Il negoziatore di Dayton: «E' l'unica soluzione, altrimenti sarà guerra per sempre»
BERLINO - Richard Holbrooke, ex ambasciatore americano all’Onu e principale artefice degli accordi di Dayton, che misero fine alla guerra in Bosnia, è attualmente presidente dell'American Academy di Berlino, Holbrooke è considerato uno dei probabili candidati alla guida della politica estera Usa, nel caso di vittoria democratica alle presidenziali del 2008.
Ambasciatore, il fatto più importante dell’ultima settimana negli Stati Uniti è stata la pubblicazione del rapporto Baker-Hamilton sulla guerra in Iraq. A suo avviso, è un piano credibile per uscire dal pasticcio iracheno?
«Il rapporto Baker-Hamilton non è un piano, non è la Bibbia e non è un toccasana. Lo studio è due cose differenti: la valutazione e le racomandazioni. La prima è devastante per l’Amministrazione Bush. Il verdetto è che Bush ha fallito. Ed è condiviso dagli ex segretari di Stato di Reagan e di Bush senior, oltre che da importanti figure repubblicane. Le 79 raccomandazioni sono molto più controverse, sono state attaccate da tutti, dal presidente iracheno Talabani al primo ministro israelliano Olmert, dagli iraniani al senatore McCain, il quale vorrebbe inviare più truppe. Il presidente Bush ha ordinato altri tre studi, attualmente in corso: al Pentagoono, al Dipartimento di Stato e al Consiglio per la Sicurezza nazionale. Io credo che fra qualche settimana, egli farà una sintesi dei quattro rapporti e tirerà fuori le sue proposte. Sicuramente non accetterà i suggerimenti di James Baker: da quanto ho udito, la Casa Bianca è molto infastidita dal rapporto, che ha malamente danneggiato il presidente. Comunque, è difficile non essere d’accordo con la conclusione che la politica irachena fin qui è stata un fallimento».
Fra le raccomandazioni, c’è quella di avviare trattative con Iran e Siria. Siamo sul suo terreno preferito: negoziare col nemico o con partner molto ostici. Come giudica questo suggerimento, è un passaggio chiave?
«Non ho mai avuto dubbio alcuno che noi dovremmo parlare con Teheran e Damasco. Non so se gli iraniani parlerebbbero con noi. E non so neppure se ci siano reali possibilità di far progressi. Ma limitare i nostri colloqui con l’Iran al tema nucleare, una capacità che fra l’altro gli iraniani non posseggono e non avranno ancora per molti anni, non ha senso nel momento in cui l’Iran è il Paese con la maggior influenza in Iraq. Il presidente Bush definisce il premier Malaki il "nostro uomo" a Bagdad. Ma chi è Malaki? Ha trascoorso vent’anni della sua vita a Teheran ed è lì, non a Washington che prende le sue istruzioni. Certo che dobbiamo parlare agli iraniani, poiché è in loro potere di bloccare ogni soluzione in Iraq. Fanno i duri perché sanno di essere al posto di guida. L’Amministrazione Bush perse un’occasione d’oro nel 2002, al tempo della conferenza di Bonn sull’Afghanistan, quando anche l’Iran lavorò per l’insediamento del governo Kharzai. Al tempo, Teheran offrì anche di avviare colloqui su un ampio ventaglio di temi, che il presidente Bush però respinse inserendo invece l’Iran nel cosiddeto «asse del male». Concludendo, dovremmo parlare con Teheran, ma senza farci alcuna illusione che questo risolva i problemi in Iraq, al massimo ci aiuterebbe a contenerli».
Ma come approcciare l’Iran, per superare il muro attuale?
«Credo sarà difficile per questa Amministrazione, forse non sarà possibile fino a quando non avremo un nuovo presidente. Lo so, è diventato un cliché, ma bisogna ripeterlo: non si fa la pace, parlando con gli amici. La più bella formulazione di questo concetto rimane quella del presidente Kennedy: "Non dovremo mai negoziare per paura, ma non dovremo mai aver paura di negoziare"».
E la Siria?
«I siriani hanno già detto di voler trattare con noi. Anche Israele ci ha detto che vedrebbe con favore un nostro dialogo con la Siria, che è anche decisiva per il futuro del Libano. Una ragione in più per farlo».
Lei pensa che questa amministrazione dovrebbe esercitare maggior pressione su Israele?
«Credo che dovrebbe essere più attiva nella ricerca di una soluzione pacifica dei problemi della regione. Il punto non è Israele, è Hamas, gli hezbollah, l’autorità palestinese oggi sotto il controllo di gente che contesta il diritto di Israele a esistere. Non ha senso per me parlare di pressione su Israele».
Ma Israele è contraria a ogni dialogo con Teheran...
«Non credo avremmo un problema con Israele se trattassimo con l’Iran. Stiamo parlando di un interesse nazionale primario degli USA in Iraq: abbassare il livello della crisi a Bagdad è anche nell’interesse di Israele. Se l’Iran pone un pericolo reale per Israele, questo dovrà essere parte della discussione».
Le modalità del ritiro o del disimpegno americano dall’Iraq sono state centrali nello studio Baker-Hamilton. Lei quale soluzione favorisce?
«Uso deliberatamente il termine disimpegno. Ci sono tre diverse opzioni. La prima è quella avanzata da alcuni membri del Congresso, di ritirarsi con un calendario fisso, qualunque cosa accada sul terreno. Io la trovo molto pericolosa per noi, sul piano militare e politico. La seconda è quella di legare ogni ripiegamento alla progressiva capacità del governo iracheno di far da solo, fissando degli standard specifici: sostanzialmente è la proposta del piano Baker-Hamilton ed è molto condivisa. Ma non sono convinto che sia la strada giusta. Io sono invece per una terza ipotesi, di cui ho parlato negli hearing del gruppo di studio, quella di legare il disimpegno a temi politici e non a standard».
Cosa vuol dire in concreto?
«Sia la politica attuale dell’Amministrazione Bush che le raccomandazioni del gruppo di studio puntano a rafforzare il governo Malaki contro gli insorti. In altre parole, anche se la Casa Bianca dice che in Iraq non c’è guerra civile, fa come se ci fosse, appoggiando una parte contro l’altra. E’ un concetto che non può funzionare: il governo Malaki non sarà mai forte abbastanza da aver ragione dei ribelli, l’insurrezione non è contenibile. Da un lato i sunniti, che hanno governato il Paese per 400 anni, non si rassegneranno mai. Dall’altra parte, gli sciiti potrebbe forse assumere il controllo dell’intero Paese ma solo dopo un grande bagno di sangue. Dunque, se si vuole porre fine alla guerra bisogna trovare un compromesso tra le fazioni, che dovranno condividere sia il potere politico che i profitti del petrolio».
Nessuna divisione del Paese, però...
«Se intende tre Stati, ovviamente no. Ma una federazione è inevitabile, altrimenti è guerra per sempre. Esattamente come in Bosnia: se a Dayton avessi puntato su un’autorità centrale in grado di governare l’intero Paese, la guerra continuerebbe ancora oggi. Lo stesso vale per l’Iraq. Ma la mia proposta è stata respinta, sia dall’Amministrazione, sia dal gruppo di studio, sia dai sauditi».
E chi avrebbe l’autorità politica per imporla?
«Non lo so, forse una Conferenza sponsorizzata dall’Onu, cui partecipino tutte le parti coinvolte. Ma la proposta del rapporto Baker-Hamilton di tenerla fuori dall’Iraq è stata considerata un insulto dal governo di Bagdad».
E quale ruolo, se ce n’è uno, potrebbero o dovrebbero giocare gli europei?
«Il ruolo primario degli europei non è in Iraq ma in Afghanistan. E sono molto preoccupato dalla riluttanza di diversi Paesi europei a impegnare più soldati in quella regione. Come si può non capire che l’Afghanistan sia oggi il nuovo fronte della guerra al terrorismo, proprio come la Germania lo fu durante la Guerra Fredda? La frontiera tra il Pakistan e l’Afghanistan è la nuova prima linea. E’ imbarazzante vedere Paesi frapporre delle scuse nazionali, per non impegnare le proprie truppe sul terreno o addirittura per non mandarcene. Ma allora che valore ha la Nato?».
Paolo Valentino
14 dicembre 2006
http://www.corriere.it/Primo_Piano/E...alentino.shtml
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Il progetto federalista era una proposizione degli democrati. Pero' in questa proposizione, non c'è una riga che ne spiega il modo di implementazione. I tempi sono cosi' bui in irak che non è possibile intravedere una soluzione, anche se si facesse avanti quella buona.
Nello scenario federalista, non si puo' eludere il livello...federale, cioè unitario. Gli sforzi dovrebbero in primo luogo mirare alla riconciliazione nazionale, e poi alla ridistribuzione dei poteri.