... questa storia non la conoscevo, ma la cosa non sorprende: quando mai queste vicende vengono divulgate in Italia, se non tardivamente e con informazione di nicchia?
Forse è per questo yurj e gli altri "cubisti", che periodicamente vengono a sfoggiare in questo forum la loro ammirabile memoria corta - se non spesso memoria zero - si dicono "angosciati" per la pena di morte, si battono il cuore per gli eroici kamikaze e si asciugano le lacrime di dolore con una bella bandiera arcobaleno. E' che non sanno certe cose, e non vogliono saperle.
Ma noi siamo qui, proprio per ricordargliele.
E questa è un'altra storia che a loro farebbe bene leggere... tra un volantino e l'altro.
E’una foto famosa. Meno suggestiva di
quella dei soldati americani che
piantano la bandiera a stelle e strisce a
Iwo Jima, ma degna di essere considerata
un documento. La scattò cinquant’anni fa
Mario De Biasi, fotografo di Epoca, nei
giorni della precaria libertà ungherese.
Quando pareva che la rivoluzione avesse
vinto. Due i personaggi immortalati per
gli archivi della storia: un uomo di chiesa
e un soldato. L’uomo di chiesa è il cardinale
József Mindszenty. Ha 65 anni. Il soldato
ne ha trenta di meno ed è un ufficiale
dell’esercito popolare: il maggiore
Antál Pálinkás. Nome e cognome decisamente
popolari, frutto però di uno “sbattezzamento”:
quello del marchese Antonio
Pallavicini, convertitosi al socialismo
dopo la guerra e divenuto un “uomo nuovo”
in tutti i sensi. Compreso il cambio
anagrafico. Ecco allora Antál Pálinkás:
patriota ungherese, comunista, soldato
leale che obbedisce agli ordini. Paradossalmente,
lo sta facendo anche nell’ottobre
del 1956. Ha infatti ricevuto l’incarico
di liberare il cardinale Mindszenty. Il quale,
fiero anticomunista e conservatore, ha
trascorso sette anni nelle prigioni del popolo
e nel 1955, in pieno processo di destalinizzazione,
è stato trasferito nell’ex
castello dei conti Almássy a Felsöpetény,
nel Nord del paese.
Le autorità rivoluzionarie ordinano ora
a Pálinkás di prelevare e di condurre a
Budapest sotto scorta il cardinale primate,
il simbolo vivente della resistenza ungherese.
Antán fa il suo dovere. Ma quando
i sovietici e János Kádár spazzano via
Imre Nagy e fanno piazza pulita degli insorti,
il “traditore” viene arrestato, processato
e impiccato. Il 10 dicembre 1957,
“nella piena osservanza della legalità”. Il
cardinal Mindszenty, che ha intanto trovato
rifugio nell’ambasciata americana di
Budapest (ci resterà per quindici anni),
legge in un trafiletto del Népszabadság la
notizia dell’esecuzione. Ecco quel che ne
scrive nelle “Memorie”: “L’impiccagione
del maggiore Pallavicini mi scosse profondamente.
Era morto per me, ma forse la
vendetta lo avrebbe raggiunto anche se
non avesse avuto alcun rapporto con la
mia persona”. Mindszenty coglieva nel segno.
E colse nel segno anche Pallavicini
quando disse al compagno di cella, lo
scrittore Gyula Hay, ebreo e comunista:
“Hanno bisogno di nemici di classe. Hai
mai visto una controrivoluzione senza il
nemico di classe? Io sono un marchese, io
sono il nemico di classe”.
Strana la vita. E strana, e tragicamente
esemplare, la storia che ci racconta Clemente
Manenti (ricca appendice di documenti
e postfazione “come eravamo” di
Adriano Sofri). Perché Antál non era un
“nemico di classe”. Anzi. Visto che l’aristocratico
Antonio Pallavicini, dopo aver
frequentato l’Accademia militare e essere
stato ufficiale dell’esercito di Horty,
aveva scelto la resistenza contro tedeschi,
aveva disertato, si era consegnato all’Armata
rossa. E all’indomani della Liberazione,
reintegrato nei ranghi dell’esercito,
aveva troncato i rapporti con la famiglia
(grande nobiltà di origine italiana, “derivata
da un cadetto dei Pallavicini di Priolo
che nel diciottesimo secolo era andato
nella puszta ungherese a combattere contro
i turchi al servizio dell’Arciduca d’Austria,
e ne era stato compensato con una
generosa parte dei territori recuperati
agli Asburgo e alla cattolicità”), rinunciando
al nome, al casato, al sangue blu.
Ma non bastò. Attivati i meccanismi della
repressione, i comunisti di obbedienza sovietica
ebbero bisogno di qualche “controrivoluzionario”
da far fuori per rieducare
gli ungheresi. Ci stava bene anche la
testa di Pallavicini, il nemico di classe,
appunto. Lo era sempre stato, gli urlarono.
E alla fine aveva gettato la maschera,
liberando il “suo” cardinale.
Clemente Manenti
UNGHERIA 1956.
IL CARDINALE E IL SUO CUSTODE
187 pp. Sellerio, euro 10