Il processo a Saddam Hussein non si doveva fare.
di Massimo Fini - 02/01/2007

Fonte: Il Gazzettino [scheda fonte]

Il processo a Saddam Hussein non si doveva fare. Perché, sull'onda di Norimberga, è il classico processo dei vincitori ai vinti che si porta con sè un'inevitabile serie di aberrazioni, giuridiche e morali, la più grave delle quali è di far coincidere il diritto con la forza: la forza del vincitore.Ma poiché lo si è voluto celebrare, la sentenza del sia pur pseudoindipendente Tribunale iracheno andava rispettata senza farsi prendere da tardivi e ipocristi scrupoli morali sulla pena di morte. Perché edulcorare quella condanna significava intromettersi una volta di più nella storia, nella tradizione, nei sentimenti e nella cultura del popolo iracheno che contempla la pena di morte. La condanna di Saddam dovrebbe semmai suggerire altre riflessioni, sulle nostre responsabilità. Il rais di Bagdad ("l'impresario del crimine" come lo chiamava giustamente l'ayatollah Khomeini) è stato pesantemente appoggiato dagli occidentali proprio negli anni in cui commetteva i suoi peggiori delitti e alcuni di questi sono stati da noi commissionati, in modo diretto o indiretto

Quando prese il potere, nel 1978, Saddam andava bene sia agli occidentali che ai russi perché era un laico modernista (si sarebbe inventato campione dell'islamismo solo con la prima guerra del Golfo) che stava perfettamente nella logica del biimperialismo sovieto-americano. Non costituiva un problema. E non ci importava un fico secco se sopprimeva sistematicamente i suoi oppositori anche se poi, oggi, è stato grottescamente condannato per un episodio marginale di quella repressione, e solo per quello, peraltro fra i meno ingiustificati perché seguiva una congiura contro di lui. Anzi ci andava benissimo, a noi occidentali e in specie agli americani, se mazzolava i curdi iracheni, il cui indipendentismo era particolarmente insidioso perché legato a quello dei dieci milioni di curdi che vivono nell'alleata Turchia, commendevole membro della Nato, e gli sciiti iracheni etnicamente e culturalmente vicini all'Iran khomeinista.
Quando Saddam, nel 1980, aggredì l'Iran prendemmo le parti dell'aggressore e non dell'aggredito, senza rinunciare peraltro a rifornire di armi entrambi i contendenti perché si ammazzassero meglio fra di loro (la maggioranza delle mine su cui sono saltati i ragazzini iraniani mobilitati da Khomeini erano di fabbricazione italiana). Il denaro, si sa, non olet. Quando gli iraniani, dopo cinque anni di guerra, in cui avevano sparso a fiumi il loro e l'altrui sangue, stavano per prendere Bassora cogliendo una vittoria, strameritata sul campo di battaglia, che avrebbe cancellato per sempre Saddam Hussein dalla faccia della terra, intervenimmo a favore del dittatore iracheno per "motivi umanitari"! Non si poteva permettere alle "orde iraniane" (i nostri sono eserciti, quelli degli altri sono "orde") di conquistare Bassora e di farvi un massacro. E quindi Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica fornirono a Saddam ogni genere di armi comprese quelle di "distruzione di massa" che nel 2003 avrebbero costituito il pretesto per attaccarlo quando non le possedeva più avendole già usate secondo i nostri desiderata. Risultato dell'"intervento umanitario": la guerra che sarebbe finita nel 1985 con un bilancio di mezzo milione di morti andò avanti per altri tre anni provocandone il triplo. E Saddam, invece di essere spazzato via, si trovò sulla groppa un potentissimo arsenale che rovesciò sul Kuwait. Ciò provocò, nel 1990, la prima guerra del Golfo dove i "missili chirurgici" e le "bombe intelligenti" degli americani uccisero 160 mila civili, fra cui 39.612 donne e 32.195 bambini (dati ufficiali sfuggiti alla più insospettabile delle fonti: il Pentagono). Ma il massacro del popolo iracheno non gli valse la liberazione del dittatore. Bush padre lo mantenne infatti al suo posto, insieme alla feroce Guardia repubblicana, in funzione anticurda e antisciita. I curdi e gli sciiti iracheni avevano infatti avuto l'ingenuità, all'inizio della guerra, di rispondere alle sollecitazioni americane a ribellarsi perché il generale Schwarzkopf potesse compiere senza resistenza la sua gloriosa cavalcata nel deserto. Ma, vinta la guerra, erano diventati di nuovo un'insidia per gli americani e andavano repressi. Compito cui Saddam si applicò diligentemente (5000 curdi "gasati" con armi chimiche nel 1988 nella sola cittadina di Halabya, nel silenzio e nell'indifferenza del mondo e della stampa occidentale).
Saddam è stato attaccato nel 2003 quando, dopo dieci anni di embargo, il controllo aereo del suo territorio da parte di americani e inglesi, la costituzione di "no flying zone" dove gli iracheni non potevano volare e la perdita, per uso e abuso, delle "armi di distruzione di massa", non era più pericoloso per nessuno all'esterno ed era diventato anche più cauto nella repressione interna.
L'aggressione, l'invasione e l'occupazione dell'Iraq ha provocato, in modo diretto e indiretto, 700 mila morti, infinitamente di più di quanti ne abbia fatti Saddam in trent'anni di dittatura, e una feroce guerra civile fra sunniti e sciiti (e prima o poi entreranno in gioco anche i curdi se non otterranno l'indipendenza piena cui hanno sacrosanto diritto) che non avrà alcuno sbocco (cioè la ricostituzione fra queste tre comunità così diverse di un equilibrio e di un minimo di ordine che Saddam, sia pur nel suo modo feroce, aveva garantito) finché le truppe straniere non se ne saranno andate.
E allora visto che il processo lo si è voluto fare, quali imputati avrebbero dovuto sedere accanto a Saddam Hussein ed essere impiccati con lui, al posto di fare, per interposto Tribunale, i giudici da Washington e da Londra o di moraleggiare, facendo le contrite anime pie, da Bruxelles? Massimo Fini