DA TALATTA (Nicola Zitara):
Ytalìa
Forse qualcuno dei lettori de “la Riviera” ricorda che la scorsa settimana ho citato l’ing, Guiducci e il Piano di Sviluppo per la Calabria. Si tratta di un documento complesso e pertanto studiato da pochi. Peraltro nessuno ha mai potuto dire se il Piano fosse buono o cattivo, perché rimase inapplicato nonostante le decine di miliardi spese dallo Stato (al tempo non c’era ancora l’ente regione). Lo Stato si prese il Piano, lo pagò e lo buttò nel cestino. Ora, tutti sappiamo che lo Stato è un nome, e nient’altro. Esistono invece gli uomini di carne e ossa che lo governano, ed esistono anche i governati, i sudditi o cittadini, a seconda come si preferisca chiamarli, che formano l’elettorato e prima ancora l’opinione pubblica.
Ma anche l’elettorato e l’opinione pubblica sono creazioni della mente, concetti astratti. Esistono, invece, e concretamente gli interessi di collettività facilmente identificabili: le classi, i ceti, i partiti, la popolazione di una città, di un paese, di una regione. Questi gruppi, lobby, ceti, classi, collettività regionali, orientano il risultato elettorale. Premono sull’elettore indistinto affinché si schieri a favore di un interesse di gruppo o contro un interesse di gruppo. E’ la cosiddetta democrazia. Nei sistemi nazionali democratici, gli elettori sono orientati dalla comunicazione, dai mass-media (compresa la scuola, che in Italia è il più infedele dei mass-media ed ha il compito di formare i giovani con idee tarate dalla retorica e spesso false, specialmente in materie come la storia, l’economia, il diritto). Per dirla in breve i gruppi capitalistici e l’opinione prevalente nelle regioni toscopadane bloccarono la pianificazione regionale calabrese e tutte le altre pianificazioni regionali, che non secondavano i loro interessi (già consolidati), ma avrebbero secondato gli interessi delle popolazioni. Si sa che ogni uomo ha degli interessi precisi, fra cui quello di non cedere ad altri una parte di quel che possiede e anche di quel che si ripromette d’avere; cosa per la quale sta lavorando. I mass-media al servizio dei capitalisti toscopadani ebbero buon gioco a propalare l’idea che i costi per sviluppare l’occupazione e la produzione al Sud sarebbero stati sopportati dalle altre popolazioni regionali.
Lo Stato italiano, in astratto, potrebbe non essere contrario agli interessi dei meridionali. Anzi, in astratto, considera i meridionali come cittadini a pari titolo. Chi governa, però, deve tenere conto dell’opinione prevalente, che promana da chi dispone di mezzi adeguati per manipolarla; conseguentemente conforma la sua azione non agli interessi generali ma a quelli particolari.
Lo Stato italiano è perciò un Metà Stato. In 150 anni di vita unitaria ha fatto dell’Italia un Metà grande paese. L’altra metà l’ha data in pascolo abusivo alle indomite fiere della Confindustria.
Il nostro paese esiste e ha una storia a partire da alcuni millenni prima che gli Elleni arrivassero alle sue sponde con una nuova civiltà (la Magna Grecia). Le popolazioni che abitavano la Grecia prima degli Elleni lo chiamarono con molti nomi, di cui uno solo sopravvisse: Ytalìa. Questo nome, modificato dalla cadenza latina in Italia, oggi definisce l’intera penisola. Ma ciò è una circostanza accidentale e non un fatto consolidato dalla storia di lungo periodo. La condizione imprescindibile perché il Sud si sviluppi, perché dia lavoro alla sua gente, perché risorga dallo schifo a cui l’Italia unita l’ha portato, è che torni libero e indipendente. Riappropriamoci delle nostra vera storia militare, dai Sanniti ai Bruzzi, da Spartaco al Cardinale Ruffo, dai Vespri siciliani a quella lotta per la terra e la libertà dallo straniero velenosamente mistificata come Brigantaggio. E con il nostro grande passato militare, riappropriamoci anche del nostro grande passato civile (e socialista, o solidarista che dir si voglia), il quale va dall’istituto giuridico della colonia perpetua e dell’enfiteusi, come rimedio e superamento della rendita feudale, all’Opificio di San Leucio e all’Officina statale di Pietrarsa, come fattori di progresso civile, economico, occupazionale.
Fora …Fora… Fora…
L’albero di Natale e il peperoncino rosso
Quando ero ragazzo - un tempo lontano, perduto ormai in ogni suo aspetto sociale, di cui sopravvive qualche residuo soltanto nella memoria di pochi e solo per poco tempo ancora – l’albero di Natale non c’era. Lo si vedeva, a volte, in un film americano, dentro un paesaggio di neve. Da noi c’era invece il presepe, anzi i presepi, e si faceva a gara a chi lo faceva più grande, più bello, più animato di pastori in viaggio, di casupole sparse fra valli di cartapesta, di specchi da borsetta a fingere acque fluenti e placidi laghetti, di pecorelle intente a brucare il muschio raschiato dai vecchi muri e steso sulla tavola, a fingere l’erba. A vincere era sempre Ciccio Frascà, che aveva più inventiva e garbo degli altri. Egli otteneva l’aiuto di scultori in erba, i quali, con l’argilla appena estratta dal greto di un torrente, ogni anno, fabbricavano nuovi pastori, ricalcandoli da fantasie bibliche e dalla lettura domenicale dei Vangeli in chiesa. Il presepio di Ciccio era a Santa Caterina. A Portosalvo, i pastori erano gelosamente custoditi in cassette di legno piene di paglia da un anno per l’altro, ciò da decenni se non da secoli. Erano grandi, invadenti, la loro statuarietà riempiva la scena. In compenso l’autore – ai miei tempi Vincenzino Firmano - aveva a disposizione un grande spazio, l’abside di una delle tre navate della Chiesa, e la possibilità di occuparlo con un’infinità di particolari, che ogni anno rinnovava.
Fare il presepio era un gioco favoloso per noi ragazzi. Un gioco delle mani e della fantasia; quasi un’arte; una che è mancata e manca purtroppo a chi è venuto dopo. I ragazzi ricchi la esplicavano in spazi più grandi e con molti particolari, i ragazzi poveri la concentravano in poco spazio e in uno spettacolo sintetico a lungo maturato.
Il presepio è stato soppiantato dall’albero di Natale. La merce ha battuto il lavoro, la cosa comprata ha sconfitto la cosa faticata. L’America ha convinto l’Italia, il Nord, con sue idee copiaticce, ha infettato il Sud. Sono vecchio, il passato per me è un ricordo, non una nostalgia. Non lo rimpiango, anche se qualche volta lo evoco. I presepi non mi attraggono ormai. Quel passato non deve tornare: mai più la fame, che dannava gli esseri umani e li portava a maledire il padre, la madre, la vita, il mondo, Dio. E state attenti. il capitalismo l’ha portata in tre quarti del mondo, in luoghi dove prima non c’era, insieme al disarmo morale, all’ADS e alla negazione dell’umana solidarietà. Cosicché questo attuale andare avanti senza bussola, senza una meta, senza un progetto, senza amore, senza orgoglio, senza consapevolezza di sé, solo per i soldi, alla mercé di un padronato politico paurosamente immorale e sostanzialmente nemico, potrebbe riportarla in scena e rinnovare antiche sofferenze. Ma anche a prescindere da tale infausto pensiero, da uomo maturato in tempi di idee forti, mi amareggia l’alienazione che la gente subisce senza rendersi conto della violenza - la perdita di sé, della sua storia, dei suoi costumi, della sua identità collettiva, della stessa ragione; quasi una prostituta che vende sé stessa non per bisogno ma per masochismo.
Il dilagare di mafia, camorra, ‘ndranghita è qui a mostrarci a qual punto di dissoluzione, a quale immane disastro, lo stato italiano ha portato il nostro paese. Non sappiamo più difenderci, difendere i nostri figli, preparare un avvenire per loro. Tutto è in mano a una consorteria di malfattori che ci commercia e ingrassa sulla nostra beota idiozia. Eppure non siamo il popolo che ha come suoi unici trofei e penati il peperoncino rosso, le soppressate e il ragù di capra, secondo quel che si compiace di sostenere la sociologia accademica. Siamo stati un grande popolo, abbiamo una grande storia. Non c’era alcun bisogno che arrivasse Garibaldi per insegnarci la libertà, sapevamo difenderla per antiche virtù, l’avevamo difesa in cento passaggi della storia. Siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Siamo stati civili quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Il nostro passato non è lontano millenni, come si racconta, ma solo centocinquant’anni. E’ necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro.
Credo fermamente nella redenzione terrena degli uomini, nella loro vocazione alla libertà. So, però, che nessun uomo è libero se il popolo a cui appartiene non lo è. A Natale, il semestrale corso calante del giorno si esaurisce e comincia la stagione del giorno crescente. Cristo che nasce è la fede nella redenzione. Anche un ateo può aver fede in tale travolgente vocazione umana. Di suo, un socialista aggiunge l’azione concreta. O se vogliamo usare una vecchia parola, la lotta.