiutato la richiesta di distacco del respiratore che lo tiene in vita. Proprio contro questa decisione è stato presentato un ricorso alla magistratura che chiede – se effettivamente il medico “è obbligato per legge a rispettare la volontà” – di rispettare la volontà del paziente anche quando non è più in grado di decidere, “perché ha già deciso prima”, spiega Cappato.
    Ma se fino a due giorni fa a suscitare la mobilitazione dei radicali era stato il diritto alla dolce morte – “forse per questo il mondo politico ha reagito agli appelli di Piero con una paura istintiva, cioè limitandosi a offrire solidarietà”, nota Cappato – il movente della “disobbedienza civile” che ha portato oltre 600 persone ad aderire allo sciopero della fame, tra i quali il ministro radicale Emma Bonino, è diventato ora per loro “il dovere di interrompere questa tortura”.

    Da il Foglio

    saluti

  2. #2
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    Predefinito

    Roma. Il corpo sofferente di Piergiorgio Welby, che ancora una volta, come fu per Luca Coscioni, diventa bandiera di una battaglia che si proclama di libertà, chiama a schierarsi senza mezze misure. E se due ministri rispondono “no all’eutanasia” (la titolare del dicastero della Salute, Livia Turco, che interviene a pagina III, e di quello della Famiglia, Rosy Bindi, convinta che “con la nostra legislazione non si possa invocare la sospensione delle cure e degli interventi nei confronti di Welby”), altrettanto netta è la posizione dell’associazione Scienza & Vita, nata dall’omonimo comitato che si è battuto con successo in difesa della legge 40 sulla procreazione assistita. Con una campagna d’informazione, regione per regione, ribadisce il suo no alla legalizzazione della “rinuncia anticipata a vivere”.
    Dal 28 novembre al 5 dicembre i comitati locali dell’associazione hanno organizzato cinquanta incontri in tutta Italia, da Trieste a Messina, nel corso dei quali è stato presentato un quaderno intitolato “Né accanimento, né eutanasia”.
    In esso si spiega perché l’eutanasia non è l’unica alternativa all’accanimento terapeutico, al contrario di ciò che i fautori della “dolce morte” insistono nel dire. Si nega, anche, che essa sia l’espressione di un “diritto alla libera autodeterminazione da parte del soggetto”. L’eutanasia è invece l’atto con cui un terzo “pone deliberatamente fine alla vita del malato, a prescindere dal modo con cui lo si fa e da chi ne fa richiesta”.
    Troppa la confusione, denuncia Scienza & Vita, su termini come accanimento terapeutico, cure palliative, testamento biologico.
    E troppo fuorviante l’onda emozionale provocata dalla vicenda Welby, mentre ci sarebbe bisogno di una riflessione serena per “valutare razionalmente una questione che può avere effetti devastanti sulla nostra società. Per quanto riguarda il caso di Piergiorgio Welby, riteniamo che la questione che lo riguarda sia stata impostata sin dall’inizio in modo sbagliato: creando un clima che oggettivamente è di disturbo a un corretto rapporto tra lui e i suoi medici e caricando sul paziente l’onere non solo della malattia, ma anche di divenire portabandiera di una causa, quella dell’eutanasia”.
    L’associazione deplora, quindi, “l’uso che si fa del caso Welby ai fini di strappare a un’opinione pubblica riottosa il consenso a legittimare l’eutanasia, attraverso l’oggettiva strumentalizzazione politica di un delicato e dolorosissimo caso umano”.
    Anche Medicina e Persona, “libera associazione fra operatori sanitari”, spiega in un comunicato che “la vera tragedia di Welby sta nello sguardo di morte, senza speranza, che i suoi amici hanno su di lui. Infatti, mentre la malattia, la sofferenza, il dolore fisico e psichico, affettivo, sono sempre in agguato per ciascuno di noi durante le tappe della vita – cioè sono inevitabili –c’è la possibilità per ogni uomo di vivere senza disperazione la propria condizione”. Una posizione analoga a quella di Alberto Fontana, presidente dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare (la malattia che ha immobilizzato Piergiorgio Welby), che sottolinea come vadano innanzitutto garantiti, “con una grande e vera riforma nazionale, i servizi essenziali a tutte le persone non autosufficienti”.

    Da il Foglio

    saluti

  3. #3
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    Predefinito La morte privata e quella pubblica di Welby sono due cose diverse

    La compassione senza pietà è una truffa.
    Anche se a predicarla siano Sofri, Bianchi, Veronesi, Welby o Pannella. Anche se a predicarla siano uomini di fede o atei secolaristi di vario conio e saio. Aiuterei chiunque mi sia caro e me lo chieda a morire sedato, opportunamente sedato per evitare la sofferenza fisica, ma esigo che la procedura legale mi resti contraria: lo aiuterei per compassione, questo chiunque che mi sarebbe caro per il solo fatto che me lo chiede, e mi prenderei per aiutarlo un debole rischio carico di attenuanti, ma non scioglierei mai il vincolo pietoso del comandamento “non uccidere”.
    La morte di Welby e la morte in pubblico di Welby sono due cose diverse, sono una doppia verità che dobbiamo saper praticare.
    Ho compassione per Welby, provo pietà per la condizione umana. Con la sua supplica di morte, Welby sceglie il primato della sua coscienza, ma con la sua invocazione di una norma fatta per la morte sceglie il primato della sua cultura.
    Sono cose diverse, con conseguenze diverse.
    La coscienza è insindacabile e anche inafferrabile, è relativa, individuale, privata, ma la cultura è un terreno solido di oggettività, è la possibilità di unire logica ed etica, ragione e speranza, adeguando nella misura del possibile l’intelletto alla cosa. Esorcizziamo la guerra degli eserciti, che è una trovata crudele della storia per la rimozione del male, che solo la storia è in grado di combattere, e con il medesimo movimento la serializziamo nella pancia delle donne, con il formidabile e demoniaco pretesto della loro “salute”, oppure facciamo guerra all’umanità embrionale nei laboratori eugenetici e a quella adulta nel diritto di morire come nuovo codice morale.
    Compassionevoli quando si tratti della coscienza libera e solitaria, del desiderio illimitato di essere padroni di sé, un sé senza se e senza ma, del diritto a spurgare di significato e di dolore l’esistenza, e spietati per tutto il resto, cultori dongiovanneschi della morte della devozione, che della pietà, del sentimento tragico della vita, è l’aspetto più desueto ma anche più sincero.
    La morfina può sedare il dolore ma non il suo significato, che resta fermo come la roccia nel vecchio e nel nuovo testamento, nella legge e nel compimento della legge attraverso il racconto cristiano della passione e della redenzione, nella storia umana e nel pensiero degli uomini e delle donne a ogni latitudine e longitudine, nella poesia, nel vagito smarrito dei bambini, nell’occhio dei cani e degli altri animali, nella perdita e nella rinuncia, nell’assenza e nel presentimento della fine.
    Senza questo significato siamo dispersi e senza nome, omologati e spietati o impietosi.
    Con questo significato siamo invece pii, buoni, davvero disponibili a vivere e a morire per noi stessi e per gli altri.

    Ferrara su il Foglio

    saluti

  4. #4
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    Predefinito Il dolore ed il cristiano

    Il dolore ed il cristiano

    Finita è finita, sta per finire, sta forse per finire”. E’ l’inizio di “Finale di Partita” di Samuel Beckett.
    E’ il servo, Clov, che non vede l’ora che sia finita la tortura insensata mentre Hamm il paralitico si chiede seppure con spavento e ritrosia: “Non può darsi che noi… che noi… si abbia un qualche significato?”.
    Citazione non da celebrazione del centenario, ma perché, senza stare a farla lunga, Beckett – il nichilista, l’uomo di nessuna speranza – è l’ultimo artista cristiano dell’occidente, almeno europeo. L’unico a percepire il problema del dolore, della morte, di ciò che toglie gusto e senso alla vita in termini cristiani. Per quanto capovolti.
    Poi ci sono le invasioni barbariche. Il grande deserto dell’indifferenza stessa alla domanda. “Le invasioni barbariche” è il film a ciglio asciutto, anzi spruzzato d’ironia, di Denys Arcand, la storia del malato terminale Remy, cinquantenne professore, che si trova al capezzale i suoi migliori amici, vecchie fiamme ed ex allievi. Farà comperare eroina per alleviare i dolori della malattia. Il tempo passa inesorabilmente fino a quando Remy non è stanco della sua situazione, e con una overdose gli verrà data una morte, privandolo della continua sofferenza. “Sei il mio angelo”, dice a chi gli dà la dose finale.
    Il caso Welby è “Il dolore perfetto”, per citare il romanzo che vinse lo Strega un paio d’anni fa. Il caso perfetto clinico e giuridico, il caso irrisolvibile per la legge e la coscienza. Per Emanuele Severino, “se viene appurato che una persona ha questa volontà di morire senza soffrire oltre un certo limite, la legge deve riconoscerle il diritto di lasciare questo mondo”. Aggiunge: “Penso che su argomenti su cui c’è discussione, dall’eutanasia all’aborto, dal divorzio alla fecondazione assistita, la legge più democratica è quella che permette a ognuno di agire come crede”.
    Adriano Sofri s’è chiesto: “Welby non ha resistito abbastanza? Non l’ha protratto abbastanza il suo dolore da meritare una mano fraterna?”. “Eutanasia – sottolinea Sofri – è dare la morte a chi la implora. E’ pietosa ma non occorre ammetterla”.
    Ma in mezzo e dietro, c’è un dibattito sul senso del dolore, che invade tutto il territorio della nostra civiltà, vien su attraverso i secoli e su quei basilari pilastri attorno a cui si è condensata. Lasciando il tempo e la tolleranza alle scappatoie, o alla “privata libertà”, come si dice oggi, insomma alla possibilità di scegliere che risposta dare al dolore. Al finale di partita. Ma mai venendo meno al principio, al fatto che il dolore – come in clinica è il più prezioso degli alleati dell’uomo, il segnale di cosa e dove non va – così nell’esperienza umana è il senso del limite. Dell’altro da sé.
    Ma oggi quei pilastri sembrano incrinati anche laddove dovrebbero trovare il fondamento più certo.
    Enzo Bianchi sull’Unità di ieri: “In questi casi la prima cosa è un grande sentimento di compassione. Poi il sentimento che il primato della coscienza individuale va rispettato. Quando i credenti dicono che Dio solo è padrone della vita invitano a non avere verso la vita un sentimento di possesso assoluto. Quindi in ogni nostra situazione, anche la più disperata, dovremmo poter continuare ad amare e ad essere amati. Ma tutto questo deve avvenire in un profondo spirito di compassione, di misericordia e di compassione”.
    La differenza tra compassione-pietà nella cultura moderna, è piena di scorciatoie. E’ la differenza tra il pubblico della legge e il privato. Così Fabio Mussi ha potuto dichiarare che “non ci si può accanire a tenere in vita il dolore”. Mentre un’idea cattolica diversa dalla cognizione del dolore propria del cristianesimo la si sente anche in Ignazio Marino, medico e parlamentare ds, presidente della commissione Sanità del Senato: “Staccare la spina? Dobbiamo rispettare la persona, altrimenti ne prolunghiamo solo la sofferenza”.
    E’ proprio il senso classico del male e del dolore a essere in discussione. Senso classico nel senso che sta alla base della cultura greco-giudaica, nel senso che gli dava Eschilo, per cui Zeus “ha stabilito che gli uomini imparassero attraverso la sofferenza”. Ma il monumentale capitolo 30 del Deuteronomio tuona così: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male… Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra: io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità, per poter così abitare sulla terra che il Signore ha giurato di dare ai tuoi padri”.
    Per la prima volta da millenni, oggi siamo in un periodo post-classico, o post-tutto. In cui anche “la più alta vitalità può avere i tratti di una terrea malattia”, come dice Thomas Mann, uno degli autori che Eugenio Borgna cita a lungo nel suo “Le intermittenze del cuore”, pubblicato da Feltrinelli.
    Eugenio Borgna è psichiatra, e al tema del dolore, del suo possibile senso in una dimensione ancor più paradossale, verrebbe da dire, come quella della malattia psichica, ha dedicato libri intensi e non consolatori. Che fanno i conti non solo con la tecnica scientifica ma con la cultura che sta dietro e intorno alla pratica medica. Ci spiega che “nella nostra cultura la spina del dolore, da Eschilo a Simon Weil ha sempre rappresentato la possibilità per una difficile consapevolezza. Questo è stato vero nella storia e nella cultura, è vero, molto più spesso di quanto si immagini, nelle esperienze di chi il dolore affronta”.
    Ma qualcosa oggi non va, è cambiato, spiega Borgna, “è che all’idea della vita che non nega il dolore, la sua realtà, si è sostituita una ideologia. Dico ideologia come stereotipo del reale, che sostituisce un pregiudizio alla possibilità stessa di fare esperienza. E questa ideologia nega a priori che dal dolore possa nascere una – diversa, magari non facile – nuova conoscenza, consapevolezza”.
    Una ideologia in cui gioca un ruolo essenziale l’individualismo. “E non solo –prosegue Borgna: – E’ un’ideologia che nega radicalmente la complessità della vita. Mette opposizioni manichee: sei produttivo, o improduttivo, sei autonomo, non lo sei. E il malato, la persona in condizione di sofferenza, viene come spinta a ritenere che ciò che la cultura dominante, l’ambiente circostante gli suggeriscono, cioè che non vale la pena soffrire, sia l’unica possibilità. Mentre invece, ed è l’esperienza anche di una vita di lavoro medico, la capacità di condivisione, di rapporto interpersonale è decisiva per scoprire o meno il senso che il dolore possiede”.
    L’idea del dolore condiviso, accolto, è certo un cambiamento radicale rispetto alla nozione del dolore presente nella cultura pagana antica, ma anche rispetto all’ebraismo. Gesù “arrivava a sera stanco di guarire”, dicono i Vangeli. Il giuramento di prendersi cura del malato è già di Ippocrate, certo.
    Quel che il cristianesimo porta di nuovo, culturalmente e anche operativamente, è proprio l’idea della dignità del soffrire.
    Del “paradosso cristiano” del dolore salvifico. Del resto, Paolo ai Corinzi dice che “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato per ridurre a nulla le cose che sono”.
    E’ la pietas cristiana che ha inaugurato la cura dei malati, che ha fatto nascere gli ospedali. Qualcosa di più, di diverso dalla “compassione” parola più facile da sciogliere nel dibattito politico, etico di oggi. E’ ancora il professor Borgna a notare la differenza:
    “Compassione, per quanto l’etimo sia ‘patire insieme’, oggi ha nel linguaggio un’accezione più distaccata: c’è il dolore, io ti compatisco, cioè ti osservo da lontano e cerco di alleviare la tua pena. Pietà implica un coinvolgimento più forte, indica l’idea che nessuno è padrone fino in fondo della vita”. Come ha dichiarato di recente anche il cardinale Javier Lozano Barragán, presidente del Consiglio pontificio per la Pastorale della salute, “nell’affrontare le questioni bioetiche, tocca rispondere a una sola e semplice domanda: a chi appartiene la vita? Questa è la questione capitale. La vita è il tesoro più grande. La vita è l’unico sostantivo, tutto il resto sono soltanto aggettivi. La dignità della vita è la più grande e intoccabile, e non la decide né la può quantificare qualcuno per gli altri”.
    Raramente la riflessione su questo tema nel Novecento è stata più acuta di quella di Emmanuel Mounier, il fondatore del personalismo. Di fronte alla figlia che a causa di una meningite rimase idiota tutta la vita, il filosofo cristiano francese visse letteralmente come risposta al “Mistero che fa tutte le cose”, l’esperienza del dolore: “In questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un’aria di evidenza, una familiarità rassicurante”, scrisse alla moglie (“Lettere sul dolore”, Bur). “Non si può soltanto scrivere libri. Bisogna pure che la vita ci stacchi ogni tanto dall’impostura del pensiero”.
    “E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore; l’unione con quel che dispiace è dolore; la separazione da ciò che piace è dolore; non ottenere ciò che si desidera è dolore; in una parola, dolore sono i cinque elementi dell’esistenza individuale”.
    Questo è invece il Dharma del Buddha. Religione filosofica tutta dedicata alla negazione del dolore, ma che non contiene in nessun luogo, in nessun punto, la scintilla di possibilità che la vita e il suo dolore assumano mai la “familiarità rassicurante”, il paradosso testimoniato da Mounier. Ed è a suo modo estremamente interessante notare come migliaia di persone si siano aggrappate come a una speranza alla morte vagamente buddhista di Tiziano Terzani, il giornalista-guru che della sua morte accettata ha fatto il suo ultimo racconto. Hanno fatto persino un libro (“Dentro di noi - Parlano i lettori di Tiziano Terzani”) per raccontare, tra il resto, il senso condiviso di quella esperienza (“Ho pianto un pianto sereno, perché so, nonostante tutto, che da qualche parte c’è ancora”). Segno anche che, sul mercato, le offerte da finale di partita scientifico-individualiste non convincono poi tanto.
    Ma quant’è diversa l’idea del dolore con cui il cristianesimo continua a chiedere alla annichilita cultura odierna, che per sé vede solo il finale di partita della sedazione, almeno lo sforzo di un paragone.
    Un episodio di don Carlo Gnocchi, il prete dei “mutilatini” di Milano, raccontato da Stefano Zurlo in “L’ardimento” (Bur) lo spiega con una forza da far male:
    “Marco, è saltato su un residuato bellico. Ha perso le gambe, un occhio ha ferite ovunque. ‘Quando ti strappano le bende – prova a chiedergli don Carlo – ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?’. ‘A nessuno’”.
    Molti anni dopo don Gnocchi scriverà: “Fu in quel momento che ebbi la sensazione di una immensa, irreparabile sciagura: della perdita di un tesoro. Era il grande dolore innocente di un bimbo che che cadeva nel vuoto, inutile e insignificante… perché non diretto all’unica meta nella quale il dolore di un innocente può prendere valore e trovare giustificazione: Cristo crocifisso”.

    Maurizio Crippa

    saluti

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    Il caso Welby e i Pacs
    Due vicende che denunciano il ritardo civile del Paese

    Vi sono due vicende all'ordine del giorno di grande rilevanza civile, sulle quali abbiamo mantenuto finora uno stretto riserbo. La prima riguarda il caso doloroso e personale di Piergiorgio Welby, la seconda un disegno di legge - o un'ipotesi di disegno di legge - del governo sulle coppie di fatto.

    La prima è drammatica perché riguarda una persona che chiede di morire perché la sua vita è diventata una non vita. Su questo si è aperto un contenzioso che è molto difficile da seguire, perché non ci si può astrarre dalla condizione di una persona. Noi prendiamo in considerazione soltanto il grido di dolore di Welby, ripreso dai suoi famigliari, e ci sembra che negare ad un uomo il diritto di morire con dignità, quando non può più vivere, sia qualcosa indegno di una società matura, sviluppata, quale noi dovremmo aspirare ad essere.



    La seconda questione, fortunatamente, non è drammatica, ma in compenso è paradossale. Non solo perché dovrebbe essere pratica comune e di buon senso offrire tutti i possibili diritti alle coppie di fatto, omosessuali o meno, visto che ormai le coppie si formano nei modi più vari, senza per questo dover mettere in questione la famiglia, che evidentemente subisce da un qualche tempo il logorio convulso della modernità - e non la salveremo certo con qualche legge. Ma perché è davvero singolare lo sconquasso che questo tema ha creato nel governo, dove già di sconquassi ne esistono non pochi. E possibile che l'esecutivo non riesca a fare una legge, nemmeno una elementare, sui Pacs, senza rinviare, minacciare, scontrarsi? Questo preoccupa ancora di più della soluzione che sarà adottata, se mai lo sarà.

    Si tratta di due casi i cui sviluppi e l'incertezza negli esiti offrono davvero uno spettacolo desolante della realtà italiana, la sua fragile determinazione, e l'incapacità di compiere scelte vere. Purtroppo si tratta della conferma di un ritardo grave che pesa sulla nostra società e che ha cause molto lontane. Allora vorremmo dire a tutti che occorrerebbe per lo meno un maggiore garbo ed una certa discrezione. Anche coloro che hanno, come la Chiesa cattolica, una risposta pronta e una soluzione certa, dovrebbero avere il buon gusto di rispettare tante difficoltà e magari di farsi un esame di coscienza sul fatto che proprio risposte tanto nette e tanto convinte, magari pontificate dall'alto, siano più una causa che un rimedio a tale disorientamento.

    Roma, 13 dicembre 2006

    tratto da http://www.pri.it

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    Non si tratta di pietà per il caso singolo, ma di gestione legale della fine della vita.
    D’Agostino dice no

    Quando mi si chiede se sono favorevole all’eutanasia, rispondo di no.
    Ma so che sto dando una risposta imprecisa e forse anche ambigua, tali e tanti sono i significati che si nascondono dietro al termine eutanasia.
    Dovrei, pedantemente, cominciare con lo spiegare che l’eutanasia non ha nulla a che vedere né colla rinuncia all’accanimento terapeutico (che è in sé e per sé doverosa), né con il rifiuto consapevole e informato del paziente a trattamenti di sostegno vitale (rifiuto conturbante psicologicamente e moralmente, ma giuridicamente legittimo e vincolante per il terapeuta), né con pratiche di medicina palliativa che sono giustificate anche se – in linea di principio – potessero aggravare ulteriormente lo stato di salute del paziente o addirittura accelerarne il decesso. Ma, una volta fatte tutte queste faticose distinzioni (ognuna delle quali tale da attivare ulteriori e a volte irresolubili questioni casistiche) sarei ancora all’inizio del mio discorso contro l’eutanasia: mi resterebbe da spiegare perché ritengo illecito sopprimere un paziente terminale, e pienamente capace di intendere e volere, anche se tale fosse il suo autentico ultimo desiderio.
    Si osservi che parlo di illiceità e non genericamente di immoralità: infatti, quello che davvero mi turba nei dibattiti sull’eutanasia che sentiamo da tutte le parti è la mancata comprensione dell’abisso che c’è tra giudicare un atto eutanasico e promuovere una legislazione eutanasica.
    Una legge sull’eutanasia è infatti la peggiore soluzione che si possa ipotizzare per dare risposta a un problema reale. Non c’è dubbio che esistano situazioni di fine vita tragiche, se non atroci, e non c’è nemmeno il dubbio che esse siano situazioni non solo rare, ma eccezionali, ciascuna cioè connotata da una sua irriducibile particolarità. Ma la legge non è fatta per gestire situazioni estreme ed eccezionali; è fatta per gestire la quotidianità dell’esperienza. Hard cases make bad laws, dicono gli americani e non potrebbero dire di meglio: la legge, qualsiasi legge, burocratizza l’esperienza e non potrebbe fare diversamente. Ma situazioni estreme, come quelle di fine vita, non tollerano di essere burocratizzate. Quando la legge pretende di farlo, la morte diventa il momento conclusivo di una procedura amministrativa, fredda e anonima come inevitabilmente sono tutte le procedure.
    Non è un caso (l’esempio di Olanda e Belgio) che dalla proceduralizzazione dell’eutanasia, come atto giustificato dalla richiesta informata del malato, si passi – senza avvedersi dell’enormità di questo passaggio – all’eutanasia dei malati di mente e all’eutanasia pediatrica.
    E non è un caso che in Olanda ferva il dibattito sull’eutanasia geriatriaca (la “pillola Drill”), qualificando – non si sa quanto in buona fede – volontà manifestate da anziani in stato di abbandono e spesso in stato di confusione mentale come volontà autonome e da rispettare come assolutamente insindacabili. Mi chiedo spesso come potrebbe reagire un sacerdote in confessionale, qualora un penitente gli dicesse di aver ucciso per pietà, in una situazione estrema, un congiunto.
    Nessun atto, anche se privato, singolo, irripetibile, può naturalmente pretendere di non essere assoggettato a un giudizio morale e tale giudizio può anche essere di ferma condanna. Ma quando quel medesimo atto diviene pubblico e, una volta legalizzato, si offre come esemplare e paradigmatico, il discorso cambia completamente. Non è più la pietà per il caso singolo che viene in questione, ma la gestione legale e burocratica della fine della vita umana, attraverso l’applicazione di freddi protocolli formali. Sul resto si discute, è a questa eutanasia che bisogna dire no.

    Francesco D’Agostino

    saluti

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    Per Rizzini la vita vale in sé qui e ora e di questa qualità fa parte anche la decisione di morire

    Non vedo un cielo sopra di me. Né credo di avere, in me, una legge morale immutabile. La mia verità – e non mi piace chiamarla così, perché verità mi sembra spesso sinonimo di fissità e ottusità – è emendabile, soggetta alle rivoluzioni in cui incorrono tutte le idee nel corso dell’esistenza. Questo è relativismo, sì, e per me non significa assenza di senso ma senso “in sé”. Ho un unico dogma (relativo perché riguarda me senza imposizioni per altri): ed è che la vita vale in sé, qui e ora.
    Non mi sento materialista. Non penso che tutto sia rottamabile come un giocattolo vecchio.
    Per me questo momento, questa idea, questa persona hanno un grande valore.
    La paura e l’ansia, proprio come il dolore, psichico e fisico, e come la malattia, fanno parte della vita, qui e ora. Si possono e si devono tenere a bada, per vivere qui e ora.
    Qualcuno, in situazioni di sofferenza che giudica intollerabili, arriva a togliersi la vita. Ma per quanto la religione o i singoli possano condannare questa scelta, la legge non la persegue.
    Il dolore fisico e la malattia, però, si possono arginare fino a un certo punto. Oltre, nel territorio dell’agonia fino a morte certa, come nel caso di un male incurabile, e non più del tutto sedabile, c’è una sofferenza sorda e cieca che per me contraddice il senso stesso della vita. Io non credo che quel tipo di dolore elevi l’uomo. E se cercare di eliminarlo è peccare di ubris – tracotanza per gli antichi, onnipotenza per i moderni – io mi macchierei ogni giorno di quella tracotanza per non forzare me stessa o persone a me vicine a vivere qualcosa che è vita soltanto di nome. Allo stato attuale della nostra legislazione chi vuole e non può, perché immobilizzato dalla malattia, mettere fine alla propria vita in condizioni di estrema sofferenza senza speranza (a meno che non sia credente, ma in quel caso la speranza e il limite sono insiti nella sua fede) deve continuare a soffrire oppure contare sulla “disobbedienza civile” di un amico. In ogni caso è un dramma privato, una decisione privata. Ma che la legge non la permetta, questa decisione, e la persegua (perché ci sarebbe anche questa possibilità: depenalizzare), pur lasciando al singolo l’opzione di disobbedire sperando nelle attenuanti, mi sembra una pietosa ipocrisia. Perché punire chi, su richiesta di un malato terminale, accetta di aiutarlo a fare ciò che per legge non è punibile nel caso l’atto sia compiuto da un uomo in grado di agire in prima persona (come il suicida)? Non voglio certo che qualcuno mi convinca a morire, come i saggi che nell’Utopia di Tommaso Moro esortano l’uomo affetto da male incurabile a farla finita per il bene di tutti.
    Però voglio poter decidere.
    Welby ha deciso, ma ora “non può”.
    Qualche anno fa ho visto il film “Le invasioni barbariche” di Denys Arcand. Un professore, malato terminale, memore divertito di tutti gli “ismi” che hanno rovinato la sua generazione sessantottina, viene accompagnato alla morte, da lui decisa, con un rito laico organizzato dalla ex moglie e da tutti i suoi amori, dal figlio capitalista alle amanti: un’ultima giornata di confessioni, lacrime, risate e bevute. Ci ho visto una riflessione sul dolore di scegliere, l’unico che ti rende libero.
    “Non so se si possa morire in letizia”, ha detto il regista. E certo “eu-tanasia” è un ossimoro: la morte non è buona neppure quando è “buona morte”, se uno ama la vita. Non mi immagino in una vita ultraterrena, ma questo non mi intristisce. Triste è il non poter vivere come si crede, nel rispetto della libertà altrui. E vivere come si crede può voler dire, a volte, poter morire come si crede.

    Marianna Rizzino

    salute

  8. #8
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    La persona è una miniera di possibilità che va sostenuta fino alla fine. Il no di Livia Turco

    Il mio no all’eutanasia è un no discreto, personale, consapevole della sensibilità che si deve avere su questo tema nei confronti del pensiero “altro” dal mio.
    Ma è comunque un no dettato con forza dalla mia coscienza e che mi spinge a credere nella vita e nella possibilità di trovarvi sempre una speranza, una dignità, un senso di amore e condivisione con gli altri anche nelle sue ultime e drammatiche fasi. E ciò vale ancor di più nei numerosi casi di persone, ancora giovani, che vivono nelle gravi condizioni indotte dalle malattie cronico degenerative.
    Un no discreto che deriva dalla mia fede religiosa che mi fa credere in una sacralità della vita per cui ciascun atto, seppure breve, che la interrompa, lo percepisco e lo considero come un arbitrio.
    Ma il mio è un no anche molto laico, legato alla percezione che ho della società e del tempo in cui viviamo. Una società e un tempo che tante volte rinunciano troppo frettolosamente a scandagliare in profondità il senso dell’esistenza umana, ne restringono gli orizzonti e la impoveriscono. La persona umana è infatti una miniera di possibilità che va adeguatamente sostenuta dalle relazioni affettive e solidali oltre che dalla scienza e dalla tecnica. Viviamo, senza averne forse ancora piena consapevolezza, in una fase dell’esistenza umana nella quale lo sviluppo della scienza medica e delle tecnologie sanitarie ci pongono sempre meno di fronte all’alternativa netta “vita/morte”. Si è infatti venuto a delineare un nuovo spazio di vita che è quello della convivenza, anche di anni, con la malattia. Uno spazio che è e deve essere uno spazio di vita promosso e tutelato nella sua dignità attraverso la qualità delle cure e delle relazioni umane.
    Penso che solo la consapevolezza e l’elaborazione di questo cambiamento nella vita umana e sociale, che tocca centinaia di migliaia di persone nel nostro paese, possa prevenire la domanda di morte e promuovere realmente la cultura della responsabilità e della libertà di scelta. Ricordo sempre una bellissima espressione di Umberto Veronesi:
    “Non è la morte che fa male ma il processo del morire”.
    In questa frase trovo rispecchiati anche i miei sentimenti. Eppure, è noto, la posizione di Veronesi sull’eutanasia è diversa dalla mia.
    La Commissione su terapia del dolore, cure palliative e dignità del fine vita che ho insediato l’altroieri, nasce proprio dalla necessità di affrontare subito lo stato dei servizi di assistenza ma anche le procedure, i protocolli e le linee guida riguardanti i modi e la qualità con cui vengono assistiti migliaia di cittadini nelle fasi più dolorose e tragiche della loro esistenza.
    Abbiamo già individuato le direttrici su cui muoverci.
    In Italia abbiamo magnifiche esperienze ma anche troppi ritardi rispetto alla cultura della lotta al dolore e alla stessa umanizzazione delle cure che deve consentire un approccio diverso alla persona e il massimo coinvolgimento possibile dei familiari ai quali va garantito un costante supporto assistenziale per tutta la durata della malattia. Non solo negli ambiti strettamente medico-sanitari ma anche per quelli assistenziali e di vero e proprio sostegno nella gestione della persona malata in condizioni terminali o gravemente degenerative.
    Oggi si parla tanto, e giustamente, degli aspetti etici legati al fine vita. Si parla invece poco di cosa, in ogni caso e al di là delle proprie convinzioni su eutanasia, testamento biologico e accanimento terapeutico, bisogna fare affinché nessuno sia lasciato solo e senza dignità nella “convivenza con la malattia” e nel “processo del morire”.

    Livia Turco

    saluti

  9. #9
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    Predefinito Vivere e morire senza soffrire

    Nel caso di Luca Coscioni si parlò di “corpo contundente”. Non diversamente, nella vicenda di Piergiorgio Welby il dramma umano si fa ariete per sfondare le resistenze alla realizzazione di un intento politico.
    Ha spiegato assai bene Eugenia Roccella come qui non sia in gioco l’entità delle sofferenze da risparmiare – ché questo sarebbe un discorso aperto e praticabile –, quanto l’obbiettivo di risparmiarle tutte in un colpo solo, mediante un atto di suicidio assistito. È un passo che muta radicalmente il ruolo del medico e della medicina; non più chiamati ad aiutare, assistere, accompagnare nel percorso della vita e nell’inevitabile declino verso il trapasso, ma anche a “decidere” se e quando si debba morire; a mettere in opera tale decisione, o addirittura a farsi semplici “esecutori” di una volontà di morte.
    Non insisteremo sul fatto che è inaccettabile dedurre norme legislative (la liceità del suicidio assistito e programmato) da casi singoli, per quanto drammatici essi siano e per quanto meritino rispetto: soltanto un arrogante può giudicare con supponenza chi arrivi al punto di desiderare di morire.
    Intendiamo soffermarci su un altro aspetto.
    Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l’alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto.
    Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento? Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere. Qual’è la differenza?
    Abbiamo forse dimenticato che esistono dolori dell’anima che possono essere anche molto più devastanti e insopportabili dei dolori del corpo? E’ evidente che lo stiamo sempre più dimenticando, e stiamo riducendo la medicina a una pratica meramente materiale che non ha più nulla di umanistico e nel cui ambito il medico è una sorta di meccanico (con tutto il rispetto per i meccanici), e quindi anche esecutore di morte senza scrupoli (come un meccanico distrugge senza scrupoli un apparecchio inservibile). Il professor Severino dichiara che morire “senza soffrire” è un “diritto” e che debbono esistere strutture pubbliche che garantiscano questo diritto, in altre parole una medicina di stato preposta al suicidio assistito.
    Egli è noto per predicare la tesi dell’invincibilità della scienza e della tecnologia. In tal modo rischia però di essere un “testimonial” triste di tale invincibilità: triste, perché questa invincibilità appare piuttosto come una sconfitta, essendo la scienza medica ridotta non a combattere il dolore attraverso la cura ma a vincerlo banalmente attraverso la soppressione della persona che ne è afflitta.
    Il professor Severino non parla di aspirazione a morire (come a vivere, del resto) soffrendo il meno possibile, ma di “diritto” a morire “senza” soffrire.
    Nella società tecnoscientifica semplificata in cui egli crede di vivere lo stato possiederebbe tramite la sua scienza medica il potere di sopprimere la sofferenza e non soffrire sarebbe quindi un diritto: come se la decisione di suicidarsi non comportasse un’atroce sofferenza psicologica e la decisione di aiutare qualcuno ad uccidersi non fosse un atto parimenti tormentoso (almeno si spera…). Ma quel che più conta è che la decisione di chi dovrebbe accogliere la richiesta di morire non ha nulla di oggettivo. In base a quale sistema di valori parametrici può decidersi obbiettivamente che la scelta di morire è giustificata?
    Ciò è perfettamente possibile per una macchina: il tecnico mi dirà, anche quantificando la spesa della riparazione, se vale la pena inviare la mia auto allo sfasciacarrozze oppure no; e se dovrò farlo sarà senza scrupolo e dolore (a parte quello del portafoglio) e senza dolore della macchina. E questo per il semplice motivo che la macchina, a differenza di un essere umano, non ha alcun fine esistenziale, a parte quello che noi le conferiamo antropomorficamente inserendola nella nostra vita e nei nostri progetti. Per quanto Piergiorgio Welby stia soffrendo, la battaglia che egli sta conducendo – qualsiasi cosa se ne pensi – è chiaramente una fonte di vitalità per lui, qualcosa che da un “senso” al suo dolore. E, di certo, se tra un istante un’autorità decidesse che egli può farsi sopprimere a termini di legge, il contesto psicologico in cui egli dovrebbe prendere la sua decisione sarebbe profondamente diverso, certamente più intimo e non ci permettiamo neppure di tentare di immaginarlo. E’ quindi insensato e inaccettabile togliere la vita dal corso che è caratteristico della natura dell’uomo, e pretendere di assoggettarla a regolamentazioni analoghe a quelle della rottamazione delle macchine.

    Giorgio Israel su il Foglio

    saluti

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    Citazione Originariamente Scritto da mustang Visualizza Messaggio
    Nel caso di Luca Coscioni si parlò di “corpo contundente”. Non diversamente, nella vicenda di Piergiorgio Welby il dramma umano si fa ariete per sfondare le resistenze alla realizzazione di un intento politico.
    Ha spiegato assai bene Eugenia Roccella come qui non sia in gioco l’entità delle sofferenze da risparmiare – ché questo sarebbe un discorso aperto e praticabile –, quanto l’obbiettivo di risparmiarle tutte in un colpo solo, mediante un atto di suicidio assistito. È un passo che muta radicalmente il ruolo del medico e della medicina; non più chiamati ad aiutare, assistere, accompagnare nel percorso della vita e nell’inevitabile declino verso il trapasso, ma anche a “decidere” se e quando si debba morire; a mettere in opera tale decisione, o addirittura a farsi semplici “esecutori” di una volontà di morte.
    Non insisteremo sul fatto che è inaccettabile dedurre norme legislative (la liceità del suicidio assistito e programmato) da casi singoli, per quanto drammatici essi siano e per quanto meritino rispetto: soltanto un arrogante può giudicare con supponenza chi arrivi al punto di desiderare di morire.
    Intendiamo soffermarci su un altro aspetto.
    Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l’alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto.
    Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento? Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere. Qual’è la differenza?
    Abbiamo forse dimenticato che esistono dolori dell’anima che possono essere anche molto più devastanti e insopportabili dei dolori del corpo? E’ evidente che lo stiamo sempre più dimenticando, e stiamo riducendo la medicina a una pratica meramente materiale che non ha più nulla di umanistico e nel cui ambito il medico è una sorta di meccanico (con tutto il rispetto per i meccanici), e quindi anche esecutore di morte senza scrupoli (come un meccanico distrugge senza scrupoli un apparecchio inservibile). Il professor Severino dichiara che morire “senza soffrire” è un “diritto” e che debbono esistere strutture pubbliche che garantiscano questo diritto, in altre parole una medicina di stato preposta al suicidio assistito.
    Egli è noto per predicare la tesi dell’invincibilità della scienza e della tecnologia. In tal modo rischia però di essere un “testimonial” triste di tale invincibilità: triste, perché questa invincibilità appare piuttosto come una sconfitta, essendo la scienza medica ridotta non a combattere il dolore attraverso la cura ma a vincerlo banalmente attraverso la soppressione della persona che ne è afflitta.
    Il professor Severino non parla di aspirazione a morire (come a vivere, del resto) soffrendo il meno possibile, ma di “diritto” a morire “senza” soffrire.
    Nella società tecnoscientifica semplificata in cui egli crede di vivere lo stato possiederebbe tramite la sua scienza medica il potere di sopprimere la sofferenza e non soffrire sarebbe quindi un diritto: come se la decisione di suicidarsi non comportasse un’atroce sofferenza psicologica e la decisione di aiutare qualcuno ad uccidersi non fosse un atto parimenti tormentoso (almeno si spera…). Ma quel che più conta è che la decisione di chi dovrebbe accogliere la richiesta di morire non ha nulla di oggettivo. In base a quale sistema di valori parametrici può decidersi obbiettivamente che la scelta di morire è giustificata?
    Ciò è perfettamente possibile per una macchina: il tecnico mi dirà, anche quantificando la spesa della riparazione, se vale la pena inviare la mia auto allo sfasciacarrozze oppure no; e se dovrò farlo sarà senza scrupolo e dolore (a parte quello del portafoglio) e senza dolore della macchina. E questo per il semplice motivo che la macchina, a differenza di un essere umano, non ha alcun fine esistenziale, a parte quello che noi le conferiamo antropomorficamente inserendola nella nostra vita e nei nostri progetti. Per quanto Piergiorgio Welby stia soffrendo, la battaglia che egli sta conducendo – qualsiasi cosa se ne pensi – è chiaramente una fonte di vitalità per lui, qualcosa che da un “senso” al suo dolore. E, di certo, se tra un istante un’autorità decidesse che egli può farsi sopprimere a termini di legge, il contesto psicologico in cui egli dovrebbe prendere la sua decisione sarebbe profondamente diverso, certamente più intimo e non ci permettiamo neppure di tentare di immaginarlo. E’ quindi insensato e inaccettabile togliere la vita dal corso che è caratteristico della natura dell’uomo, e pretendere di assoggettarla a regolamentazioni analoghe a quelle della rottamazione delle macchine.

    Giorgio Israel su il Foglio

    saluti

    mi sento abbastanza d'accordo con quanto afferma Giorgio israel...

 

 
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