Maurizio Blondet
14/12/2006
MEDIO ORIENTE - L'Arabia Saudita e i suoi satelliti nel Golfo (Emirati, Kuwait, Bahrein e Qatar) hanno annunciato pubblicamente di star considerando «un programma comune nucleare», ovviamente «per scopi pacifici».
Ma forse non proprio.
Come ha detto Al-Jazeera, Kuwait, Bahrein e Qatar, che hanno basi militari USA, temono rappresaglie dell'Iran contro di loro «in caso di conflitto tra USA e l'alleato Israele da una parte, e Teheran dall'altra». (1)
All'insaputa delle opinioni pubbliche europee, la NATO ha intanto firmato un accordo militare col Kuwait: nell'ambito della Istanbul Cooperation Initiative (di cui fa parte Israele), l'accordo, firmato da De Hoop Scheffer (l'olandese segretario generale) prevede scambio di informazioni segrete.
Per ora: ma è ovvio che in caso di conflitto ci troveremo a combattere per l'«alleato» Kuwait. (2)
Tanto più che Prodi ha appena assicurato ad Olmert l'ostilità italiana ad un Iran nucleare: semaforo verde per un attacco preventivo giudaico.
L'Arabia Saudita ha dichiarato che se gli USA si ritirano dall'Iraq, essa finanzierà e armerà i guerriglieri sunniti contro gli sciiti.
Naturalmente tutti i commentatori si consolano dicendo che sono tutte mosse verbali, pressioni dei sauditi sugli Stati Uniti perché non escano dall'Iraq.
Ma in realtà, quello che si sta profilando è il peggior scenario possibile, conseguenza della disastrosa incompetenza e impotenza americana nell'occupazione.



In Iraq, diventa non solo possibile una guerra per delega fra Teheran e Ryad, su suolo iracheno e con combattenti iracheni.
In un caso del genere, è più che probabile che la Turchia si autorizzi a penetrare nel Kurdistan iracheno per sopprimere il nucleo di Stato indipendente dell'etnia kurda.
Una sorta di guerra di tutti contro tutti, con eserciti stranieri e guerriglieri incontrollabili.
Il quadro non sarebbe completo senza uno sguardo a come si evolve la situazione in Afghanistan. Gli interrogatori di prigionieri Talebani catturati dal governo Karzai, fino ad ora circa 1.500, hanno mostrato che tutti loro, nessuno escluso, vengono dalle scuole coraniche del Pakistan.
Che quasi tutti sono stati addestrati ed equipaggiati in Belucistan e nella Provincia
di Nord-Est, le due province pakistane controllate da tribù filo-talebane.
E che «l'intera controffensiva talebana è condotta, come mostrano gli interrogatori, sotto il controllo dell'ISI», il servizio segreto del Pakistan, cosiddetto «alleato» di Bush. (3)
Il Pakistan fornisce persino assistenza medica ai guerriglieri talebani che, dopo le loro puntate offensive, riparano in Pakistan o nell'area tribale confinante con l'Afghanistan.
E gli americani sono troppo deboli per denunciare il tradimento.
Tutto questo la dice lunga sul crollo dell'egemonia, del prestigio, ma anche della credibilità militare americana nell'area.
Gli USA in Asia sono circondati di «alleati» che li tradiscono apertamente, e di «alleati» che si armano da sé, non credendo all'ombrello nucleare USA.
Gli Stati del Golfo con il loro programma atomico, constatano la perdita dell'egemonia nucleare israelo-americana nell'area, e ne traggono le conseguenze: munirsi di atomiche di fronte alla possibile atomica iraniana, in un quadro di dissuasione multilaterale, anziché di monopolio della superpotenza e del suo protetto sionista.



E' l'attuazione, in forma imprevista e sgradita, del progetto contenuto nel documento «A clean break: a new strategy for the security of the realm» (un taglio netto: nuova strategia per la sicurezza del regno d'Israele) che i principali neocon americani formularono nel 1996 come consiglio all'allora primo ministro Netanyahu. (4)
Firmato da personaggi come Richard Perle (l'architetto della guerra all'Iraq), Douglas Feith (vice-ministro con Rumsfeld al Pentagono) e David Wurmser (ancora oggi il braccio destro di Cheney per il Medio Oriente), il progetto intendeva essere la soluzione del problema centrale dello Stato ebraico: la sua continua dipendenza dagli Stati Uniti.
Come Stato di coloni, impiantato con la forza armata e a dispetto delle popolazioni locali, Israele dipende fin dalla sua nascita dal buon volere, e dal sostegno militare permanente, dell'Occidente.
I firmatari (ebrei) ne erano ben coscienti.
Per questo proponevano «un taglio netto» con le trattative di pace di Oslo - in cui vedevano una costrizione imposta dagli occidentali - e l'inizio invece di una stagione offensiva a tutto campo, con periodiche invasioni israeliane di Palestina e Libano (gabellate come «diritto ad inseguire il nemico nel suo territorio», violandone la sovranità), la distruzione dell'Iraq come potenziale nemico, e sullo sfondo, la preparazione della resa dei conti con Siria e Iran.
Ciò avrebbe liberato Israele da tutti i suoi avversari e, quindi, dal bisogno di dipendere
dagli USA.
«Israele è in grado di plasmare il suo ambiente strategico», diceva il documento, «in collaborazione con la Turchia e la Giordania, indebolendo, contenendo e infine respingendo la Siria. Questo sforzo ha il suo centro nella rimozione di Saddam Hussein dall'Iraq - un importante obiettivo strategico israeliano di per sé - come mezzo di frustrare le ambizioni regionali siriane».
Una campagna che avesse successo nel «ridefinire l'Iraq», continuava il documento - che ricordiamo è del '96, ben prima dell'11 settembre che giustificò la guerra infinita al terrorismo - avrebbe consentito l'espansione delle frontiere israeliane a spese di Libano e Siria.
La strada sarebbe stata aperta a un «mutamento profondo» dei contrappesi strategici nell'area («strategic balance of power»).
La Giordania sarebbe stata guadagnata nel nuovo ordine, con la prospettiva di mettere la dinastia hashemita a capo di una «grande Giordania» che avrebbe accolto i palestinesi (espulsi in massa dai giudei) e un pezzo di territorio iracheno.
Inoltre, Israele poteva benissimo «sviare l'attenzione della Siria usando elementi dell'opposizione libanese per destabilizzare il controllo siriano sul Libano».
Com'è puntualmente avvenuto.



Si può dire che il piano è stato realizzato in pieno, ma con esiti non proprio favorevoli ad Israele.
L'implosione nel caos etnico dell'Iraq, tanto fortemente perseguita, ha lasciato intatto il potere siriano e accresciuto quello dell'Iran.
Un Iran nucleare non minaccia realmente Israele, ma produce un effetto più inquietante: una corsa all'armamento nucleare di Stati sunniti, legittimati a farlo dalla «minaccia sciita» nemica degli USA-Israele.
Sono armi atomiche che un giorno possono essere dirette contro lo Stato ebraico, sempre più chiaramente identificato come il vero problema del Medio Oriente.
E gli Stati Uniti, i protettori di Giuda, sono alle corde e sempre meno rispettati nell'area: stanno per essere sconfitti in Afghanistan, sono costretti a patteggiare con le milizie settarie in Iraq, setta fra le sette.
Hezbollah ha inflitto sul campo ad Israele la prima umiliazione militare della sua breve, aggressiva storia: e Israele ha dovuto accettare una forza d'interposizione ONU che, per quanto inefficace, «internazionalizza» il problema che Giuda voleva mantenere «interno».
Il disastro americano in Iraq, la cui tragica futilità salta agli occhi, ha fatto emergere in USA le prime voci critiche contro il potere totale della lobby: da Walt e Mearsheimer all'ex-presidente Carter, oggi c'è chi osa dire chiaramente che l'interesse nazionale USA non è identico a quello israeliano, e che Israele compie azioni immorali («apartheid», dice Carter).
Persino in Europa le atrocità commesse dai giudei in Libano hanno dato loro un'immagine pessima nelle opinioni pubbliche, nonostante le professioni di servilismo dei governi: l'immagine di Israele come vittima non si vende più tanto bene. (5)
Può ancora darsi che la lobby convinca o costringa il potere americano ad attaccare l'Iran: ma questo avverrà ad un prezzo altissimo per la coesione stessa degli Stati Uniti, che rischia di entrare in una crisi di potenza mondiale irreversibile.



Ahmadinejad, con le sue provocazioni, dà la sensazione di voler «provocare» l'attacco: se a farlo sarà Israele, l'Iran avrà guadagnato in prestigio ciò che perderà sotto le bombe, e anzitutto l'immagine dell'aggredito.
Anche per questo Olmert ha commesso il volontario «lapsus» di recente, ammettendo che Israele ha le bombe atomiche per la prima volta: una mossa disperata.
Giuda agita gli artigli nucleari perché la minaccia di annichilimento è la sola che possa, ormai, frenare l'egemonia crescente dell'Iran.
Il «clean break» - il taglio netto dalle politiche di trattativa e di convivenza, la costruzione del caos generale, il ciclone nel cui occhio tranquillo Israele sperava di restare sicura - è riuscito; ma gli effetti non sono affatto quelli desiderati.
Invece della sicurezza senza cessioni e compromessi, attorno ad Israele si sta coagulando uno scenario da incubo: un caos irto, in futuro, di armi nucleari.
Questo gli hanno regalato gli zelanti neocon, i soli «veri amici d'Israele», che volevano rafforzare «il Regno» una volta per tutte, a spese dell'America, e che per far questo hanno silenziato tutte le obiezioni e le critiche come «antisemitismo».
Eterogenesi dei fini.

Maurizio Blondet




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Note
1) Citato da Dedefensa, «Vers une zone de dissuasion nucleaire - sans les USA?», 11 dicembre 2006.
2) «Kuwait signs security agreement with NATO», Globalresearch, 12 dicembre 2006.
3) Arnaud De Borchgrave, «Shock and awe about-face», Washington Times, 12 dicembre 2006. De Borchgrave ha ottime fonti interne al Pentagono e alla CIA. Il Pakistan ha un evidente interesse a «inchiodare» gli americani in Afghanistan e a negare loro una qualche «vittoria»: Musharraf sa bene che starà al potere solo fino a quando resterà necessario agli USA, e fa di tutto per rimanere necessario. Quanto all'ISI, ha collaborato per decenni con gli USA in funzione anti-sovietica, ha creato per loro i Talebani, ed ora si sente giustamente tradito dal grande cretino superpotente: e gli sta scavando la fossa.
4) Per un esame più esteso del documento, si veda http://www.iasps.org/strat1.htm.
5) Justin Raimondo, «Israel, alone», Antiwar.com, 13 dicembre 2006. Ottima e approfondita analisi.