Non è proprio quello che stavo cercando, ma è interessante lo stesso anche se non sono convinto dall'ultima parte. Buona lettura
Da La Rivista del Manifesto
numero 23 dicembre 2001 Sommario
Nella storiografia israeliana
IL PARADIGMA SIONISTA
Vincenzo Pinto
L'articolo intende narrare la storia del paradigma sionista ricostruendone la genesi, lo sviluppo e la crisi. Il sionismo non è solo l'ideologia fondante lo Stato d'Israele. È anche una visione del mondo, un discorso dotato di un nucleo `forte' che, come tutte le fedi razionalizzate del `secolo breve', possiede una logica interna difficilmente confutabile. Al centro di questo nucleo, circondato da una `atmosfera' con un'euristica composta di ipotesi di lavoro, è collocato un postulato ben preciso: l'esistenza di una questione ebraica universale e sempiterna che definisce la condizione ebraica.
Da qualunque parte si affronti lo studio del sionismo ci s'imbatterà presto o tardi in questa verità assiomatizzata, che è capace di assorbire, senza particolari rischi per il nucleo, le critiche interne ed esterne. La sua conferma più evidente è la Shoah: solo uno Stato avrebbe potuto (e può) evitare l'omicidio storico dell'ebraismo. Per decenni il paradigma sionista è stato difeso dall'intellighenzia israeliana, ed ebraica più in generale, per la ragione che la sua legittimità era sovrapposta a quella storico-morale dello Stato d'Israele.
Questa sovrapposizione ha fatto sì che scomparissero i distinguo tra un'ideologia, una visione del mondo e un'entità statuale. In secondo luogo, la contingenza storica (lo stato di guerra perenne) e determinate rimozioni presenti nel paradigma sionista (l'inesistenza di una questione palestinese e `l'uovo di Colombo' dello Stato) hanno fatto sì che il sionismo, colorito dopo la guerra dei Sei Giorni di tinte messianico-religiose, fosse strumentalizzato a giustificazione di azioni militari accampate sul dilemma della sicurezza.
La critica alla ragione sionista non è affatto inattuale, né il suo esempio così ozioso per noi europei, giacché comune al panorama storiografico occidentale è il tentativo, operato da una schiera di studiosi, più o meno in buona fede, di decostruire il nucleo della `religione civile' che legittima la cittadinanza politica condivisa. Quest'operazione impone un esame di coscienza intorno all'utilità e validità di fare storia etico-politica in un'epoca caratterizzata dal tentativo di strumentalizzare e di confondere le interpretazioni degli avvenimenti storici sulla base del motto postmoderno (volgare) «tutto va bene».
La storia della storiografia israeliana degli ultimi anni è anche una lotta tra un revisionismo `sano' e uno `malato': da un lato, la documentazione declassificata ha permesso di (ri)esaminare le interpretazioni degli avvenimenti storici agli albori dello Stato d'Israele; dall'altro, tale documentazione, variamente interpretata, ha permesso di trarre conclusioni spesso agli antipodi l'una dell'altra. Non poche sono state le accuse di strumentalizzazioni, di `negazionismo' e le reciproche scomuniche tra gli `storici dell'establishment' (coloro che dichiarano di essere sionisti) e i `nuovi storici' (coloro che cercano di distinguere sionismo e Stato d'Israele, mostrando i `vizi' e l'esaurimento storico del primo). La polemica è anche etico-politica, incentrata sull'uso pubblico della storia. Dietro questa disputa storiografica si cela una delicata questione della colpa che non tutti sono disposti ad affrontare.
Genesi del paradigma sionista
Il sionismo politico nacque in Russia a fine Ottocento, dove un gruppo di intellettuali secolarizzati decise di propagandare il ristabilimento degli ebrei eccedenti in «Eretz Israel» (Terra di Israele). Il progetto nazionalista si diffuse contemporaneamente nella Mitteleuropa tedesca, dove emerse il giornalista-letterato ungherese Herzl, che convocò a Basilea il primo Congresso mondiale sionista (1897). Per comprendere i successivi sviluppi ideologici è necessario partire dai contesti storico-culturali in cui si generò il paradigma sionista: da un lato, le correnti anarco-socialiste, populiste, nichiliste e marxiste della Russia di metà Ottocento; dall'altro, l'intellighenzia formatasi nel clima di reazione spiritualista al positivismo, nutrita di ideali vitalistici e irrazionalistici.
Dall'incontro di queste correnti nacque il sionismo, che non va inteso solo come l'aspirazione a uno Stato nella patria atavica, ma anche come una visione del mondo e un'ideologia capace di spiegare e giustificare l'insorgenza del nazionalismo ebraico. La necessità di definire una visione del mondo alternativa a quelle ortodossa, liberale e bundista fu subito avvertita dagli ideologi intenti a diffondere il progetto di rinascita tra le masse. Si trattava di coniugare un modo nuovo di percepire la propria condizione ebraica con una filosofia della storia capace di spiegare il passato per poterlo utilizzare e ritorcere a giustificazione dell'ideale nazionalista. La Palestina ottomana dell'epoca era poco attraente per le masse, non solo perché preferivano altri lidi (vedi il continente americano), ma anche perché mancava la ragione alla base della scelta personale che motivasse esistenzialmente la `salita' in Eretz Israel.
Se si dovesse valutare dai numeri, si potrebbe affermare che il sionismo fallì nei suoi intenti esplicativi, giacché, eccetto alcuni intellettuali, rabbini e rivoluzionari, poche migliaia di ebrei scelsero l'opzione palestinese prima della Grande Guerra. Ciononostante, l'evento che diede inizio al `secolo breve' non trovò impreparato il movimento sionista. La sua forza sarebbe stata nella capacità di spiegare all'interno del proprio paradigma gli eventi susseguenti la conflagrazione bellica: la fine degli imperi centrali; l'ottenimento della `carta' auspicata da Herzl (la Dichiarazione Balfour); la nascita delle questioni nazionali; la legislazione antiebraica diffusa nell'Europa degli anni Trenta; l'inesistenza di altre mete migratorie; e l'olocausto.
I fondamenti del paradigma sionista
Il `regime di verità' del paradigma sionista può essere esaminato in due modi: attraverso le ipotesi di lavoro che spiegano la necessità storica dello Stato; e attraverso le parole d'ordine che codificano, dirigono, ordinano e prescrivono i limiti del discorso sionista.
Le principali ipotesi di lavoro sono le seguenti:
a. una visione della storia teleologica e lineare: gli eventi del passato dimostrano la necessità storica della fine della Diaspora e la creazione di uno Stato degli ebrei; b. l'antisemitismo come ipostasi sempiterna: l'antisemitismo è la peculiarità caratterizzante l'esserci dell'ebreo. L'umanità è suddivisa in (manifesti o latenti) antisemiti e filosionisti.
c. l'unità del popolo ebraico: il popolo ebraico rappresenta storicamente un corpo unico e ben identificato in mezzo alle nazioni `gentili'; d. l'esistenza di una nazione ebraica su basi territoriali: la nazione ebraica ha diritto a un proprio Stato che salvaguardi tutto l'ebraismo e che funga da `centro spirituale' per le minoranze disperse nel mondo; e. il diritto storico sulla Palestina: il popolo ebraico ha un diritto storico sulla propria patria atavica; diritto corroborato dal fallimento della simbiosi con gli arabi e dal diritto morale ad autoemanciparsi dal e del passato, contribuendo al bene proprio e a quello dell'umanità; f. negazione dell'esilio: la Diaspora e il suo prodotto umano (l'ebreo diasporico) sono condannati in quanto rispecchiano e giustificano l'antisemitismo; g. la necessità della Terra: lo Stato deve essere ricreato nel proprio paesaggio natio, l'unico in grado di rigenerare il popolo ebraico dai malanni e dalla degenerazione dell'esilio.
h. l'eccezionalità della storia ebraica: la storia dell'ebraismo non può essere paragonata alle altre, poiché esso ha subito l'olocausto, ha vinto una guerra in cui enorme era la differenza tra le forze in campo, e ha visto realizzarsi nella storia la propria utopia (il sionismo).
Queste ipotesi di lavoro costituiscono gli a priori storiografici del paradigma sionista. Passando da un approccio ontologico, incentrato sull'eziologia del paradigma, a uno decostruzionista, più interessato al come che al perché, possiamo individuare nel lessico sionista una serie di significati che prescrivono particolari serie di pratiche e di relazioni. Da un lato abbiamo alcune espressioni che definiscono il sionismo opponendolo a una dimensione `inautentica' della condizione ebraica: Galuth (esilio punitivo) al posto di dispersione, Aliyah (salita) al posto di emigrazione, Kibbush Haaretz (conquista della terra) al posto di acquisizione dei terreni. Dall'altro lato abbiamo una serie di gerarchie binarie che delimitano il discorso sionista: ebreo/giudeo, ebrei/ebraismo, nazione/comunità religiosa, cultura secolare/religione, sentimento nazionale/sentimento religioso, collettivo/individuale, continuità/discontinuità, evoluzione/rottura, creatività/stagnazione, esilio/redenzione, ordine/caos e, nel caso del sionismo socialista, lavoratori/borghesi.
La domanda che sorge spontanea è come l'alterità abbia partecipato alla rappresentazione dell'identità. In altri termini, qual è lo spazio che il discorso sionista ha concesso ai palestinesi? Abbiamo visto come l'ebreo sionista si contrapponga e rifiuti l'ebreo della Diaspora come passivo, degenerato, malato e sterile, ergendosi come `trasvalutatore' e riscopritore di una condizione ebraica `autentica'. Abbiamo anche visto il diritto insieme storico e morale che il sionismo reclama per l'ebraismo sulla Terra di Israele.
La sottovalutazione dell'alterità è stata una grave deficienza morale, psicologica e politica, connessa con una visione teleologica ed eurocentrica della storia. Qui non si tratta solo di valutare quanto i sionisti non percepirono l'esistenza di altri diritti, bensì di valutare come questi diritti fossero ritenuti conciliabili con i propri. La risposta non può che essere negativa. Se ci fermiamo a valutare le singole prese di posizione, è facile individuare non poche persone che capirono il prezzo che bisognava pagare per la realizzazione del proprio sogno nazionalista. Tuttavia, rimanendo all'interno di un discorso che, a partire dalla sua pratica microfisica, elimina l'altro e feticizza o reifica lo Stato su basi etniche, resta difficile presagire una pace che non sia semplicemente pragmatica, ma che aspiri ad essere ideologica.
La pratica del paradigma sionista
La storiografia sionista non nasce nel 1948, giacché il movimento sionista ha attirato nelle sue fila schiere di storici dell'Europa centro-orientale già dall'inizio del secolo. Ma è solo dopo la nascita dello Stato che l'ideologia diventa paradigma applicato. Il processo di costruzione dell'identità israeliana si presenta da subito problematico per ragioni di ordine politico, sociale e culturale. L'unità nazionale richiedeva una recita unica, una memoria che esaltasse, valorizzasse e inculcasse le gesta dei `padri fondatori'. La scelta sionista non solo doveva essere ammantata di un'aura di moralità, ma doveva anche apparire come il logico risultato della storia. Negli anni cinquanta e sessanta storici-pedagoghi come Ben Zion Dinur e Shalman Shazar dimostrarono che il sionismo era l'esito di una tradizione, non di una rivolta moderna.
La storiografia militante sionista fondava le proprie narrazioni sugli a priori storiografici che dipingevano il sionismo come l'inevitabile conseguenza della storia universale degli ebrei. In secondo luogo, esaltava l'icona del pioniere (il chaluz), su cui si sarebbe innestata quella del sabra, il nuovo ebreo israeliano `autentico'. In terzo luogo, cercava di evidenziare la continuità con l'epoca del Secondo Tempio in mezzo alla discontinuità della Diaspora (vedi il mito di Masada). In quarto luogo, non solo periodizzava la storia degli ebrei sulla base delle `torce' nazionaliste nella caverna dell'`età di mezzo' diasporica, ma si concentrava anche sulla ricerca delle radici ebraiche in Eretz Israel. In quinto luogo, sosteneva che la forza del sionismo stava nella capacità di sintetizzare particolare e universale, nazionalismo e socialismo. Infine, cercava di evidenziare l'eccezionalità della vittoria del 1948: l'esercito ebraico era il `Davide' che aveva sconfitto il `Golia' arabo.
Due sono i problemi su cui è bene soffermarsi: la percezione della questione palestinese e quella dell'olocausto. Come detto, i palestinesi erano stati esclusi dalla narrazione sionista in quanto considerati privi di coscienza nazionale, parti del paesaggio, fruitori dalla civiltà importata dai semiti europei, membri di una medesima nazionalità araba, contrari per principio allo Stato ebraico ecc. Se a tutto ciò aggiungiamo la politica dei paesi arabi durante la guerra dal 1948, l'esodo di massa dei palestinesi e lo scarso sostegno delle potenze vincitrici addebitabile alla Shoah e alle collusioni di alcuni leader arabi col nazismo, è facile presagire la scarsa predisposizione ad ammettere i limiti morali del diritto degli ebrei al proprio Stato.
La storia aveva decretato che lo Stato degli ebrei era potuto nascere solo dopo che gli ebrei interessati alla sua erezione erano stati sterminati. Questo paradosso doveva fare i conti sia con l'atteggiamento politico del sionismo palestinese durante la guerra, sia con la posizione che l'ebreo diasporico rivestiva nel paradigma sionista. Da un lato, nonostante alcuni gesti eroici, per una serie di ragioni la dirigenza sionista non contribuì al salvataggio degli ebrei in fuga dall'`ordine nuovo' nazista. Dall'altro lato, gli ebrei sopravvissuti ai lager o quelli insorti nei ghetti e attivi nella resistenza erano percepiti come portatori di altre memorie e di altre ideologie in conflitto con quella sionista laburista palestinese, giacché essi dimostravano che anche i non-sionisti o sionisti non-laburisti potevano reagire con la forza alle persecuzioni. Fu solo dalla fine degli anni cinquanta che si assistette al recupero dell'olocausto nella memoria pubblica israeliana con l'introduzione del Giorno commemorativo, con la creazione del memoriale Yad Vashem e con il processo Eichmann.
L'avvento della `nuova storiografia'
L'erosione del paradigma storiografico sionista inizia alla fine degli anni settanta, quando il trauma della Guerra del Kippur e l'intransigenza del Likud verso la questione dei territori occupati impongono a una nuova generazione di studiosi nati nel dopoguerra una serie di riflessioni anche morali intorno all'utilità politica e culturale del paradigma sionista. Questo processo di revisione è scandito dalla guerra del Libano e dallo scoppio della prima intifada, che ha il merito di far emergere tra l'opinione pubblica il problema dei territori occupati, fino allora ignorato o rimosso politicamente, culturalmente e psicologicamente.
Sarebbe tuttavia riduttivo non riscontrare nella rivalutazione della `nuova storiografia' l'influsso culturale delle correnti strutturaliste e poststrutturaliste importate sul finire degli anni settanta, che, lungi dall'affrontare una lotta `macrofisica' e `strutturale' contro il discorso sionista, hanno opposto un confronto critico sui modi in cui questo stesso apparato ha fabbricato un sistema di potere e un discorso che escludono a monte determinati attori. Il fenomeno della `nuova storiografia' può essere considerato compiutamente solo all'interno di feconde ibridazioni provenienti dal metodo comparativo delle scienze sociali e degli studi culturali. Solo in questo modo la `revisione' ha saputo trasformarsi in `rivalutazione' e in esame critico della memoria storica.
Le critiche dei nuovi storici alla `storiografia dell'establishment', sia di principio (concernenti gli a priori storiografici), sia di merito (concernenti le singole interpretazioni di dati avvenimenti), sono le seguenti.
a. Il paradigma sionista ha alimentato una visione selettiva della storia ebraica che sottende non solo una teleologia e una linearità indimostrabili, ma anche un'interpretazione `illuministica' della Diaspora, bollata come oscuro `Medioevo' ebraico.
b. Il popolo ebraico è un `popolo inventato': il sionismo ha costruito le tradizioni e la memoria storica dell'ebraismo ad libitum, recuperando le forme e svuotandole del contenuto originario (religioso).
c. Il sionismo è stato un mix riuscito tra un movimento colonizzatore simile a quello dei `bianchi' e il nazionalismo ebraico. Ha agito all'interno di una forma mentis tipicamente eurocentrica e `civilizzatrice'.
d. Il sionismo non incarna l'ethos ebraico dell'azione, del coraggio, ecc. in opposizione radicale alla storia della Diaspora caratterizzata dall'ethos della rinuncia e della passività, poiché non poche comunità ebraiche della `età di mezzo' hanno impugnato le armi per difendere i propri diritti, non necessariamente per motivazioni nazionalistiche.
e. La sintesi tra nazionalismo e socialismo propagandata dai `padri fondatori' è rimasta un'operazione virtuale, poiché, accanto a motivazioni intrinseche (nazionalismo organicista), nei decenni del Mandato i laburisti non hanno compiuto nessun reale sforzo per creare una società differente dal modello borghese.
f. Il canone storiografico sionista ha `inventato' i miti nazionalistici al fine di puntellare le radici ebraiche in Eretz Israel, ovvero il cosiddetto `diritto storico'.
g. L'etica militare, pur respinta a parole, è immanente il sionismo (anche laburista), ovvero non giustificabile sulla base della contingenza.
h. La memoria della Shoah è stata `sionistizzata', utilizzata non solo per giustificare e fondare moralmente lo Stato intorno alla parola d'ordine never again, ma anche per delegittimare le altre ideologie ebraiche che non hanno negato la Diaspora, e per giustificare azioni belliche edulcorandole con un'aura di moralità.
i. Nella guerra del 1948 l'esercito israeliano non è stato il `Davide' contro il `Golia' arabo, ma ha potuto usufruire di notevoli vantaggi strategici, sociali e organizzativi.
l. Nel 1948 i palestinesi non hanno lasciato volontariamente le proprie case a seguito di un appello radiofonico dei propri leader, ma se ne sono andati per una serie di ragioni che vanno da una `Grande Paura' di tipo lefebvreiana, alle divisioni della dirigenza araba e alle azioni `dimostrative' dell'esercito israeliano.
m. Nel 1947-48 la dirigenza sionista e la monarchia giordana hanno cercato di raggiungere un accordo volto a frustrare la nascita dello Stato palestinese sancito dalle Nazioni Unite.
n. Nei decenni successivi è mancata la volontà di intavolare negoziati diplomatici con i vicini per la presenza di pesanti tare ideologiche e di derive espansionistiche non giustificabili sulla base del principio della sicurezza o dell'intransigenza araba.
L'operazione di demistificazione avviata a cavallo della prima intifada ha avuto notevoli riscontri mediatici grazie anche a speciali televisivi e a documentari curati da storici-giornalisti come Tom Segev. La reazione della `vecchia' storiografia non si è fatta attendere, giacché l'accusa di faziosità, di servitù del `regime', ecc. è stata avvertita come un'offesa alla propria dignità di studioso e come un tentativo di delegittimare moralmente lo Stato d'Israele. Queste le principali obiezioni contrapposte alle critiche dei nuovi storici.
a. I nuovi storici ignorano il contesto storico in cui gli studiosi-soldati hanno operato, che ha richiesto l'elaborazione di una memoria storica alternativa a quelle diasporiche.
b. La denigrazione della personalità di Ben Gurion non è adeguatamente sostenuta dai documenti e si basa su illazioni o su speculazioni non dimostrabili.
c. Le tesi dei nuovi storici non sono così `nuove': la novità non è nell'approccio, ma nel concetto alla base del mestiere dello storico.
d. La documentazione è stata manipolata tramite l'eliminazione di frasi scomode, la decontestualizzazione di affermazioni o la manipolazione delle carte al fine ideologico di sostenere le tesi `revisionistiche'.
e. La pluralità di `recite' non è di per sé una garanzia dell'emersione della `verità' storica, giacché la deriva relativistica può indurre a interpretazioni altrettanto dogmatiche degli eventi.
f. I `padri fondatori' sono stati sinceramente animati da ideali socialisti, e i compromessi morali per la creazione dello Stato non possono inficiare le loro buone intenzioni originarie.
g. Il sionismo non è stato un movimento di tipo coloniale, poiché i pionieri hanno agito spinti da un richiamo sentimentale e non hanno trattato gli indigeni come hanno fatto gli europei.
h. Esiste una notevole differenza tra l'ethos difensivo dei `padri fondatori' e quello `offensivo' dei loro figli, tra la `purezza delle armi' dei socialisti e il militarismo dei revisionisti.
i. È impossibile dimostrare la volontà dei dirigenti sionisti a non aiutare gli ebrei in fuga dall'Europa, giacché tutto quello che avrebbero potuto fare erano atti utopistici o disperati ad personam.
Il dibattito degli ultimi anni si è allargato ai conflitti arabo-israeliani più recenti. La discussione non è solo storiografica, ma riguarda la costruzione dell'identità nazionale, la cittadinanza politica e la `emancipazione israeliana dal sionismo'. L'attacco al paradigma sionista si è allargato ad altre discipline come la sociologia, la scienza della politica, la letteratura, la filosofia, il diritto e l'economia. Gli eventi attuali non inducono a pensare che il paradigma sionista sia `morto e sepolto', né che la politica del fatto compiuto abbia fatto il suo tempo. Di fronte al prevalere degli estremisti, qual è il compito dello storico? La `nuova storiografia' rappresenta il passaggio definitivo dal `moderno' alla `condizione postmoderna'?
La `fine delle ideologie'?
L'erosione del paradigma sionista non significa di per sé pluralità di recite o di memorie. Né è pensabile una fase di transizione caratterizzata dall'assenza di miti coesivi. Il `post-sionismo' si trova a dover affrontare una concorrenza affatto disposta a rinunciare alla lotta egemonica; concorrenza sia interna sia esterna: da una parte il `neo-sionismo', dall'altro il `palestinismo'. Il `neo-sionismo' comprende quel movimento culturale e politico composto di ebrei ortodossi animati da ideali messianici e ultranazionalistici emerso dopo il 1967 che ritengono che tutta la `Terra di Israele' biblica debba essere ebraica. Questo movimento ha compiuto un'operazione analoga a quella dei sionisti originari: ha recuperato le forme dei padri fondatori svuotandole del loro contenuto (laico) per puntellare un'identità religiosa. Il `neo-sionismo' conduce una lotta per la `purezza' ebraica, per il recupero della tradizione della Legge e per la Terra.
Con tutti i limiti degli a priori storiografici, la storiografia sionista ha prodotto lavori di interesse documentario. Il discorso in campo palestinese (e, più in generale, arabo) è stato diverso. Innanzi tutto, gli archivi sono meno numerosi e in condizioni assai peggiori di quelli israeliani e occidentali. In secondo luogo, l'assenza di istituzioni democratiche e la censura vigente non hanno favorito l'operato di studiosi animati da sinceri sentimenti di analisi storica. Il problema, però, è ideologico. Manca in campo avverso l'operazione di ricostruzione-decostruzione del proprio passato che ne evidenzi i lati oscuri, gli errori politici e che si affranchi da ogni forma di vittimismo consolatorio e giustificatore non costruttivo ai fini dell'elaborazione di una nuova memoria. La politica ha ragioni che la scienza non conosce, si potrebbe obiettare. Parlare di `post-palestinismo' adesso parrebbe inattuale, anche per la semplice ragione che la battaglia egemonica dei post-sionisti non è vinta. È tuttavia un passaggio che, in un altro contesto, si renderà necessario.
La lezione della `nuova storiografia' israeliana non vuole essere di moralità storiografica. Non è nemmeno la revisione di singole interpretazioni degli avvenimenti. L'opera di demistificazione va compiuta nella consapevolezza che nel fardello del passato non vanno ricercate le ragioni della propria ragione, la giustificazione dei propri atti, la redenzione dalle proprie malefatte, una fondazione morale del proprio ego nazionale. Il passato deve insegnare che si può sbagliare, si può cambiare, si deve agire e nondimeno essere responsabili dei propri errori. La `nuova storiografia' è storiografia etico-politica. Non è `a-ideologica', né pensa di offrire sul piatto d'argento della storia la interpretazione degli eventi passati. È consapevole che `la fine delle ideologie' impone l'abbandono di a priori storiografici e nondimeno l'impegno civile. È revisionistica, ma non vuole piegare le ragioni della scienza a quelle della politica. È una prospettiva aperta alle sfide lanciate dalla `postmodernità', che, facendo tesoro del suo antilogocentrismo, non animi derive relativistiche, consolatorie e assolutorie del proprio passato.
Rassegna bibliografica (in ordine cronologico)
David Bidussa (a cura di), Il sionismo politico, Milano, Unicopli, 1993; Alain Dieckoff, L'invention d'une nation. Isräel et la modernité politique, Paris, Gallimard, 1993; Tom Segev, The Seventh Million: The Israelis and the Holocaust, New York, Hill and Wang, 1993; Baruch Kimmerling e Jael Migdal (editori), Palestinesi: la genesi di un popolo, Firenze, La Nuova Italia, 1994; Benny Morris, 1948 and After: Israel and The Palestinians, Oxford, Oxford University Press, 1994; Yael Zerubavel, Recovered Roots: Collective Memory and the Making of Israeli Nation Tradition, Chicago, University of Chicago Press, 1995; Renzo Guolo, Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazionalreligioso in Israele, Milano, Guerini e Associati, 1997; Ilan Greilsammer, La nouvelle histoire d'Israël. Essai sur une identité nationale, Paris, Gallimard, 1998; David J. Goldberg, Verso la Terra promessa. Storia del pensiero sionista, Bologna, Il Mulino 1998; Laurence J. Silberstein, The Postzionism Debates. Knowledge and Power in Israeli Culture, New York and London, Routledge, 1999; Zeev Sternhell, Nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, Milano, Baldini & Castoldi, 1999; Guido Valabrega (a cura di), Palestina. Un confronto lungo un secolo tra miti e storia, Milano, Teti Editore, 1999; Dominique Vidal, Il peccato originale di Israele. L'espulsione dei palestinesi rivisitata dai `nuovi storici' israeliani, presentazione di Antonio Gambino, San Domenico di Fiesole, ECP, 1999; Efraim Karsh, Fabricating Israeli History. The `New Historians', Second Revisioned Edition, London, Frank Cass, 2000; Avi Shlaim, The Iron Wall. Israel and the Arab World, London, Penguin Books, 2000; Paolo Di Motoli, La destra italiana. Biografia di Vladimir Jabotinsky, prefazione di Gad Lerner, Milano, M & B Publishing, 2001; Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Milano, Rizzoli, 2001; Vincenzo Pinto, I sionisti. Storia del sionismo attraverso i suoi protagonisti, introduzione di David Bidussa, Milano, M & B Publishing, 2001.