Dalla Stampa di Sabto 16 Dicembre 2006 ..
Una riflessione che come presbitero e come cristiano mi ha interiormente coinvolto .
La colloco nel forum per un sereno confronto alto su temi alti al di là della bassa cucina che sugli stessu temi viene gestita
Pacs contro l’amore romantico
ANTONIO SCURATI
Il dibattito attorno al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto lascia sul fondo uno spesso sedimento di malinconia. Lascia in bocca quella feccia che sta proprio nel vino genuino. Anche chi, come me, laico e progressista, i Pacs li vuole, anzi li pretende, non può fare a meno di sentirne sotto la lingua il retrogusto amaro. Amarissimo. La tristezza non sorge tanto dallo spettacolo offerto da un ceto politico che con le sue diatribe partitiche, con i suoi tatticismi elettorali, con le sue piaggerie ecclesiastiche, tiene in ostaggio una società molto più avanzata rispetto al suo inerte conservatorismo lungo la linea della libertà di amarsi. Non è questo imbrigliamento del libero amore a mettere malinconia. Alla fine, le resistenze del Palazzo verranno abbattute e la società si vedrà riconosciuto de jure ciò che già le appartiene de facto (quest’anno negli Usa, il numero totale delle coppie non sposate ha superato quello delle coniugate).
La malinconia, il sentimento luttuoso generato da una perdita irreparabile, scaturisce al contrario proprio dall’eclisse storica di una forma d’amore che è stata anche una delle creazioni più alte dello spirito umano: l’amore romantico. Io, laico e progressista, mentre pretendo il riconoscimento dei diritti personali all’interno delle coppie di fatto, m’immalinconisco per il tramonto dell’amore romantico che quest’ennesimo lume del progresso porta inevitabilmente con sé. Sorta nell’Ottocento contro la prosaica convenzione borghese del matrimonio d’interesse, un secolo più tardi la poesia dell’amore romantico trova proprio nel rito matrimoniale la sua apoteosi.
Pensate a quest’enormità: a valle di un secolo di nichilismo sessuale, nel quale gli amanti si prendono e si lasciano usandosi reciprocamente nell’esercizio di una tecnica di vita materiale, di una vita ridotta a tecnica, cioè al solo scopo di procurarsi piacere e di fugare i fantasmi del desiderio, due esseri umani, precari nell’esistenza, e comunque prossimi a dissolversi nel nulla, contro ogni buon senso, contro ogni senso comune, ritrovano l’assoluto giurandosi amore eterno davanti agli uomini e a Dio.
Oggi, insomma, l’atto di contrarre matrimonio, soprattutto con il magnifico rito cristiano cattolico, e soprattutto da parte di chi nel Dio dei cristiani non crede, è, forse, l’ultima forma di religiosità largamente diffusa. La promessa di eternità fatta a un altro essere umano è, infatti, tanto più generosa, tanto più spropositatamente coraggiosa se a garantirla non si avverte sopra di sé la presenza di alcun Dio trascendente, se il giuramento è pronunciato dinanzi agli uomini e a un cielo disertato da Dio. Il gesto matrimoniale, quando compiuto con fede (i casi di ipocrisia rappresentano innumerevoli eccezioni alla regola monastica dell’ascesi amorosa) è sempre gesto sacramentale, anche e soprattutto se il fedele d’amore non ha in cuor suo nessun’altra fede. L’amore romantico è stata, forse, l’ultima metafisica di un Occidente prossimo alla completa secolarizzazione, l’ultima eresia cristiana, l’ultima ipotesi d’assoluto che uomini e donne hanno osato avanzare non nell’incoscienza della loro fallibilità, caducità, mortalità, ma in piena coscienza e a suo dispetto. Non contava (non conta) un bel niente che il giuramento poi venisse probabilmente spezzato, i vincoli recisi, i patti infranti. Contava (conta) il fatto, smisurato, patetico e sublime, che nel momento di pronunciare la propria testimonianza di fede in un amore eterno, in un assoluto a misura d’uomo, ci si credesse davvero. Il resto era vita. Nient’altro che vita. Tutto il resto.
Non ci si può congedare da tutto ciò senza malinconia. Noi, in fondo, chiediamo che ci venga riconosciuto per legge il diritto a praticare una vita affettiva sul modello della connettività di rete. Vogliamo il contatto, il congiungimento e l’unione, ma senza vincolo. Pretendiamo di poterci unire e disunire (sessualmente, affettivamente, socialmente), e in pieno diritto, con un altro essere umano con la facile immediatezza con cui ci si connette o disconnette da Internet. Per quel tanto, o poco (più probabilmente poco), che durano le cose umane. E non più a dispetto della triste, tristissima legge della durata. È il nostro mondo, di noi laici e progressisti, di noi atei e materialisti, di noi capitalisti e consumisti, di noi nichilisti ed edonisti, ed è giusto che ci venga riconosciuto il diritto di starci come più ci piace, cioè soltanto come ci piace. Ma non dobbiamo accomiatarci dall’amore romantico senza nemmeno un lamento, senza un canto d’addio a quella grandiosa invenzione dello spirito umano moderno che consentiva di stare al mondo ma contro il mondo. La vinceremo questa battaglia noi laici e progressisti. Ma, come si diceva nel finale di un vecchio film hollywoodiano, ci sono vittorie che sanno di sconfitta. Questa sarà una di quelle.