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  1. #21
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    Città fuori le mura/188
    Gli strappi di Torpignattara

    Strade che mutano in altre strade, come un gomitolo di fili che cambia colore: per arrivarci giro in via Cencelli e il pensiero vola al manuale, Un volantino del Comitato di quartiere annuncia una riunione nella Sala del Consiglio di piazza Marranella. Rovine, cabaret e mattoni nel quartiere icona del 'popolo romano'
    di Laura Pugno

    Mi metto in strada per Torpignattara un sabato mattina che affiora come una giornata di sole. Ho guardato bene sullo stradario: all' altezza della Casilina, via dell' Acqua Bullicante diventa via di Torpignattara, per poi cambiare pelle un' altra volta, in direzione della Tuscolana all' altezza di Largo Nicolò Licata, in via di Porta Furba. Strade che mutano in altre strade e ancora in altre, come un gomitolo di fili che cambia colore. Da via Casilina via di Torpignattara è senso unico; per arrivarci giro per via Amedeo Cencelli, e anche se la connessione è gratuita, puramente onomastica, il pensiero vola a quel «manuale Cencelli» che Wikipedia, a uso dei lettori più giovani, definisce «una formula algebrico-deterministica per regolare la spartizione delle cariche pubbliche in base al peso elettorale di ogni singolo partito o corrente politica. E' attribuito a Massimiliano Cencelli, un funzionario della Democrazia cristiana» negli anni Sessanta. Su via Cencelli, mi viene incontro un personaggio surreale: un signore tanto anziano da sembrare antico più che vecchio, col viso coperto di fuliggine (fuliggine?) che pedala su qualcosa che più che una bicicletta viene da definire velocipede. Va nel senso opposto di marcia come un' epifania, un' apparizione: un attimo è lì, l' attimo dopo non c' è più. Però, ancora buoni polmoni e buone gambe il ragazzo, penso alzando al massimo il riscaldamento della macchina. Che sia lo spirito dei luoghi, il lare dell' Acquedotto Alessandrino che la strada mi fa ritrovare contro, prima di offrirmi un insperabilmente facile parcheggio? Beh, comunque grazie (per il parcheggio).

    Nel sole della mattina l' Acquedotto è circondato da un fazzoletto di verde con tronchi squadrati a panchina e cipressi, non c' è ancora nessuno, merito della mattina presto, solo due signore sulla sessantina passano in tuta, con in spalla identiche sacche blu con il logo e la scritta di una palestra. Se ne escono così, le rovine romane, a cielo aperto, alla bell' e meglio e allo stesso tempo con una certa improntitudine, cime a dire, sono ancora qui, sono proprio io, e allora? Non c' è l' aspettativa dei Fori - sai che ci sono, che sono proprio lì, sei psicologicamente preparato - non c' è la traslazione magica di un' Appia Antica, di una strada che passa in un altro tempo, siamo nel presente, nell' adesso-adesso, nel qui e ora. E l' acquedotto se ne sta lì, se ne starà lì, si capisce, ancora per un bel pezzo, mentre noi ci chiediamo se l' Italia diventerà davvero un deserto tra cent' anni o se qualcuno si deciderà a fare qualcosa per il riscaldamento globale, se e quando i tg smetteranno di confondere un aumento di sei gradi con un aumento del 6%, o di propinarci la scusa rassicurante che gli esperti sono in disaccordo quando ormai è chiaro a chiunque abbia occhi per vedere, e piumini ritirati in tintoria ad agosto e ancora incellofanati nell' armadio, tanto basta il cappotto, che non lo sono.


    Se ne sta lì, l' acquedotto, nel sole giallo di questa mattina di sabato e intanto altre chiazze dorate mi colpiscono gli occhi: giallo di una busta di limoni sparpagliati per la strada in un posto auto libero, qualcuno già spiaccicato, altri miracolosamente intatti; giallo e blu della giacca di una giovane postina che passa spingendo uno quei carrellini che le vicine di mia nonna usavano per portare a casa la spesa negli anni Settanta, solo che questo, immagino, è pieno zeppo di raccomandate. Al 132 di via Torpignattara, quei gialli si fanno eco nel giallo di un volantino del Comitato di quartiere, che annuncia una riunione nella Sala del Consiglio di Piazza Marranella. «Un grammo di partecipazione vale più di una tonnellata di parole», recita nero su giallo. Su via di Torpignattara, la sezione di Alleanza Nazionale e quella dei Democratici di sinistra sono a pochi numeri civici di distanza; davanti a quest' ultima, due lapidi. Una ricorda «Ciro Principessa, di anni 23, militante comunista ucciso da mano fascista, il 20 aprile del '79; l' altra è alla memoria di Valerio Fiorentini, torturato nel carcere di via Tasso alla fine della Seconda guerra mondiale e poi trucidato alle Fosse Ardeatine. Poco più avanti, una pescheria sui cui gradini un distinto signore dall' aria orientale - un giapponese che compra il pesce per il sushi? - parla al cellulare, un «Abbacchi polli e cacciagione» trasformato in phone point, un ragazzo con il parka con il collo di pelliccia e l' aria da agente immobiliare che passa portandosi dietro, quasi a braccetto, due ragazzi dall' aspetto indiano, o pakistano. Un brandello di conversazione resta nell' aria: "Sono due camere e cameretta, serve sempre la cameretta. no?".

  2. #22
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    Città fuori le mura/189
    Lo scacchiere dei Villini dentro l'anima del Portuense

    Un quartiere, uno scrittore Francesco Piccolo a Roma Est. Il Forlanini irradia una forza centripeta e autoritaria Molti ci tengono a dire che questa zona si chiama Arvalia, nome scelto da un concorso in municipio. La luce tra quella schiera di palazzi non alti ma solidi Qui ci sono stradine fitte, grandi edifici e scuole Le case basse a schiera hanno dato il nome alla zona Come ai tempi del Partito: se affermava di essere a Villini, così era
    di Francesco Piccolo

    Quando la Portuense si infila sotto via Majorana e si rialza per proseguire senza tanti fastidi verso l' esterno, cominci a guardare a destra e vedi comparire in sequenza le grandi entrate degli ospedali - lo Spallanzani e il San Camillo e dopo un po' , la grandezza pallida e decadente del Forlanini, che sembra un sanatorio svizzero dove si svolge senza fretta un romanzo di centinaia e centinaia di pagine; mentre qui fuori - appena fuori - auto, moto, bus e camion frenano e sgommano per ripartire. L' asfalto continua a sopportare e attutire chiasso e nevrosi e a dividere con nettezza gli ospedali dai centri abitati. Di fronte al Forlanini, che sembra irradiare sul territorio una forza centripeta e autoritaria, come se la vita qui dipendesse dalla sua grandezza - e fino a qualche decennio fa è stato davvero così - la schiera di palazzi, non alti ma solidi, che lasciano passare solo un po' di luce tra l' uno e l' altro e quella luce non sembra che possa dare forma a strade, ma solo a spiragli. è una questione di sequenza costante e di prospettiva, che si scopre falsa a mano a mano che si allargano mentre passi loro accanto; ma non del tutto falsa: sono stradine, non strade.

    Soltanto quando arrivo a via degli Irlandesi, decido di entrare e abbandonare la Portuense. è la strada che sfiora il Forte Portuense, che è stato attivo alla fine dell' Ottocento e dismesso nel 1956 e solo da un paio di anni sono cominciati i lavori per riportarlo alla vita: adesso c' è un circolo, un asilo infantile in via di costruzione, varie possibili novità, e ai suoi piedi una chiesa moderna alta e imponente, quasi sproporzionata. Girando intorno al Forte, si fa una gran fatica in mezzo a un traffico pesante e quasi insostenibile. Non casuale. Comitati di quartiere si sono attivati per dialogare con le autorizzazioni a parcheggi o centri commerciali, solo per il terrore di vedere appesantito il traffico che è molto intenso per molte ore del giorno. La Portuense è trafficata, e qui ci sono stradine fitte e grandi palazzi, molte scuole. Davvero una congestione difficile da gestire. Pare che i villini, cioè le case basse a schiera che avrebbero dato il nome a questa zona, fossero una serie di costruzioni del Forlanini ad uso dei suoi dipendenti. Una sorta di quartier generale agile e utile. Pare che poi questi villini non ci siano più, sostituiti da quella edilizia in espansione dagli anni Cinquanta che ha formato la quasi totalità di Roma a partire da fuori le mura. Pare, dicono alcuni altri, che quelli che si vedono più giù, a via Brisse, davvero di fronte al Forlanini, siano i villini a cui ci si riferisce.


    Dico "pare" con coscienza di causa, perché, in modo stupefacente, praticamente nessuno di quelli che abitano nella zona Villini sa di abitare nella zona Villini. è questa la conclusione a cui sono giunto dopo esserci stato due volte. Tranne due o tre persone anziane e una signora gentile della Tecnocasa, non ce n' è una delle persone a cui ho chiesto, con le quali ho chiacchierato, che sapesse che il posto dove vivono si chiama così. E la signora della Tecnocasa e i due o tre anziani, mi hanno detto: sì, molti anni fa si chiamava così, quaranta, cinquanta anni fa. Ora non più. E tutti fanno riferimento alla sezione dei Democratici di Sinistra che c' è in via Pietro Venturi, che si chiama sezione "Portuense Villini". Come se fossimo ancora ai tempi del Partito e se il Partito affermava di essere a Villini si era a Villini (fino casomai al "contrordine compagni!" di Guareschi~) Il contrordine ha a che fare davvero con il fatto che la consuetudine di "villini" è davvero sparita, dimenticata - e non mi pare che coloro che la ricordano siano particolarmente nostalgici.

    Insomma, la situazione è alquanto confusa: molti rispondono che questa zona si chiama Portuense e basta; molti altri ci tengono a dire che ora si chiama Arvalia, e dicono bene perché fa parte del XV Municipio, ma Arvalia Portuense è un territorio di oltre 70 chilometri quadrati e il suo nome è stato scelto in un concorso del Municipio e si riferisce a un antichissimo collegio sacerdotale; due vecchi seduti davanti a un garage, come in un film di Spike Lee, hanno litigato sulla questione se mi riferissi a quei villini che hanno appena costruito o a quel paio di villini che stanno qui da un sacco di anni. E soprattutto, alla fine tutti, giustamente, mi chiedevano: ma lei cosa vuole, chi cerca? Perché in fondo se ero in cerca di qualcuno o qualcosa era inutile farla tanto lunga. Via Pietro Venturi unisce via Portuense a viale Prospero Colonna. Queste strade adesso sono una lunga fila di auto e di gente paziente che non si arrabbia perché è abituata. Non so se qui c' erano i villini, davvero non lo so. La sede dei Democratici di Sinistra, che mi dava una speranza di capire, con il suo sottotitolo "Portuense Villini" è irrimediabilmente chiusa. All' interno ci sono sedie vuote e un bastone da passeggio appoggiato a un tavolo. Sulle finestre le consuete pagine dell' Unità ostruiscono un po' la vista. Davanti alla porta al piano terra qualche bandiera mista di Ds e Ulivo, che forse aspettano di accoppiarsi per far nascere il Partito Democratico.
    Mentre mi appoggio al muro per prendere qualche appunto, due ragazzine di quattordici anni al massimo si avvicinano e mi chiedono se ho qualche moneta che devono telefonare. Do loro un euro e mezzo e sembrano raggianti, e quando chiedo in cambio una sigaretta che una delle due sta fumando, quella risponde: «c' ho solo questa, l' ho scroccata a uno». Almeno, provo a fare conversazione. Chiedo come vivono qui, come si trovano. «Bene, perché?» Cerco di spiegarglielo cosa sto facendo, voglio capire, ma loro non capiscono cosa voglio capire e anche loro hanno ragione: è il luogo dove vivono, cosa voglio che dicano? è il loro quartiere, sono i loro palazzi, le loro strade, qui cercano soldi per chissà quale motivo, visto che nessuno fa più uso di telefoni pubblici né se ne vedono in giro. Come succede spesso nei quartieri di Roma, la viabilità schizofrenica rende alcune strade vuote di auto e di gente, come l' ultima parte di via Pietro Colonna, perché non conduce da nessuna parte se non davanti a una rete metallica che dà sul nulla di strade, ma su un lungo e largo panorama di Roma, che si vede da ogni spiraglio lasciato vuoto dai palazzi per tutta la zona dei Villini (o come altro si chiama).

    La basilica di San Paolo è l' unico monumento che corrisponde alle mappe delle guide turistiche, quelle costellate di disegnini di chiese e colossei e musei; per il resto, Roma la riconosci per la luce, i colli intorno, e l' edilizia bella e brutta che l' ha riempita negli anni. Un' altra strada sinuosa e vuota è via Giannetto Valli. Qui c' è un silenzio irreale rispetto a cento metri più in là e quindi posso assistere a un' azione che non mi capitava di vedere dagli anni in cui vivevo in provincia. Un giovane in una monovolume nera infila una stradina, si ferma in mezzo alla strada perché tanto non passa nessuno e dà un colpo di clacson, breve, secco, preciso. Poi abbassa il finestrino e fischietta. Un paio di minuti dopo una ragazza esce da un portone saltellando e si infila in macchina e lo bacia. Il colpo di clacson breve, secco, preciso era per lei. E suonerà ogni giorno. E lei su a casa avrà le orecchie tese per sentirlo e urlerà «io esco» appena dopo. Questa scena insegna una cosa altrettanto breve, secca, precisa: che lì dove c' è silenzio, gli esseri umani fidanzati e non, le loro auto, monovolume e non, si adattano facilmente a una comunicazione sociale che assomiglia subito a un tempo più antico. Non voglio niente, voglio capire - rispondo a quelli che mi chiedono perché faccio tante domande.

    Ma è come con le ragazzine che fingono di dover telefonare: la vita dei quartieri pulsa e nevrotizza e preme e spreme, ma è vita quotidiana, concreta, che prescinde dai nomi dei luoghi e a stento riesce a considerare la stratificazione della storia. Alle volte, anche la buona intenzione di voler capire, quando intacca la concretezza di una comunità, diventa un po' molesta. Sì, va bene, tutte queste persone che vedo qui intorno vivono a Villini, non vivono a Villini, lo sanno o non lo sanno - la questione non cambia la sostanza della loro vita. Se dei villini ci sono stati davvero - come presumiamo tutti - non ci sono più e non ve n' è traccia. E di questa cosa non importa più tanto nemmeno ai più vecchi. Così me ne vado a passeggiare, entro ed esco dai bar, mi fermo a guardare le madri o i padri che tornano da scuola con i figli e subiscono l' insofferenza di dover rispondere alla domanda inevitabile: «com' è andata oggi?», colleziono nomi assurdi di negozi di abbigliamento e cartolerie e una pasticceria appena rinnovata. E lì vedo le due ragazzine che mangiano con avidità dei dolci alla crema e si sbrodolano. Tutto meglio di quanto pensassi, mi dico, mentre loro arrossiscono. Resta il mistero del perché mi hanno detto che dovevano telefonare, ma non ho intenzione di fare più nessuna domanda.

  3. #23
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    Città fuori le mura/190
    Quel Casal de' Pazzi sognanti

    In viaggio tra cormorani, pizzerie e amori impossibili. Verso la Nomentana, a via Zanardini, nel '400 c' era la tenuta della famiglia Pazzi Tra via Tiburtina e via Nomentana pulsa la vita del quartiere: enoteche, negozi... Alcune sezioni delle facciate dei palazzoni sono colorate di blu, o di verde: il risultato è un patchwork disarmonico, il lavoro di un pittore naif Uno scrittore, un quartiere. Rosella Postorino a Roma Nordest. La via è piena di bar, uno attaccato all' altro e anziani coi berretti di panno uffici e Cnr centro sociale edifici bassi giganti di cemento
    di Rosella Postorino

    In principio Casal de' Pazzi era una canzone di Renato Zero. Era quattro ragazzine diciassettenni che si chiudevano in tavernetta per cantarla a squarciagola. «Casal de' Pazzi, dei pazzi sognanti» ci faceva immaginare una «Roma a perdere» piena di disperati e maledetti. Ci sentivamo diverse, nella nostra trasgressione da oratorio, in cui il fascino per il travestimento e l' omosessualità conviveva con quello per Pirandello letto in siciliano, con Non è la Rai, con il Padre Nostro cantato sull' altare, la mano di una incatenata a quella dell' altra, e disegnavamo su fogli volanti la casa romana dove saremmo andate a vivere, un giorno, tutte insieme. Poi, Casal de' Pazzi diventò una traversa di via Tiburtina: ci girava il 311, su cui salivo alla Stazione della metro Rebibbia per scendere all' incrocio tra viale Kant e viale Marx, il primo anno che abitavo a Roma.

    Del foglietto con la rudimentale planimetria si erano ormai perse le tracce, le ragazzine avevano seguito percorsi diversi, solo io dopo anni mi ritrovavo a Roma per caso, anzi per amore, e una/due volte al mese attraversavo con l' autobus Casal de' Pazzi per portare nuovi capitoli della tesi al mio professore, nel suo ufficio di viale Marx. Erano stati i palazzoni di sette/otto piani a impressionarmi: imponenti blocchi di cemento retti da squadrate, grigie colonne. Nel portico immaginavo agitarsi storie di ragazzini di periferia, amare come in Tutto o niente di Mike Leigh. Torno adesso dopo qualche anno, e mi accorgo che alcune sezioni delle facciate di quegli edifici sono colorate di blu, o di verde: il risultato è un patchwork disarmonico, sembra il lavoro di un pittore naif che si è fermato a metà dell' opera. A Casal de' Pazzi i palazzoni convivono con costruzioni di tre piani al massimo, in mattoncini rossi, e con abitazioni a pian terreno recintate da cancelli dove la veranda, il giardinetto e addirittura la legna accatastata fuori sembrano simulare un pezzetto di campagna strappato con le unghie alla città.


    Via Casal de' Pazzi è piena di bar, uno attaccato all' altro: tavolini di plastica nei déhore, e anziani coi berretti di panno seduti a conversare. All' incrocio con via Francesco Selmi, dove c' è un immancabile phone center fuori dal quale chiacchierano in piedi extracomunitari, un altare in cemento intonacato di bianco protegge un crocifisso, che forse avrà esaudito le preghiere di chi l' ha omaggiato con vasi di fiori, piantine grasse, tulipani finti, ceri accesi e, in mancanza d' altro, una bottiglia vuota di acqua Guizza lievemente frizzante tagliata a metà, dove giace ormai spenta una candela. La via successiva entra nel parco di Rebibbia: è buio, ma riesco a intuirne l' ampiezza, e a distinguere le sagome di un gruppo di ragazzini stranieri appoggiati al muretto che delimita il parco, illuminati a malapena dalle lucine dei cellulari con cui giocano. Un bambino porta a passeggio il fratellino in carrozzina, mentre il padre lo sorveglia qualche metro più in là, poi gli rivolge in una lingua sconosciuta una frase che ha il tono di un ordine, ed ecco che il bambino gli si avvicina e gli cede il comando della carrozzina. Il muretto è privo della fila superiore di mattoni: sulla sua cima, coni di cemento spuntano equidistanti, come tante guglie irregolari e smangiucchiate sul perimetro di una torre.

    Tra un cono e l' altro si formano delle specie di conche, che sembrano segnalare i posti a sedere come in una fila di sedie nella sala d' attesa di una stazione. Dall' altra parte del muretto, pini marittimi, cespugli, lo scheletro spoglio di un' altalena, una spaziosa pista di pattinaggio. Da questa parte, il sentiero che conduce alla stazione, molto trafficato. è in questa zona, che sorge tra via Tiburtina e via Nomentana, che sembra pulsare la vita del quartiere: enoteche, negozi, pizzerie, signore che portano a spasso il cane stringendosi nel cappotto color cammello, anziani che giocano a bocce, coppie di stranieri sedute sulla scalinata a raccontarsi chissà quali progetti per il futuro, ragazzine che si fotografano coi cellulari cercando ogni volta una posa migliore, e quando si riguardano scoppiano a ridere, una bimba che palleggia contro il muro della chiesa, mentre i fedeli intonano Il tuo popolo in cammino con tale convinzione che li posso sentire ancora molti metri dopo, mentre avanzo sullo stesso marciapiede.
    Più via Casal de' Pazzi si avvicina verso la Nomentana, invece, più gli alberi prendono il posto dei negozi, e per strada non passeggia più nessuno. è verso la Nomentana, a via Zanardini, che si trova il casale che dà il nome al quartiere. Pare che la tenuta appartenesse nel Quattrocento alla famiglia fiorentina Pazzi, poi passò di proprietà a diverse famiglie nobiliari, a cardinali e a monasteri, e nel ' 43 vi furono persino rinchiusi alcuni partigiani della formazione di Pietralata e Tiburtina. Attualmente è una villa privata protetta da un altissimo muro di cinta, inaccessibile. Pare conservi ancora il suo aspetto medievale, con due torri di diversa altezza (una risalirebbe a un casale-torre del XIII secolo, trasformato e riutilizzato dai Pazzi sotto il pontificato di Sisto IV, l' altra alla metà del XVI secolo, attualmente merlata ma originariamente coperta a tetto) e che il casale custodisca frammenti di decorazione scultorea e architettonica. Oggi la struttura è comunemente chiamata il Castello, e in pochi sanno che è il casale da cui ha preso nome la via. Prima di trovarlo, infatti, ho vagato confusamente per il Parco dell' Aniene.

    Una ragazza era uscita dalla sua fattoria con la felpa di pile - una fattoria nel mezzo della città! - per indicarmi la strada verso il casale. Accarezzando il mio cane, mi ha raccontato del suo morto da 5 mesi, e le si sono inumiditi gli occhi. Lei di certo non avrebbe avuto paura di quella nebbia: un ammasso di lana appoggiato sulla terra, sotto il cielo nero dei pomeriggi invernali: quasi un gioco di luci su un set cinematografico. Lei che alleva le pecore avrebbe potuto camminare sull' erba e bagnarsi le scarpe senza aver paura di una nebbia così incredibilmente bassa, che sfoca i contorni, avrebbe riconosciuto ogni ombra e ogni odore. Io invece ho desistito, per ritornare di mattina, quando sono visibili i piloni dell' elettricità, si sente il lamento della sega elettrica in lontananza e si intravedono le abitazioni oltre gli alberi che circoscrivono l' immenso prato come un sipario che scopre la città. Un cartello informa che lungo le anse dell' Aniene, tra la vegetazione, si rifugiano diverse specie di volatili, dalla gallinella d' acqua all' airone cenerino, dal martin pescatore al cormorano. Nel tempo, l' ormai torbido affluente del Tevere ha cambiato il suo corso: in una zona che prima corrispondeva al suo letto, ora divenuta il sito archeologico di Rebibbia Casal de' Pazzi, sono stati ritrovati importanti reperti.

    Dopo un chilometro di cammino trovo un casale dismesso, ma si chiama La Torre: è un centro sociale assegnato dal comune. Ha in piedi diverse attività che coinvolgono anche i disabili: dall' agricoltura biologica ai laboratori teatrali. Dalla terrazza si vedono le pecore al pascolo. Mentre i cani sonnecchiano, due ragazzi passano energici lo straccio sul pavimento. Continuando per il sentiero, sbuco di fronte al mercato comunale di Casal de' Pazzi: si dice, uno dei più economici della capitale. Faccio un giro tra le bancarelle fino in fondo e spunto proprio all' incrocio tra viale Kant e viale Marx, davanti all' orribile edificio di cemento e ferro che assomiglia alla sala motori di una fabbrica, dove ha sede una sezione distaccata del Cnr. Ricordo quando uscii da quell' edificio piangendo, perché un docente universitario è innanzitutto un uomo, e una neolaureata resta comunque una donna, anche quando lo ignora, anche se non ha fatto altro che portare ogni due settimane nuovi capitoli della tesi, fino al grande giorno, e quando dopo percorre ancora col 311 via Casal de' Pazzi, per una visita di cortesia, si chiede se davvero sia così bella questa Roma con le sue borgate, quella che immaginava da ragazzina come la scenografia di tante storie umane, prima di tutto, prima ancora che come la città del Colosseo.

    Sconvolta, la vista annebbiata dalle lacrime, quel giorno vagavo a piedi per quelle strade oppresse da palazzi troppo alti, e non ricordavo alcun verso di quella canzone, «esiste un cielo per il perdono», l' avevo dimenticata, ormai l' avrei trovata retorica, ormai Roma non era più un' immagine, era vera e anche mia, mattoni e asfalto, corpi pressati e sudore sulla metro, odore di pipì sui marciapiedi e allegria contagiosa nei mercati. Quella fuga da Casal de' Pazzi diventava la metafora del mio primo anno a Roma, una città che un po' mi proteggeva e un po' mi feriva, una città che non sapevo ancora gestire, che avrebbe potuto approfittare della mia ingenuità. Quella fuga, quel giorno, diventava la metafora del mio rapporto con quella Roma che un po' mi accoglieva e un po' mi allontanava. Proprio come adesso.

  4. #24
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    Lo sai che mi hai risparmiato un sacco di lavoro?

    Grazie.

 

 
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