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    Predefinito Le “marchette” di Mughini e….

    ….. dell’Ordine

    Accusato di avere danneggiato la reputazione della categoria dei giornalisti, ieri in tarda mattinata sono salito al secondo piano del palazzetto di Piazza della Torretta dove ha sede l’Ordine dei giornalisti del Lazio. Il provvedimento disciplinare nei miei confronti era partito il 18 ottobre, e questo in ragione di uno spot pubblicitario dove io ero fra i testimonial di una società produttrice di telefoni cellulari.
    Nell’incontro di ieri il presidente dell’Ordine mi ha ripetuto che la “carta dei doveri del giornalista” gli preclude la possibilità di fare della pubblicità a pagamento, perché questo mette in forse la sua autonomia professionale.
    Gli ho naturalmente replicato che mai una sola volta in vita mi sono occupato professionalmente di telefonini cellulari, che in quello spot non era minimamente in gioco la mia identità di giornalista ma solo la notorietà acquisita in vent’anni di lavoro in televisione, lavoro in cui da anni e anni non faccio prestazioni giornalistiche: tanto è vero che i miei contratti mi individuano come “attore” o “attrazione”, e su quei compensi pago i contributi all’Enpals.
    I membri dell’Ordine dei giornalisti mi ascoltavano in silenzio, non credo con simpatia. Staremo a vedere.
    Ma in fatto di reputazione della categoria dei giornalisti e della sua irresistibile propensione alle markette, qualche cosa da raccontare ce l’ho eccome.
    Di markette ne ho fatte io stesso. Altro che il castissimo spot televisivo che ha acceso l’attenzione dell’Ordine cui sono iscritto da trent’anni e con il quale fino a ieri non avevo mai avuto il benché minimo rapporto.

    Markette, dunque.
    Telefonini e markette. Che per la sua stessa natura un giornale, e tanto più un giornale moderno e dunque legato alla ricchezza e varietà dei consumi di massa, sia un gigantesco markettificio, è cosa che credo non sfugga a nessun lettore avveduto. Ovvio che non sto parlando dei corrispondenti di guerra, dei cani lupo che frugano ne corridoi del palazzo giudiziario, dei giornalisti da battaglia di cui ha raccontato Giuseppe Sottile nel suo bel libro sull’esperienza da lui vissuta all’Ora di Palermo diretta da Vittorio Nisticò.
    Sto parlando di giornalisti normali che lavorano in condizioni normali in giornali normali.
    C’è stato un tempo, una decina d’anni fa, in cui il settimanale dove lavoravo aveva messo i telefonini a fare da baricentro delle sue pagine. Articoli e articoli da cui appariva che la scelta e la compera del telefonino giusto era la via giusta per ascendere in paradiso. Pagine e pagine, un numero del settimanale dopo l’altro. Non che quel mio direttore, Nini Briglia, facesse male. Giornalisticamente faceva benissimo, perché era il momento in cui non c’era famiglia italiana che non si avventasse a costruirsi quel suo patrimonio di quattro-cinque telefonini per unità familiare che è uno dei nostri record nazionali. Che un sentore di marketta aleggiasse su quelle pagine, lo dimostra però il fatto che una delle aziende produttrici di telefonini si commosse e regalò al mio giornale un centinaio di telefonini da distribuire fra noi giornalisti.
    Era più marketta questa o lo era il mio spot televisivo?
    E comunque a me il telefonino non lo diedero. Chiesi alla segretaria di redazione come mai. Mi rispose che lo dovevo “chiedere” al vicedirettore, a rendere ancora più suprema la marketta. Me ne guardai bene. Il telefonino che ho e che uso il meno possibile me lo sono comprato e pagato.

    La bistecca al sugo di marketta. Infinite sono le condizioni della marketta giornalistica. Non c’era giornale eticamente più teso del quotidiano
    “paracomunista” Paese Sera dove debuttai da precario nell’autunno del 1974. Nel giornale erano tutti comunisti, molti dei quali bravissimi giornalisti. Tutti dei volontari della Causa, gente che metteva la Causa al primo posto in ogni virgola che scriveva. Molto ben fatto, il giornale era un formidabile markettificio procomunista, e lo dico con tenerezza per quanto eravamo giovani e acerbi, e a non dire che molti di quei giornalisti hanno poi fatto un’eccellente carriera. Nella mia veste di precario che veniva messo alla prova, non è che gli ufficiali del giornale mi tenessero in gran cale. Fino all’ultimo il vicedirettore del giornale, Mario Lenzi, si oppose alla mia assunzione (che avvenne nel novembre 1975). Mi riteneva inadatto al giornalismo, e non è che avesse torto. In quell’anno tra l’autunno del 1974 e il novembre 1975 facevo lavori piccoli piccoli di cucina giornalistica. Un mio cavallo di battaglia era il pezzo sul “maltempo” che Edo Parpaglioni mi affidava tutte le volte che poteva. Lo facevo talmente male che una volta Edo me lo fece rifare due volte. Oppure mi affidavano le cosiddette “brevi”, che erano notiziole di 10-15 righe che dovevo amputare di qualche aggettivo superfluo e titolare con un 4x10, il che vuol dire con un titolo di 4 righe ciascuna di 10 battute. Un giorno il caporedattore mi affidò una di queste notiziole su cui qualcuno aveva scritto a penna “di rigore”, il che vuol dire che quella notiziola andava messa in pagina cascasse il mondo. La notizia consisteva nel fatto che in un supermercato di proprietà della Montedison avevano messo in vendita un nuovo tipo di bistecca. E non è che quella notizia andasse in una pagina dedicata all’evoluzione del costume culinario o agli apporti delle cucine regionali. No, andava nella pagina nazionale accanto all’eventuale pastone sul Consiglio dei ministri. Che marketta era? Semplicissimo. Il gran capo della Montedison era in quel momento Eugenio Cefis, e Cefis aveva imparato da Enrico Mattei l’arte di dare soldi a tutti per farsi amici tutti. E dunque soldi anche al Paese Sera pur così vicino ai comunisti, anzi proprio per questo. Il giornale, grato, metteva in pagina la notizia markettistica che in quel supermercato marchiato Montedison era in vendita quel nuovo tipo di bistecca. Ordine dei giornalisti, se ci sei batti un colpo.

    Guai ad addolorare chi ti paga un fottio di pubblicità. Non vi dirò nemmeno sotto tortura il nome del direttore di Panorama al quale chiesi di fare un servizio su Roberto Capucci, lo stilista/ poeta i cui abiti mi avevano lasciato senza fiato al Palazzo delle Esposizioni di Roma che gli aveva appena dedicato una grande mostra. La risposta – molto gentile – fu che no, che non si poteva fare, perché Giorgio Armani non avrebbe gradito. Non avrebbe gradito affatto. E dunque niente Capucci.
    Quello stesso direttore mi affidò una marketta che era talmente gigantesca quanto innocente, e che non sono affatto pentito di avere scritto, anzi mi divertì molto. Era successo che la Fiat avesse prodotto una nuova auto destinata al mercato alto dei professionisti e dei borghesi agiati. Il mio direttore mi chiese di parlarne a modo di un oggetto simbolico, un oggetto che caratterizzava quei borghesi a modo che vestono all’inglese e che non portavano al polso uno Swatch. Fare quel pezzo mi piaceva moltissimo, e non ostava minimamente il fatto che io non sappia guidare. Mi presentai a Torino dov’erano in attesa due ingegneri della Fiat che avrebbero dovuto spiegarmi come funzionava quella macchina portentosa.
    Premisi che non sapevo guidare. Pur gentilissimi, un po’ storto mi guardarono come si fa con uno che s’è improvvisamente rivelato fasullo. Scrissi naturalmente un pezzo/marketta elegantissimo. Sul Manifesto qualcuno insinuò sarcasticamente “Chissà qual è la macchina che ha Mughini”, e voleva naturalmente dire che di certo avevo avuto in regalo una Fiat dopo avere scritto un tale elogio di una loro auto. Io una macchina non l’ho mai avuta in vita mia. Marketta innocente e pulitissima, l’ho detto.

    La metafisica della marketta. Ci sono giornali su cui le markette incombono come fossero una nebbiolina leggera e invadente. Sto parlando dei giornali diretti dal simpaticissimo Carlo Rossella, un ottimo giornalista che conosco da trent’anni e su cui scriverei un romanzo se ne avessi la tempra. Lui è la più formidabile incarnazione della miscela tra un gran talento giornalistico (ma anche letterario) e la più assoluta mancanza di spina dorsale etica. Nei suoi giornali la marketta è una costante, una tentazione alla quale è impossibile dire di no, un modo totale di essere e di manifestarsi.
    Non che Carlo lo faccia per male, al contrario lo fa per bene. Per il bene e la promozione suoi, innanzitutto.
    Una volta mi telefonò per dirmi che voleva scrivessi 30 righe a elogio di un giornalista, Bernardo Valli, e che quelle 30 righe si augurava che diventassero una rubrica: una rubrica dove ogni volta avrei segnalato il libro o l’exploit di un giornalista.
    Scrissi di volata le 30 righe elogiative di Valli, un collega innanzi al quale mi toglierei dieci cappelli se li avessi. Avrei dovuto smettere lì, e così sottrarmi al markettificio. Invece accettai l’idea di fare la rubrica.
    Sette o otto volte mi occupai, sempre in 30 righe, di libri scritti da altri giornalisti, alcuni dei quali miei amici. Mio malgrado e quasi senza accorgermene, scrissi una serie di ripugnanti markette, nel senso che erano tutti dei pezzi piattamente elogiativi. Non che quei libri, quei colleghi, quegli amici, non meritassero l’elogio. E’ che la rubrica il markettismo ce l’aveva nel Dna, nella sua ideazione primigenia.
    Era una rubrica intimamente pensata ad ammiccare e a fare cortesie. Com’è nella metà abbondante delle pagine di ogni giornale, pagine dove talvolta la pubblicità è il momento comunicativo più leale. A un certo punto smisi io stesso di scrivere quelle 30 righe maledette e ruffiane di cui non mi pentirò mai abbastanza. Né qualcuno me ne chiese conto. Probabilmente avevamo tutti un po’ di rossore alle guance da quello che avevamo scritto.
    Non Carlo, Carlo non sa che cos’è il rossore alla guance.

    Una marketta stilistica. Lo stilista milanese che mi accolse cortesemente per l’intervista che il giornale mi aveva affidato, nel frattempo è morto. E dunque figuratevi se vi farò il suo nome. E tuttavia il ricordo di quell’intervista ancora mi brucia. Figuratevi se sono di quelli che credono che l’intervista sia fatta per mettere in ginocchio l’intervistato. Nell’intervista è l’intervistato che ha l’ultima parola, e per quanto aberrante sia quest’ultima parola. Il fatto è che quella mia intervista allo stilista milanese non aveva alcun senso. Io non avevo niente in mano di che andargli sotto, di che rendere la conversazione viva e drammatica. Dal giornale mi avevano chiamato nel tardo pomeriggio a dirmi di prendere un aereo la mattina dell’indomani. Ero andato a Milano in casa dello stilista, avevo fatto domande che non sapevano di niente, lui mi aveva dato risposte che non sapevano di niente.
    C’era stato di più. Io avevo consegnato l’intervista e il mio giornale, ad aggravare la marketta, aveva passato il testo all’intervistato e lui lo aveva corretto a suo favore in un paio di punti. Dalla marketta veniale eravamo passati alla marketta mortale. A pezzi di cui ne leggete a dozzine su tutti i giornali, e specie quando c’è di mezzo la moda, che è di per sé un terreno infido.

    Marketta a pagamento. E finisco. Una dozzina d’anni fa mi telefonarono da una rivista con la quale non avevo rapporti fino a quel momento, e mi dissero che sul loro prossimo numero avrebbero pubblicato un testo bruciante e polemico di Paolo Sylos-Labini. Mi chiesero se volessi fare un’intervista a Sylos sul contenuto di questo suo testo. Al che io capisco che sul numero ulteriore della loro rivista io avrei dovuto fare una specie di recensione-intervista a Sylos, nel senso che avrei acciuffato la palla della polemica da lui scatenata e gliela avrei rimandata.
    Dissi che ero felicissimo di farlo, solo dovevamo metterci d’accordo sul mio cachet. Il mio interlocutore non batté ciglio, solo precisò che loro non erano ricchi. Ci mettemmo d’accordo su una cifra ragionevole. Chiesi a questo punto quanto lo volessero lungo il testo della mia intervista a Sylos. A quel punto sentii un certo imbarazzo, dopo di che il mio interlocutore (che non conoscevo) mi disse che dipendeva da me quanto farlo lungo, che dipendeva da quanto spazio mi avrebbe accordato il mio giornale, che era allora Panorama. Solo allora capii che quello che mi avevano chiesto era un’intervista a Sylos da fare su Panorama, e restai di stucco:
    “Ma scusi, come può pensare che io le avrei chiesto dei soldi per fare un’intervista sul giornale di cui sono un inviato speciale?” non potei fare a meno di obiettare. Nessuna risposta.
    L’intervista poi naturalmente la feci, deliziandomene da quanto era il Sylos migliore, non quello degli ultimissimi anni ossessionato dal Caimano.
    A un amico molto esperto di giornali comunicai il mio stupore per quel cachet che mi era stato offerto.
    Il mio amico mi disse che ero un cretino a stupirmi, che di casi di miei colleghi che quel cachet lo avrebbero chiesto e preso ne conosceva a dozzine.
    Ahinoi, cari amici e colleghi dell’Ordine.

    G. Muggini su il Foglio del 16 dicembre

    saluti

  2. #2
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    Un vero e proprio manuale

  3. #3
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    Eccellente Descrizione dell'Ordine...

 

 

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