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Risultati da 1 a 8 di 8
  1. #1
    Ritorno a Strapaese
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    Predefinito San Giovanni della Croce

    Nelle parole di questo mistico ho trovato forti connessioni con quanto si dice nel Tao Te Ching... voi che ne pensate?

    Giovanni della Croce - Wikipedia

    Il pensiero di Giovanni della Croce, in particolare il concetto di «Notte Oscura» dell'anima e la dottrina del Nada y Todo ("Nulla e Tutto"), è da lui esposto nello schizzo eseguito per illustrare l'ascesa al Monte della Perfezione, oltre che nella Salita del Monte Carmelo...

    «Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.
    Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.
    Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.
    Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.
    Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.
    Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.
    Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.
    Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. »
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 17-02-10 alle 16:23
    "Non posso lasciarti né obliarti: / il mondo perderebbe i colori / ammutolirebbero per sempre nel buio della notte / le canzoni pazze, le favole pazze". (V. Solov'ev)

  2. #2
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce

    Citazione Originariamente Scritto da Dr. Caligari Visualizza Messaggio
    Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei.
    E' un po' come quando si dice che bisogna servire il diavolo per poter un giorno conoscere Dio...

    Ora, in queste parole che hai riportato c'è una grande saggezza...

    L'identificazione con gli opposti è vissuta come un "male"... in effetti dovrebbe proprio essere così.
    E' un circolo, una cosa ne controlla e distrugge un'altra, che può essere considerata il suo opposto...
    L'identificarsi con gli opposti equivale all'identificarsi con la periferia, con la circonferenza, la superficie...

    Sembra che la strada sia dritta ma, prima o poi, si ritorna al punto di partenza...
    Senza mai raggiungere il Centro...

    Gli estremi sono le illusioni della vita, che possono apparire autentiche solo al "lume" della natura esteriore.

    La conciliazione appartiene solamente al Centro, dove non vi è più movimento...

    E' proprio questo il significato del diavolo... Il diavolo, che viene considerato l'incarnazione del "male", è letteralmente l'"avversario", ciò che "disunisce" e, dunque, genera discordia... E' questa stessa identificazione con gli opposti, troppo eccesso o troppa mancanza...

    Ecco dunque l'idea del "peccato"... Il peccato è una questione di "quantità"!

    La conoscenza di sé è la condizione necessaria... Solo così è possibile realizzare il fatto che l'intera esistenza si svolge tra gli opposti...

    A questo punto devo dire che non è facile vedere il funzionamento delle forze opposte, perché esso è sempre doppio e richiede pensiero doppio. Noi pensiamo in termini di una cosa, paragonandola con un’altra. Noi non pensiamo in termini di due cose separatamente...

    Questo è in fondo il significato del Lavoro, ciò che viene chiamato "conoscenza di sé"...

    Un uomo deve prima conoscere se stesso... Vedere le proprie identificazioni... e poi non deve andare agli estremi... ma trovare l'equilibrio, l'armonia... O il Centro... Chè è Vuoto di ego... Mentre noi siamo sempre pieni di "sé"...
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 17-02-10 alle 16:26
    Segni particolari: "macchina da espansione razziale euro-siberiana" (Giò91)

  3. #3
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce

    Insegnamenti Spirituali
    di Giovanni della Croce


    raccolti da Eliseo dei Martiri

    In virtù del precetto che mi è stato dato, affermo e dichiaro quanto segue: Conobbi il padre fra Giovanni della Croce, trattai e conversai con lui molte volte. Era un uomo di media statura, dal volto grave e venerabile, un po’ scuro di carnagione e di bell’aspetto; il suo tratto e la sua conversazione amabili, molto spirituali e tali da giovare a coloro che lo udivano o parlavano con lui. In questo fu talmente singolare e proficuo che coloro che lo avvicinavano, sia uomini che donne, ne uscivano arricchiti nello spirito, più devoti e meglio disposti alla virtù. Conobbe e praticò intensamente la preghiera e la conversazione con Dio; a tutti i dubbi che gli proponevamo su questi punti, rispondeva con grande saggezza, lasciando coloro che lo consultavano molto soddisfatti e migliori. Amava il raccoglimento e parlava poco; rideva poco e compostamente. Quando rimproverava come superiore, e lo fu spesso, lo faceva con dolce severità, esortando con amore fraterno e sempre con mirabile serenità e gravità.

    Insegnamento 1. Era contrario che i superiori dei religiosi, e soprattutto dei riformati, comandassero con alterigia, e per questo ripeteva che in nessuna cosa uno si dimostra più indegno di comandare che nel comandare con alterigia; devono anzi fare in modo che i sudditi non se ne vadano mai tristi dalla loro presenza.

    Insegnamento 2. Non parlava mai con circonlocuzioni né con doppiezza, cui era contrarissimo. Diceva che le circonlocuzioni violano la sincerità e la purezza dell’ordine e lo danneggiano molto, perché insegnano astuzie umane, dalle quali le anime ricevono gravi danni.

    Insegnamento 3. Diceva che il vizio dell’ambizione nei religiosi riformati è quasi incurabile, essendo il vizio più pericoloso di tutti, perché essi colorano e mascherano il loro governo e la loro condotta con apparenze di virtù e di maggior perfezione, con cui la guerra diventa più spietata e l’infermità spirituale più incurabile. Diceva, altresì, che questo vizio è così potente e nocivo da rendere coloro che ne sono contagiati talmente peccatori che, con la loro vita e con i loro inganni, il demonio crea un guazzabuglio tale da confondere i confessori, anche quelli molto dotti, perché cadono in tutti i vizi. Era molto costante nell’orazione e nella presenza di Dio, negli atti, nelle elevazioni dello spirito e nella recita delle giaculatorie.

    Insegnamento 4. Diceva che tutta la vita di un religioso è un sermone dottrinale o deve essere tale e deve avere per tema queste parole, ripetute alcune volte ogni giorno: Piuttosto morire e scoppiare che peccare; tali parole, pronunciate con convinzione, purificano e mondano l’anima, la fanno crescere nell’amore di Dio, insieme al dolore di averlo offeso e al proposito fermo di non offenderlo più.

    Insegnamento 5. Diceva che ci sono due modi per resistere ai vizi e acquistare la virtù: uno è comune e meno perfetto ed è quando si vuole resistere a qualche vizio o peccato o tentazione per mezzo degli atti della virtù che si oppone e distrugge quel determinato vizio, peccato o tentazione; per esempio, al vizio o tentazione dell’impazienza o dello spirito di vendetta che sento nella mia anima per qualche danno ricevuto o per parole ingiuriose, resisto con alcune buone considerazioni, per esempio sulla passione del Signore: Qui cum male tractaretur non aperuit os suum: Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca (Is 53,7); o considerando i beni che si acquisiscono con la sofferenza e con la vittoria su se stessi, o pensando che Dio ha voluto che soffrissimo, perché la sofferenza è la nostra fortuna migliore. Con tali considerazioni accetto di soffrire, di volere e di subire detta ingiuria, l’offesa e il danno, e ciò a onore e gloria di Dio. Questo modo di resistere e di opporsi alla tentazione, al vizio o al peccato genera la virtù della pazienza ed è un buon modo di resistere, anche se difficoltoso e meno perfetto. Esiste anche un altro modo per vincere vizi e tentazioni e acquistare o guadagnare virtù. Questo modo è più facile, più vantaggioso e più perfetto. Si verifica quando l’anima, solo con atti ed elevazioni piene d’amore, senza altri esercizi, resiste e distrugge tutte le tentazioni del nostro avversario e raggiunge la perfezione nella virtù. Diceva che era possibile farlo in questo modo: quando avvertiamo il moto primo o l’assalto di qualche vizio, per esempio della lussuria, dell’ira, dell’impazienza o dello spirito di vendetta per qualche offesa ricevuta, ecc., non dobbiamo opporci con l’atto della virtù contraria, come si è detto sopra, ma immediatamente, appena lo avvertiamo, dobbiamo ricorrere a un atto o elevazione d’amore contro il detto vizio, accrescendo il nostro affetto nell’unione con Dio, perché con questa elevazione l’anima si allontana di lì, si presenta e si unisce al suo Dio, cosicché il vizio o la tentazione come anche il nemico vengono defraudati del loro scopo e non trovano chi ferire. Difatti, poiché l’anima si trova più dove ama che dove anima, occorre sottrarre divinamente il corpo alla tentazione, e così il nemico non trova dove colpire o avere presa, perché l’anima non si trova più lì dove la tentazione o il nemico volevano colpirla e danneggiarla. E allora – cosa meravigliosa! – l’anima, dimentica del moto vizioso e strettamente unita al suo Amato, non sente alcun moto di quel vizio con cui il demonio voleva tentarla e aveva cercato di farlo; anzitutto perché ha sottratto il corpo, come ho detto, e non si trova più lì e quindi, se così si può dire, è come tentare un corpo morto, combattere con uno che non esiste, uno che non è presente, uno che non sente e quindi non è in grado di essere tentato. In questo modo nasce nell’anima una virtù eroica e meravigliosa, che il dottore angelico, san Tommaso, chiama virtù dell’anima perfettamente purificata; l’anima possiede questa virtù, dice il santo, quando Dio la porta a uno stato tale che non sente i moti dei vizi, né i loro assalti, aggressioni o tentazioni, per la sublimità della virtù che abita in quell’anima. Da ciò deriva una perfezione altissima, per cui non le importa nulla che la offendano o che la lodino e la innalzino, o che la umilino o che dicano bene o male sul suo conto; poiché, infatti, quelle elevazioni piene d’amore portano l’anima ad uno stato così alto e sublime, il loro effetto più peculiare nella detta anima è quello di farle dimenticare tutte le cose che sono al di fuori del suo Amato, Gesù Cristo. E, come ho detto, da ciò le deriva che, essendo l’anima unita al suo Dio e felice con lui, le tentazioni non trovano chi ferire, perché non possono giungere fin dove è salita l’anima o Dio l’ha portata: Non accedet ad te malum: Non ti accadrà alcun male (Sal 90,10). A questo punto il venerabile padre fra Giovanni della Croce disse di istruire i principianti, i cui atti o elevazioni piene d’amore non sono tanto rapidi né leggeri, né tanto ferventi da potersi sottrarre completamente con il loro balzo e unirsi allo Sposo. Se vedono che con tale atto o elevazione non riescono a dimenticare completamente il movimento vizioso della tentazione, pur di resistere, non omettano di usare tutte le armi della buona meditazione e degli esercizi necessari per resistere e vincere. E credano che questo modo di resistere è eccellente e sicuro, perché racchiude tutte le astuzie necessarie e importanti per la guerra.

    Insegnamento 6. Diceva che le parole del Salmo 118,49: Memor ero verbi tui servo tuo, in quo mihi spem dedisti: Mi ricorderò della tua parola data al tuo servo: con essa tu mi hai dato speranza, sono talmente potenti ed efficaci che per loro mezzo si ottiene qualsiasi cosa da Dio.

    Insegnamento 7. Ripetendo con devozione le parole del santo vangelo: Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse?: Non sapevate che io devo occuparmi di quanto riguarda il Padre mio? (Lc 2,49), assicurava che l’anima si riveste di un desiderio di fare la volontà di Dio a imitazione di Cristo Signore nostro, con desiderio ardentissimo di soffrire per amor suo e per il bene delle anime.

    Insegnamento 8. Volendo la Maestà divina, per mezzo di una tremenda tempesta, distruggere e spazzare via la città di Costantinopoli, gli angeli udirono per tre volte queste parole: Sanctus Deus, sanctus fortis, sanctus immortalis, miserere nobis: Santo Dio, santo forte, santo immortale, abbi pietà di noi! Per quelle suppliche Dio si placò immediatamente e si calmò la tempesta che aveva fatto molti danni e ne minacciava di maggiori. Per questo diceva che tali parole sono potenti presso Dio nei bisogni particolari di fuoco, acqua, venti, tempeste, guerre e altre necessità spirituali e corporali, per l’onore, i beni, ecc.

    Insegnamento 9. Diceva anche che l’amore per il bene del prossimo nasce dalla vita spirituale e contemplativa e che, poiché essa ci viene imposta dalla Regola, ci viene imposto e comandato anche questo bene e questo zelo per il profitto del nostro prossimo. La Regola, infatti, ci vuole osservanti di vita mista e composta, vita cioè che include in sé due aspetti: quello attivo e quello contemplativo. Il Signore la scelse per sé, perché più perfetta. E le forme e gli stati di vita dei religiosi che li abbracciano sono in sé più perfetti, salvo che allora, quando diceva e insegnava questo, non conveniva pubblicarlo, perché i religiosi erano pochi e non si voleva turbarli; anzi conveniva insinuare il contrario per fare in modo che ci fosse un grande numero di frati.

    Insegnamento 10. E proclamando le parole di Cristo nostro Signore già citate: Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse? (Lc 2,49), disse che qui, per le cose che appartengono al Padre eterno, dobbiamo intendere solo la redenzione del mondo, il bene delle anime, poiché Cristo nostro Signore ha offerto i mezzi preordinati dall’eterno Padre. A conferma di questa verità, diceva che san Dionigi l’Areopagita aveva scritto quella meravigliosa sentenza che recita così: Omnium divinorum divinissimum est cooperari Deo in salutem animarum, cioè: la perfezione suprema di qualsiasi oggetto, nella sua gerarchia e nel suo grado, è salire e crescere, secondo i propri talenti e le proprie capacità, nell’imitazione di Dio, verso ciò che è più mirabile e divino, ossia cooperare con Dio nella conversione e nella redenzione delle anime. In questo, infatti, risplendono le opere proprie di Dio ed è gloria grandissima imitarlo. Per questo Cristo nostro Signore le chiama opere del Padre. Ed è una verità evidente che la compassione per il prossimo tanto più cresce quanto più l’anima è unita a Dio per amore; quanto più ama, infatti, tanto più desidera che quello stesso Dio sia amato e onorato da tutti. E quanto più lo desidera, tanto più si adopera per questo, sia con la preghiera che con tutti gli altri esercizi necessari e ad essa possibili. Ed è tanto il fervore e la forza della sua carità che questi tali, posseduti da Dio, non si possono limitare o contentare del solo guadagno personale, ma sembrando loro poca cosa andare in cielo da soli, con ansie, affetti celestiali e squisite attenzioni, cercano di portarvi molti insieme con loro. Questo deriva dal grande amore che hanno verso Dio ed è frutto proprio dell’orazione perfetta e della contemplazione.

    Insegnamento 11. Diceva che due cose fanno da ali all’anima per salire all’unione con Dio; sono: la compassione piena d’amore per la morte del Cristo e per quella del prossimo. Quando l’anima si sofferma sulla compassione della croce e sulla passione del Signore, ricordi che egli fu solo a sostenere questa sofferenza mentre realizzava la nostra redenzione, come sta scritto: Torcular calcavi solus: La vasca l’ho pigiata da solo (Is 63,3). Da ciò trarrà e le si offriranno riflessioni e pensieri molto proficui.

    Insegnamento 12. Parlando della solitudine in una certa predica tenuta nel convento di Almodóvar del Campo, citò le parole del papa Pio II, di felice memoria, che diceva che il frate vagabondo è peggiore del demonio; e che i religiosi, se vanno in visita, vadano in case oneste, dove si parla con cautela e modestia.

    Insegnamento 13. Spiegando le parole di san Paolo: Signa apostolatus nostri facta sunt super vos in omni patientia, in signis et prodigiis et virtutibus: I segni dell’apostolo li avete veduti in opera in mezzo a voi, in una pazienza a tutta prova, con miracoli, prodigi e portenti (2Cor 12,12), osservava che l’apostolo antepone la pazienza ai miracoli, per cui la pazienza è segno certo dell’uomo apostolico più che il risuscitare i morti. Attesto che in questa virtù il padre fra Giovanni della Croce fu uomo apostolico, perché sopportò con singolare pazienza e tolleranza le prove molto intense che gli si presentarono e che avrebbero abbattuto i cedri del Libano.

    Insegnamento 14. Parlando dei confessori delle donne, da uomo sperimentato qual era, diceva che si mostrassero alquanto distaccati nei loro confronti, perché le tenerezze con le donne servono solo a corrompere l’affetto e a danneggiarle. E che in questo Dio l’aveva punito, tenendogli nascosto un peccato gravissimo di una donna che lo aveva ingannato per molto tempo e non aveva chiesto a lui il rimedio, perché egli era compiacente con questa donna; ma, per disposizione del Signore, lo scoprì per altra via nel nostro stesso ordine. Di questo fatto sono molto ben informato.

    Insegnamento 15. Una volta mi disse che quando avessimo visto perdere nell’ordine le buone maniere, parte dell’educazione cristiana e monastica, e al suo posto fossero subentrate la rozzezza e la malvagità nei superiori, che sono vizi propri dei barbari, lo piangessimo pure come perso. Chi ha mai visto, infatti, che le virtù e le cose di Dio si trattano a bastonate e con asprezza? A tal proposito citava Ezechiele: Cum austeritate imperatis eos et cum potentia: Avete oppresso le mie pecore con la forza e la brutalità (Ez 34,4).

    Insegnamento 16. Diceva che quando si educano i religiosi con un rigore così irrazionale, questi diventano pusillanimi nell’intraprendere cose sublimi e virtuose, come se fossero stati allevati tra le fiere. Così, infatti, ha scritto san Tommaso a tale proposito nell’opuscolo 20 del De Regimine Principum, nel libro al capitolo 3: Naturale est enim ut homines sub timore nutriti in servilem degenerent animum et pusillanimes fiant ad omne virile opus et strenuum: È naturale che gli uomini, cresciuti nel timore, facciano tralignare gli animi al servilismo e diventano pusillanimi davanti a ogni opera virile e forte. E citava il detto di san Paolo: Patres, nolite ad iracundiam provocare filios vestros, ne pusillanimes fiant: Padri, non provocate i vostri figli, perché non si perdano di coraggio (Col 3,21).

    Insegnamento 17. Diceva di temere che fosse disegno del demonio l’educare i religiosi in questo modo. Se, infatti, i religiosi sono educati con questo timore, non osano ammonire o riprendere i superiori quando sbagliano. E se per questa via o per un’altra l’ordine arrivasse a tale situazione, per cui coloro che a norma di carità e giustizia – e questo è grave! – nei capitoli, nelle riunioni o in altre occasioni non osassero dire quanto conviene, per debolezza, pusillanimità o paura di irritare il superiore, quindi di venire privati delle proprie cariche, il che è ambizione palese, ritengano pure l’ordine come perso o del tutto rilassato.

    Insegnamento 18. L’ordine sarebbe caduto così in basso che, affermava il buon padre fra Giovanni della Croce, avrebbe preferito che le persone non professassero in esso, perché in questo caso sarebbe stato governato dal vizio dell’ambizione e non dalla virtù della carità e della giustizia.

    Insegnamento 19. Questo si potrà vedere chiaramente quando nei capitoli nessuno replica, ma tutto è accettato e su tutto si sorvola, e ognuno cerca di ricavarne il proprio vantaggio; così soffre grandemente il bene comune e si alimenta il vizio dell’ambizione, che invece si dovrebbe denunciare senza pietà, perché è un vizio pernicioso e contrario al bene universale. E ogni volta che diceva queste cose, lo faceva dopo lunghi periodi di preghiera e di colloquio con nostro Signore.

    Insegnamento 20. Diceva che i superiori devono implorare spesso da Dio la prudenza religiosa per governare rettamente e guidare verso il cielo le anime a loro affidate. Lodava molto il padre fra Agostino dei Re per questa virtù, che possedeva in grado eminente.

    Insegnamento 21. Alcune volte lo sentii dire che non esiste menzogna tanto artificiosa e convenzionale che, se ci si pensa, in un modo o nell’altro, non si scopra come menzogna.

    Insegnamento 22. Né esiste demonio travestito da angelo di luce che, guardato bene, non si riesca a scoprire.

    Insegnamento 23. Né c’è ipocrita talmente abile, mascherato e finto che prima o poi e con poche occhiate non venga scoperto.

    Insegnamento 24. In occasione di un severo castigo inflitto da un superiore, pronunciò una frase divina: che i cristiani, e soprattutto i religiosi, facciano sempre attenzione a punire i corpi di coloro che sbagliano, in modo che le anime non corrano pericolo, senza ricorrere alle crudeltà straordinarie che usano di solito i tiranni e coloro che governano con la forza. E che i superiori dovrebbero leggere spesso le parole di Isaia c. 42 (vv. 1-4) e quelle di san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi c. 13 (v. 10).

    Insegnamento 25. Essendogli stato presentato un postulante, dopo avergli parlato qualche volta, suggerì di non accettarlo perché gli puzzava l’alito. Il cattivo odore era dovuto al fatto che le sue viscere erano malate, come di solito hanno le persone mal disposte, crudeli, menzognere, paurose, mormoratrici, ecc., e che è un principio filosofico che i costumi dell’anima seguono la natura e le inclinazioni del corpo.

    Questo è quanto al momento ricordo. Se ricorderò altro, ne informerò il N. P. Generale in ottemperanza al suo ordine.

    Dato in Messico, addì 26 marzo 1618. Fra Eliseo dei Martiri


    LETTERA

    di Marina di Sant’Angelo

    Padre nostro, al padre fra Giovanni della Croce parlai a lungo tre volte; le altre volte fu di passaggio.

    1. La prima fu quando accompagnò madre Anna di Gesù, che si trova in Francia e che andava a fondare un monastero a Madrid. Entrai per parlare a sua Reverenza, il padre fra Giovanni della Croce, e fu un gran giorno per me. Entrai subito dopo pranzo e uscii sull’imbrunire, perché a me dispiaceva andar via, quindi mi trattenevo tanto. Egli diceva alle monache che entravano che non entrasse un’altra monaca, perché, dal momento che doveva intrattenersi con monache, era meglio farlo con quella con cui aveva cominciato a parlare. Parlava poco, di tanto in tanto si fermava come se – eravamo di fronte al Santissimo Sacramento con la grata – chiedesse a nostro Signore di suggerirgli cosa doveva dirmi. Questo esattamente io non lo so; so però che mi disse queste parole: «Se vuole pervenire all’orazione perfetta, deve fare ciò che le dico, anche se le costasse molta fatica e molta aridità; e se non è decisa a farlo, non glielo dirò». Gli risposi che me lo dicesse, perché con l’aiuto di Dio e anche a costo di morire l’avrei fatto. Disse di esaminarmi interiormente tre volte al giorno e che ogni mese facessi otto giorni di ritiro in cella per fare questo esame, e mi assicurava che entro due mesi avrei avuto nella mia anima solo Dio e non sarei più stata del mondo. Io gli dissi: «Padre, Vostra Reverenza mi dica come devo esaminarmi». Mi disse di esaminare se qualcosa mi allontanava da Dio e mi sottraeva alla sua presenza e al colloquio che si deve instaurare con Sua Maestà, e che dovevo abbandonare i parenti e qualsiasi cosa mi tratteneva fuori di casa, e che in tutto dovevo continuare a cedere ciò che mi spettava di diritto. Mi disse anche di esaminare i sensi e che dovevo fare una morte da viva in questo esame; mi disse di osservare attentamente cosa mi attirava di più. «Padre, quando ritornerà, le dirò le grazie che nostro Signore mi fa attraverso questo esame…». Tutto il poco spirito che ho mi viene da quel santo padre fra Giovanni della Croce. Se avessi saputo approfittarne e avessi fatto correttamente questo esame, avrei constatato che è la cosa più proficua che un’anima possa fare.

    2. L’altra volta che gli parlai, mentre era definitore, trattammo sempre della stessa cosa. Mi disse queste parole: «Senta cosa deve fare: anzitutto preghi per quello che deve compiere; per esempio, quando io sto per entrare in Definitorio, devo pregare per tutto ciò che devo trattare e, anche se ci fossero cambiamenti, non mi discosto da ciò che Dio mi ha detto nella preghiera».

    3. La terza volta che gli parlai, poiché aveva un po’ di fretta, gli dissi: «Fa ancora Vostra Reverenza ciò che Dio gli suggerisce nell’orazione?». Cominciò a intenerirsi, tanto da non riuscire a frenare le lacrime. Gli dissi: «Padre, non ci faccia caso». Rispose: «Né poco né punto; non dico altro, Sant’Angelo, perché non mi ascoltano». Dovevano avergli procurato qualche dolore. Disse: «Non hanno commesso nessun peccato veniale in quanto mi hanno fatto soffrire, io credo che gioirò per queste sofferenze; e, sebbene ora mi veda piangere, chieda a Dio per me la gloria della sofferenza, perché ne ho bisogno». Padre, ometto di scrivere alcune cose circa le sofferenze di cui mi parlò il padre fra Giovanni della Croce. Voglia raccomandarmi a nostro Signore perché io faccia questo esame in modo perfetto. Di Vostra Reverenza fino alla morte. Marina di Sant’Angelo.


    Da Insegnamenti Spirituali di Giovanni della Croce
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 17-02-10 alle 16:29
    Segni particolari: "macchina da espansione razziale euro-siberiana" (Giò91)

  4. #4
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce

    "Alla sera della vita sarai esaminato sull'amore. Impara ad amare Dio come Egli vuole essere amato e lascia il tuo modo di fare e di vedere". (Avvisi, 57)



    San Giovanni della Croce in un dipinto anonimo del XVII secolo
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 18-02-10 alle 14:07
    Orientata verso l'immenso mare della bellezza

  5. #5
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce



    Salvator Dalì, Il Cristo di San Juan de la Cruz
    (1951, Kelvingrove Art Gallery and Museum, Glasgow, olio su tela 205 cm. × 116 cm.)

    Dalì disse di essersi ispirato a un disegno del mistico spagnolo san Giovanni della Croce; conservato nel Monastero dell'Incarnazione ad Avila, e a un'immagine che diceva di aver veduto durante un sogno: un cerchio contenuto in un triangolo. Questa figura, nella quale egli credè di riconoscere nientemeno che il nucleo dell'atomo, era schematicamente simile al disegno veduto da Avila, sicché l'artista decise di utilizzarla nella composizione di questo dipinto.
    Un aspetto originale dell'invenzione è la mancanza sul Cristo dei simboli tradizionali della Passione, come la corona di spine e i chiodi nelle mani e nei piedi. Dalì giustificava queste omissioni con la volontà di dipingere Cristo "bello come Dio quale egli era veramente". Il fascino del quadro, inoltre, deriva dall'effetto drammatico creato dal forte chiaroscuro e, in parte, dal bel paesaggio di Port Lligat ispirato a un disegno di Velázquez per la Resa di Breda; mentre le due figure sulla spiaggia derivano da un dipinto di Le Nain.
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 18-02-10 alle 14:13
    Orientata verso l'immenso mare della bellezza

  6. #6
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce

    Sinteticamente: dagli epistolari con Santa Teresa d'Avila emerge che nel rapporto "erotico" ("eros" significa legarsi, ritornare all'unità iniziale), Teresa diventava il maschio e Giovanni la donna.
    Devo aggiungere che nel "Don Chisciotte della Manca" è descritto il funerale notturno fatto di nascosto perché il Santo era considerato eretico; oltretutto, da non seppellire in nessun caso in terra santa!
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 20-02-10 alle 03:18

  7. #7
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce

    http://www.unavox.it/m17.htm

    MEDITAZIONI

    3 - In primo luogo l'anima abbia un costante desiderio di imitare Cristo in ogni sua azione, conformandosi ai suoi esempii, sui quali méditi per saperli imitare e per comportarsi in ogni sua azione come Egli si diporterebbe.


    4 - In secondo luogo, per riuscire in questo è necessario che ella rinunzi a qualunque piacere sensibile che non sia puramente a onore e gloria di Dio e che rimanga vuota di ciò per amore di Gesú Cristo il quale, in questa vita, non ebbe e non volle altro piacere che quello di fare la volontà del Padre, la quale era per Lui suo cibo e nutrimento. Se, per esempio, le si offre il piacere di ascoltare cose che non hanno importanza per il servizio e la gloria di Dio, ella rinunzi al gusto di ascoltarle; se le si porge il diletto di vedere cose che non servono ad avvicinarla al Signore, reprima il desiderio di guardarle. Faccia lo stesso quando le si presenta l'occasione di conversare, di compiere qualche altra azione o di soddisfare qualche altro senso, purché lo possa fare facilmente; se ciò non le sarà possibile, basta che ella non assapori il gusto delle cose che non può evitare.


    5 - Per mortificare e calmare le quattro passioni naturali: gioia, tristezza, timore e speranza, dalla cui concordia e pace procedono questi e tanti altri beni, come rimedio efficace, fonte di grandi meriti e causa di grandi virtú serve quanto segue:


    6 - L'anima cerchi sempre di inclinarsi:

    non al piú facile, ma al piú difficile;
    non al piú saporoso, ma al piú insipido;
    non a quello che piace di piú, ma a quello che piace di meno;
    non al riposo, ma alla fatica;
    non al conforto, ma a quello che non è conforto;
    non al piú, ma al meno;
    non al piú alto e pregiato, ma al piú vile e disprezzato;
    non alla ricerca di qualche cosa, ma a non desiderare niente;
    non alla ricerca del lato migliore delle cose create, ma del peggiore e a desiderare nudità, privazioni e povertà di quanto v'è al mondo per amore di Gesú Cristo.


    8 - La pratica scrupolosa di questi avvisi da parte di un'anima, basta perché essa possa entrare nella notte del senso; tuttavia, per spiegarmi ancora meglio, aggiungerò altre norme che insegnano a mortificare la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, tre inclinazioni che, secondo San Giovanni, spadroneggiano nel mondo e sono causa di tutti gli altri appetiti (I Gv., 2, 16).


    11 - Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.
    Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.
    Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente.
    Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.
    Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.
    Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.
    Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.
    Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei.


    12 - Quando ti fermi su qualche cosa,
    tralasci di slanciarti verso il tutto.
    E quando tu giunga ad avere il tutto,
    devi possederlo senza voler niente,
    poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto,
    non hai il tuo solo tesoro in Dio.


    13 - In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l'alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica.


    [San Giovanni della Croce, Opere, Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, Postulazione Generale dei Carmelitani scalzi, Roma, 1991]
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 20-02-10 alle 03:20
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    Predefinito Rif: San Giovanni della Croce

    Giovanni della Croce e la notte oscura dell’anima

    di Franco Michelini-Tocci

    S. Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce formano la grande coppia mistica del Cinquecento spagnolo. Come la prima, anche il secondo sperimenta e insegna il metodo che porta alla quiete interiore e può essere considerato, in ambito cristiano, uno dei più grandi esperti di questa ricerca.

    Giovanni fu conquistato dalla grande personalità di Teresa quando aveva appena 25 anni, allorché si entusiasmò alle sue grandi idee di riforma dell’ordine carmelitano, secondo un programma di rinnovamento spirituale. L’anno seguente, il 1568 (Teresa aveva allora 53 anni), egli la segue a Valladolid dove assiste alla fondazione delle Carmelitane Scalze e tale è il suo trasporto di discepolo che dopo pochi mesi riesce ad infondere lo stesso entusiasmo in un gruppo di compagni, coi quali fonda il primo convento dell’ordine maschile. Cinque anni dopo il loro primo incontro, è Teresa a farsi in un certo senso discepola di Giovanni, del quale riconosce l’alto valore spirituale. Ella lo nomina vicario del monastero dell’Incarnazione di cui è priora e lo sceglie come suo confessore. In seguito Giovanni subirà la persecuzione da parte dell’ordine non riformato, soffrirà la prigione per otto mesi durante i quali comincerà a comporre i suoi poemi spirituali, e dopo la fuga e la riconquistata libertà avrà anche un non lungo periodo di successo per l’azione di riformatore e per i ruoli di responsabilità assunti. Seguiranno poi nuove ostilità e persecuzioni, anche da parte dei confratelli da lui giudicati troppo severi nell’imporre regole alle Scalze, ostilità che lo accompagneranno fino alla morte prematura a 49 anni. Otto anni prima era morta Teresa.

    I due grandi mistici carmelitani dominano l’ambiente spirituale del Cinquecento non soltanto in Spagna. Dopo di loro la storia della mistica cristiana entra in una fase nuova che si concluderà solo un secolo dopo con la condanna del quietismo da parte della Chiesa e la virtuale fine del misticismo cristiano, che solo di recente accenna ad una timida rinascita sotto l’influenza dell’Oriente, rinascita contrastata sì dalla Chiesa ma, almeno finora, con non troppa efficacia.

    Le due grandi personalità carmelitane, pur essendo legate da un’intensa ed amorosa amicizia, erano molto diverse tra loro. Irruenta e passionale Teresa, dolce e delicato Giovanni, ma diversi anche nel modo di procedere lungo il cammino spirituale. Giovanni non si sofferma troppo sulle pratiche concentrativo-estatiche e anzi parla degli effetti di esse come di cose che riguardano i principianti e che scompaiono col progredire della pratica spirituale. In termini buddhisti si potrebbe dire che Teresa è soprattutto un’esperta di samatha (concentrazione pacificante), anche se di essa si serve per giungere al vertice dell’esperienza unitiva, e Giovanni, che pure parte da samatha, è invece un esperto di vipassana, cioè dell’intuizione della natura ultima dell’essere.

    In una rapida esposizione dei suoi principali insegnamenti, seguiamo la tradizionale suddivisione, cara all’autore, nelle tre tappe rispettivamente dedicate ai principianti, ai proficienti e ai perfetti.


    Principianti

    Il primo sottile ostacolo con cui dovrà misurarsi un principiante riguarda non tanto i suoi difetti o le sue colpe più gravi, che si presumono rare e facilmente individuabili, quanto piuttosto le piccole distrazioni dal cammino che passano inosservate proprio perché abituali. Tra queste Giovanni enumera il parlar molto, l’attaccamento alle persone, al vestire, alla residenza (la cella nel caso di un frate), al mangiare, alla curiosità di informarsi, di udire, ecc. 1 Questi attaccamenti, in sé non gravi, fanno tuttavia sì che il discepolo non progredisca, ma anzi regredisca, perché perde progressivamente interesse per ‘le cose celesti’ 2, ossia per l’unità con l’Assoluto. Se invece l’interesse fondamentale si mantiene, esso ha come conseguenza quella di introdurre il discepolo in una fase decisiva del percorso che Giovanni chiama, con un’espressione diventata famosa, notte oscura.

    Il termine notte oscura non è inventato da Giovanni, anche se è lui a fornirgli diffusione e fama, ma è ripreso dalla tradizione mistica, in particolare da Gregorio Nisseno, dallo Pseudo-Dionigi e da Taulero. Tuttavia fu Giovanni della Croce ad attribuirgli quel valore centrale che ne fa l’espressione sintetica dell’esperienza mistica. Su di essa ci sono vari fraintendimenti, il più frequente dei quali è quello di identificare notte oscura con sofferenza e nient’altro, senza tener presente che l’espressione si riferisce invece a tutti i momenti dell’esperienza e quindi anche a quello culminante, quando diventa “notte pacifica, abissale e oscura intelligenza divina” 3, allorché l’anima si unisce a Dio “trasformata dall’amore”. Ma essa è notte, oltre tutto ciò, anche perché è il luogo dove agisce la fede, che procede nell’oscurità, cioè nella non conoscenza dell’obiettivo finale. Inoltre questa notte ha due modalità, che sono l’attiva e la passiva, la prima fatta di opportuni sforzi da parte dell’interessato, la seconda data per grazia. Si tratta dunque di una progressiva trasformazione, che è una purificazione del soggetto, il quale perde uno dopo l’altro i suoi attaccamenti ai sensi e alle facoltà psichiche (intelletto, immaginazione e desiderio). Questa trasformazione purificante è di notevole interesse psicologico, perché il suo punto di partenza, sul quale poi si basa tutto il successivo sviluppo, consiste nel pratico riconoscimento che ogni desiderio è ingannevole, nel senso che nemmeno il desiderio realizzato riesce mai ad essere completamene o definitivamente appagante. Il graduale raggiungimento di questa basilare convinzione (così contraria al comune sentire) determina quella che sopra chiamavamo ‘purificazione passiva’. Si tratta di un processo doloroso, in cui gli oggetti del desiderio perdono progressivamente significato, rivelando la loro sostanziale insoddisfacenza (è quello che nel buddhismo va sotto il nome di ‘prima nobile verità’ o riconoscimento di dukkha, la sofferenza universale). Dall’analisi accurata che l’autore fa di tutte le illusioni e gli errori in cui può cadere un principiante, si capisce che per Giovanni l’ultima illusione che deve cadere è quella che il cammino mistico possa diventare l’unico desiderio con promesse di appagamento, una volta che tutti gli altri si sono rivelati ingannevoli. Anch’esso, il fine spirituale, deve quindi diventare una notte oscura, pena la sua fallacia; anch’esso deve deludere e non dare quello che all’inizio si sperava che desse. E proprio questo è il momento cruciale che è l’inizio della catarsi, il vero principio di un mutamento di rotta salvifico, perché solo in esso può generarsi la convinzione che tutte le attese sono fallaci e che l’unica realtà è il presente così com’è, nella sua nuda semplicità tranquillamente accettata, cioè contemplata con un semplice sguardo fiducioso-amoroso. Nel momento della rinuncia a ogni vana speranza (una deleteria passione dell’anima la definisce Giovanni) si può gustare un’autentica pace, che sembra anche l’unica possibile, perché solo in essa si è finalmente in unità con la vita (e dunque con Dio).

    Una maestra spirituale Zen ha ben colto in un suo libro 4 l’affinità della notte oscura cristiana con la pratica buddhista della progressiva attenzione alla delusione derivante da qualunque oggetto di desiderio, satori compreso.

    Ma sentiamo come Giovanni descrive questo stato, riferendosi a chi ha cominciato a inoltrarsi nel percorso e ne ha già gustato qualche frutto: allora

    il Signore ottenebra questa luce e chiude la porta, ed essi annegano in questa notte la quale li lascia tanto aridi che essi non trovano alcun gusto nelle cose spirituali e nelle devozioni in cui erano soliti trovare diletto e piacere, ma al contrario vi trovano disgusto e amarezza 5… Non si può dire con certezza quanto duri… Quelli che hanno più capacità e forza per soffrire, vengono purificati dal Signore con maggiore intensità e prontezza, coloro invece che sono molto fiacchi, vengono condotti per questa notte a lungo con grande condiscendenza e con tentazioni deboli, poiché il Signore concede loro ordinariamente qualche sollievo al senso affinchè non tornino indietro; così essi giungono tardi… e alcuni non arrivano mai. Costoro non stanno né dentro né fuori di questa notte… 6

    Si vede chiaramente che il disagio di costoro nasce dall’incapacità di sopportare nel modo giusto la durezza della notte. Perché l’alba finalmente si affacci non occorrono eroismi ascetici che, anzi, l’autore severamente condanna: è da deplorarsi l’ignoranza di coloro i quali si caricano di penitenze straordinarie e di molti altri esercizi volontari, persuasi che ciò sia sufficiente per giungere all’unione con la sapienza divina 7.

    Occorrerà invece sviluppare la capacità di contemplazione che, in modo apparentemente molto semplice, è descritta come un “rimanere quieti trascurando qualsiasi opera interiore ed esteriore e tenendo lontana ogni sollecitudine di fare qualche cosa” 8. In realtà si tratta di un suggerimento molto tecnico, che viene spiegato come un cessare da ogni ‘meditazione’ di tipo discorsivo (come sarebbe p. es. riflettere su un passo della Scrittura o altri simili esercizi in cui è coinvolto il pensiero) e restare fermi su un oggetto singolo e specifico, che nella fattispecie è la sensazione della presenza di Dio.

    Il modo da tenere nella notte del senso è che essi non si devono curare per niente di camminare servendosi del discorso e della “meditazione”, poiché ormai non ne è più il tempo… faranno molto se avranno pazienza e persevereranno nell’orazione senza far niente… lasciare libera l’anima, sgombra e aliena da ogni notizia e pensiero… contentandosi solo di avere un’avvertenza amorosa e tranquilla di Dio… La contemplazione infatti non è altro che un’infusione segreta, pacifica e amorosa di Dio 9.


    Proficienti

    In questa fase intermedia, continua il lavoro iniziale, non libero ancora da un certo sforzo, che è considerato essenziale, perché la successiva unione perfetta potrà aver luogo soltanto a seconda della disposizione che l’anima si è conquistata 10. Ma viene ulteriormente specificato che tale disposizione non si acquista con la molteplicità delle meditazioni discorsive, di particolari pratiche, o di sensazioni piacevoli. Anche se “si ricevono comunicazioni sublimi come quelle degli angeli” l’unica cosa importante è la pratica di rinunciare a se stessi, cioè ai propri desideri egocentrici 11.

    Ma, in particolare, la notte oscura (che qui assume il nome di notte oscura dello spirito) si manifesta in questa fase come un progressivo distacco da quelle che sono le tradizionali facoltà psichiche, cioè intelletto, memoria e volontà (o, detto più modernamente, pensiero, immaginazione e desiderio).

    Il distacco dall’intelletto consiste nel perdere fiducia che esso possa arrivare a conoscere lo scopo finale coi suoi mezzi, anche se si tratti di rivelazioni, locuzioni o sentimenti e comunicazioni visionarie, che servono solo a fare insuperbire. L’antidoto perciò è la fede, cioè lo slancio fiducioso dell’anima, senza dati di conoscenza a cui affidarsi. E il rimedio pratico è sempre lo stesso: imparare “a starsene nella quiete con attenzione e avvertenza amorosa di Dio” 12. È questa la principale pratica suggerita dall’autore ai proficienti, ai quali sarà consigliato di abbandonare definitivamente la meditazione discorsiva, quando diventa da sé arida e priva di interesse. La nuova forma di meditazione, cioè il piacere di “starsene soli con attenzione amorosa in Dio, senza considerazione particolare, e in pace interiore, quiete e riposo” è in pratica quello che Giovanni intende per contemplazione:

    Quanto più l’anima si andrà abituando alla quiete, tanto più crescerà e si farà sentire in lei l’amorosa notizia generale di Dio, nella quale ella prova piacere più che in ogni altra cosa, perché le causa pace, riposo, sapore e diletto senza pena 13.

    Quiete è la parola fondamentale che richiama la pratica di Teresa, ma anche la lotta che si scatenerà un secolo dopo nella chiesa cattolica contro il quietismo. Eppure in questa quiete, e nei doni che essa comporta, è racchiusa tutta la pratica di Giovanni, che a volte è cosa talmente delicata, a differenza dei rapimenti e dei voli di Teresa, che può essere addirittura inavvertibile, per quanto strano questo possa sembrare:

    È necessario sapere che la notizia generale di cui sto parlando, talvolta è così sottile e delicata, specialmente quando è più pura, più semplice, più perfetta, più spirituale e più interiore, che l’anima, quantunque sia occupata in essa, non la vede, né la sente. Ciò avviene massimamente quando essa è in sé più chiara, più perfetta e più semplice, caso che si verifica quando essa investe un’anima la quale, a sua volta, è più monda e più aliena da altre intelligenze e notizie particolari, a cui l’intelletto e il senso si potrebbero attaccare 14.

    Ma si tratta, come è evidente, di stati particolarmente avanzati, sui quali torneremo più avanti.

    Quanto alla facoltà psichica della memoria, che ha soprattutto a che fare con l’immaginazione e la fantasia, anch’essa sarà abbandonata allorché apparirà evidente la sua inadeguatezza a cogliere Dio. Qui l’antidoto sarà la virtù della speranza, perché ha la caratteristica di fondarsi non su quanto vede ma su quanto attende, e il rimedio pratico sarà il concentrarsi sull’ascolto, altra facoltà meditativa per eccellenza, “attendendo in silenzio a Dio”15.

    La “volontà” è la facoltà desiderativa, gli affetti, anch’essi inadeguati a cogliere l’Assoluto, perché ottenebrati dalle quattro passioni che, nel linguaggio di Giovanni, sono “gioia e dolore, speranza e timore” 16. A ben guardare, le quattro passioni possono essere ridotte a due che non sembrano troppo diverse dal “desiderio” e dall’“avversione” della dottrina buddhista. La speranza (che in quanto passione non ha evidentemente niente a che fare con l’omonima virtù teologale, di cui si è parlato poc’anzi) è desiderio e il timore è avversione, mentre gioia e dolore sono le immediate compagne della loro presenza. Passioni però sono esse stesse nel momento che a loro si indulga. Si ricordi, a questo proposito, l’espressiva metafora di Ajahn Chah riguardo al percorso spirituale. Dice questo noto maestro thailandese, da poco scomparso, che la vita conduce naturalmente verso la liberazione, come il fluire della corrente di un fiume porta un tronco verso il mare anche senza che esso lo voglia, ma che a ciò si oppongono due ostacoli, cioè la possibilità che il tronco si areni sulla riva destra o sulla sinistra e queste due rive ostacolanti il naturale processo sono appunto l’indulgere alla gioia e l’indulgere al dolore 17. Ma per tornare agli affetti, alla cosiddetta “volontà”, essa ha come antidoto la carità, che consiste nell’amare quanto Dio ama, cioè quanto la vita offre, senza più essere attratto dalle preferenze individuali. A proposito delle quali, l’autore non tralascia occasione di sorridere di come si manifestino, tra gli spirituali, alcune di queste, che appaiono inutili e nocive. Nessuna particolare preferenza, egli dice, va accordata alle immagini sensibili, come quadri o statue, dato che “la persona veramente devota ripone principalmente la sua devozione nell’invisibile” 18. Se un’immagine è più miracolosa di un’altra, dice l’autore con spirito indipendente, ciò è dovuto alla devozione che vi si ripone. E continua dicendo che spesso sono più efficaci le immagini solitarie perché sono lontane dal chiasso e dalla moltitudine e perché “a causa del movimento necessario per andarle a vedere l’affetto cresce di più”. Così pure, i pellegrinaggi sono consigliabili solo quando sono solitari, e meglio se fatti in tempi non usuali.

    Non consiglierei a recarvisi quando v’è la folla poiché, ordinariamente, in tal caso si torna più distratti di quando siamo partiti. Molti anzi si decidono a fare tali pellegrinaggi più per svago che per devozione 19.

    Un interesse particolare meritano le caratteristiche della notte oscura in questa fase. Intanto questa, detta ”dello spirito”, ha dei periodi di aridità del cuore e di sofferenza molto più duri di quella “del senso”, e si manifesta molti anni dopo essere entrati nello stato di proficienti. Questo significa dunque che vi è un lungo periodo di preparazione alla notte, nel quale si manifestano fenomeni di rilievo. Da un lato l’anima progredita ha meno difficoltà, anzi ha facilità, a immergersi subito in una contemplazione “molto serena e amorosa” trovando “sapore spirituale senza la fatica del ragionamento”. Dall’altro

    non le mancheranno mai alcune prove, aridità, tenebre e angustie talora molto più intense di quelle passate che sono come presagio e annunzio della notte dello spirito che sta per venire 20.

    Si aggiungano a tutto ciò disagi fisici, che sono la conseguenza dell’inadeguatezza del corpo alla forza dello spirito, quali debolezza di stomaco, deperimento, fiacchezza. Ma è interessante che alla stessa stregua Giovanni metta quei fenomeni che sono generalmente considerati manifestazioni di stati speciali, come le estasi (elencate assieme agli svenimenti e agli slogamenti delle ossa). Ciò non accade ai perfetti, che sono stati purificati dalla notte dello spirito. “In essi cessano le estasi e i tormenti del corpo” 21. L’estasi non ha dunque alcun valore in sé, mentre ha valore la quiete dello stato contemplativo che, come diremo, apre la strada alla suprema intuizione dell’Essere, come già in Teresa. E anche a questo proposito può essere utile un riferimento ad Ajahn Chah, là dove parla del “cattivo” samadhi, che è tale appunto perché fine a se stesso e non strumento per giungere alla visione profonda (vipassana) 22.

    Non deve credersi tuttavia, come si diceva all’inizio, che la notte sia sinonimo di sofferenza e nient’altro. Essa, certo, dura alcuni anni, prima di cessare nello stato di perfezione, ma anche mentre dura

    vi sono intervalli di sollievo, durante i quali la contemplazione oscura… tralascia di investire l’anima in modo purificativo per investirla in maniera illuminativa o amorosa 23.

    Si parla anche di “effetti gustosi” 24 e si dice addirittura che, durante il percorso, all’anima

    Dio concede spesso e molto ordinariamente la gioia, visitandola saporosamente e dilettevolmente nello spirito 25.


    Perfetti

    L’appartenenza a quest’ultimo e più alto grado è caratterizzata principalmente da due condizioni. La prima riguarda l’intelletto, ed è sempre una forma di notte oscura, anche se molto diversa dalle precedenti; l’altra riguarda il cuore, che è pervaso dall'amore.

    La notte qui è tale soltanto perché, essendo ormai vuota di contenuti la mente, la luce non è riflessa da nulla e perciò appare invisibile ed oscura. Si tratta dunque, per così dire, di una luce tenebrosa. All’atto pratico, questo significa che la persona non si accorge di niente, che non ha, cioè, alcuna fruizione di stati di essere speciali: “sa soltanto di essere al buio”. Ma ecco la rilevante particolarità:

    quando la luce spirituale da cui l’anima è investita trova qualcosa in cui riverberarsi, cioè quando le si offre di intendere qualche perfezione o imperfezione spirituale o da fare qualche giudizio intorno al falso e al vero, allora ella intende e vede molto più chiaramente di quanto non vedesse e intendesse prima di trovarsi in quelle tenebre… Con grande facilità e universalità conosce e penetra qualunque cosa divina o terrena che le si offra 26.

    Ma siccome “Dio non dà mai la sapienza mistica senza l’amore dal quale viene infusa” 27, ecco allora che il cuore è pervaso d’amore, che si impadronisce di lui come il fuoco si impadronisce progressivamente del legno 28. Si tratta di un amore infuso, cioè passivo, in cui “l’unica azione che l’anima deve compiere è quella di dare il proprio assenso” 29.

    Giovanni dedica ben due delle sue opere, il Cantico spirituale e la Fiamma viva d’amore, a descrivere lo stato della pienezza dell’esperienza mistica. Qui di seguito elencherò solo alcune delle caratteristiche principali di questo stato.

    1. Nell’unione d’amore o matrimonio spirituale si raggiunge l’identità tra l’amante e l’amato. A ciò allude S. Paolo col famoso : “Non sono io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal.2, 20). “Chi in vita raggiunge quest’abbozzo di trasformazione è veramente felice” 30.

    2. Quiete interiore e intuizione profonda (non molto diversamente da samatha e vipassana) sono concepite, nella giusta forma, come un’unità: “Nel sonno spirituale… l’anima è pervasa e gusta la calma, il riposo e la quiete della notte pacifica, e insieme riceve un’abissale e oscura intelligenza divina” 31. Si noti come la “notte oscura” abbia qui lasciato il passo alla “notte pacifica”.

    3. “La grande stabilità dell’anima in questo stato… non prova né dolore né afflizione. Ella non ha neppure la compassione, cioè la pena propria di quella virtù, sebbene ne possegga le opere e la perfezione. Infatti ora le manca ciò che di fiacco c’è nelle virtù, e le rimane invece quanto c’è di forte, di costante e di perfetto” 32.

    4. L’anima non teme più ormai le esperienze dolorose e anzi le accoglie, o addirittura le desidera, come manifestazione della volontà divina, con la quale è identificata, e non della propria, che non esiste più. La sofferenza, a questo punto, è solo “un mezzo per penetrare maggiormente nel folto della dilettevole sapienza di Dio” 33.

    5. Infine, come già si è detto, il mistico realizzato possiede pienamente una “sapienza tranquilla” grazie alla quale ha la facoltà di penetrare con chiarezza tutti i grandi misteri dell’essere, dall’unione tra uomo e Dio all’armonia tra giustizia e misericordia 34 e, cosa grande tra le grandi, al vedere il tutto in unità 35.


    Note

    1. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, in Opere, Roma 1998, p. 51.

    2. Ivi, p. 53.

    3. Cantico spirituale, in Opere, p. 587, v. avanti.

    4. Ch. J. Beck, Nothing Special. Living Zen, Harper, San Francisco 1993, tr. it. Niente di speciale. Vivere lo Zen, Ubaldini, Roma 1994, p. 40.

    5. Notte oscura, in Opere, p. 373.

    6. Ivi, p. 398.

    7. Salita, p. 40.

    8. Notte, p. 377.

    9. Ivi, p. 382.

    10. Salita, p. 231.

    11. Ivi, p. 91.

    12. Ivi, p. 114.

    13. Ivi, p. 118.

    14. Ivi, p. 122.

    15. Ivi, p. 235.

    16. Ivi, p. 260.

    17. A. Chah, I maestri della foresta, Ubaldini, Roma 1989.

    18. Salita, p. 316.

    19. Ivi, p. 319.

    20. Notte, p. 399.

    21. Ivi, p. 401.

    22. A. Chah, op. cit.

    23. Notte, p. 416.

    24. Ivi, p. 439.

    25. Ivi, p. 463.

    26. Ivi, p. 421 s.

    27. Ivi, p. 436.

    28. Ivi, p. 429.

    29. Ivi, p. 433.

    30. Cantico, p. 565.

    31. Ivi, p. 587.

    32. Ivi, p. 618.

    33. Ivi, p. 700.

    34. Ivi, p. 702.

    35. Ivi, p. 589 s.

    Giovanni della Croce e la notte oscura dell'anima di Franco Michelini-Tocci
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 20-02-10 alle 03:23
    "Non posso lasciarti né obliarti: / il mondo perderebbe i colori / ammutolirebbero per sempre nel buio della notte / le canzoni pazze, le favole pazze". (V. Solov'ev)

 

 

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