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    Ecologia, decrescita e non dualità: una cultura ecofilosofica per il nostro
    tempo


    di Paolo Scroccaro, Paolo Vicentini, Mario Cenedese/Eduardo Zarelli

    04/01/2007

    Fonte: Arianna Editrice

    Intervista* ad alcuni esponenti dell’Associazione Eco-Filosofica di Treviso a cura di Eduardo Zarelli, rispondono Paolo Scroccaro, Paolo Vicentini, Mario Cenedese che hanno seguito la vita associativa dalle origini fino agli sviluppi attuali.

    D: Una domanda preliminare. La vostra associazione è nata nel 1980, con la denominazione Associazione Filosofica Trevigiana. In seguito, avete deciso di cambiare nome, cosicché l’attuale denominazione è Associazione Eco-Filosofica. Immagino che non si tratti di un cambiamento solo formale.

    R: All’inizio(anni ’80), la nostra associazione era collegata alla SFI (Società Filosofica Italiana), con la quale collaborava organizzando eventi culturali; tuttavia già all’epoca si distingueva dalle sezioni della SFI, perché queste ultime permettevano l’iscrizione solo ai laureati in filosofia (e discipline affini), mentre la nostra associazione era aperta anche ai non-laureati, senza restrizioni “corporative”: questo perché si pensava già a quel tempo ad una pratica filosofica non ghettizzata dentro il ceto docente, ma capace di coinvolgere la società civile e di svolgere una funzione di orientamento culturale rispetto ai problemi del momento. Progressivamente, è maturata sempre più una sana insofferenza verso la “filosofia accademica”, ridotta troppo spesso a noiosa erudizione e a peripezie cerebralistiche (se
    ne trova ampia testimonianza nella medietà della manualistica e dell’insegnamento, tranne poche eccezioni). Si riteneva (e lo riteniamo a maggior ragione oggi) che quel modo di fare filosofia fosse inutile ed anzi controproducente, perché respingente nei confronti della società e perché comunque trasmetteva una pessima immagine della filosofia. Si trattava quindi di prenderne le distanze per quanto possibile, evitando di esser confusi con ambienti culturalmente inadeguati. Ad un certo punto si è deciso perciò di modificare lo statuto e il nome dell’associazione, adeguandoli alle esigenze di cui sopra.

    D: E avete deciso di caratterizzarvi nel senso dell’Ecofilosofia…

    R: Si trattava di mettere in relazione la filosofia con le emergenze del nostro tempo, per evidenziare un orientamento culturale attento all’attualità e per suggerire un approccio “militante” nel modo di prospettare la filosofia. Poiché le emergenze cosiddette “ambientali” sono giustamente riconosciute, ormai anche nell’immaginario collettivo, come le più gravi, si è optato per la formula “Associazione Eco-Filosofica”. Ciò tra l’altro corrisponde molto bene ad una gran parte delle nostre pratiche culturali, che legittimano tale dizione. In funzione di ciò, anche il settore centrale del nostro sito (www. filosofiatv.org) è dedicato all’Ecofilosofia, intesa in senso largo (vi compaiono anche molti materiali sulla Decrescita, per motivi facilmente intuibili).

    D: Altri due settori del sito sono dedicati all’Intercultura e alla Storia della Filosofia, ed anche i vostri Quaderni e le vostre iniziative in gran parte riflettono queste partizioni

    R: Un’altra grande emergenza attuale, è quella riguardante il rapporto tra le culture, tra le civiltà, tra l’Occidente e gli altri popoli…Molte preoccupazioni del presente sono dovute proprio a conflitti che rinviano alle voci appena citate. E’ perciò indispensabile una seria riflessione anche in merito a tutto questo, poiché si tratta di conflitti che non possono essere affrontati a partire da impostazioni politiche del tutto insufficienti, in quanto espressioni (a destra come a sinistra) di un allarmante riduttivismo culturale, che finisce per creare nuovi problemi senza risolvere quelli vecchi. Tale pochezza è riscontrabile anche nelle correnti religiose predominanti e nel pensiero laico: ciò fa aumentare la preoccupazione, poiché mancano i presupposti per soluzioni costruttive.

    Per usare un’espressione abusata, noi siamo a favore del dialogo interculturale, che non va però confuso con il buonismo superficiale che circola in certi convegni e nella maggior parte delle pratiche scolastiche che si collocano sotto il grande ombrello del dialogo tra culture. Occorre un’alternativa capace di superare sia le logiche meramente contrappositive,
    sia il buonismo sentimentale: si tratta di applicare quello che potremmo chiamare, con Panikkar, lo stile della non-dualità, messo in opera da varie saggezze del passato, dalle quali possiamo ricavare insegnamenti tutt’ora validi, purché li si interpreti con la necessaria flessibilità, riadattandoli al contesto odierno. Ovviamente, un’operazione del genere richiede un livello elevato di formazione interculturale, che le istituzioni scolastiche non sono in grado di fornire (al massimo possono mettere a disposizione quel surrogato insipido che in gergo vien detto “intercultura compensativa”). Varie nostre iniziative sono rivolte proprio al superamento di quest’ultima, facendo conoscere autori, dottrine ed esemplificazioni storiche che avvicinano allo stile della non-dualità, per tentare di rendere possibile un dialogo profondo e costruttivo. Non saranno le feste, le cene
    interetniche e le elemosine a tenere aperto qualche spiraglio di salvezza e di pace, bensì, forse, la saggezza non-duale.

    Per quanto riguarda la Storia della Filosofia, essa conserva per noi una grandissima importanza, a patto di distinguerla da quella che viene per lo più divulgata nelle scuole, tramite insegnamenti un po’ noiosi e un po’ sprovveduti. Vi predomina infatti un’impostazione riduttiva ed etnocentrica
    (il passaggio dal mito alla ragione, la fiaba del miracolo greco, lo sviluppismo applicato alla storia del pensiero…) che è stata denunciata con forza da più parti, anche autorevoli; ciò nonostante, non vi sono stati riscontri significativi sul piano didattico e su quello della manualistica.
    La stragrande maggioranza dei docenti, allergica all'approfondimento culturale, continua ad insegnare certi pregiudizi etnocentrici in versione storico-filosofica, come se nulla fosse. Restando alla manualistica, a tutt’oggi solo padre Ernesto Balducci, pioniere in questo campo, ha elaborato un manuale (Storia del pensiero umano, ed. Cremonese) aperto alle culture extraeuropee (orientali in particolare) cui ha dato spazi dignitosi. Quello di Balducci è rimasto un tentativo pressoché isolato, che occorre riprendere e migliorare.

    Un altro limite è dovuto, ne abbiamo già accennato, all’impostazione nozionistica e cerebralistica, che rende così grigio e insignificante l'insegnamento della filosofia. Ciò vale in particolare per il pensiero premoderno, la cui saggezza resta il più delle volte incompresa e sepolta sotto un coacervo di contorte concettualizzazioni (la cui presunta utilità viene giustificata fieramente a colpi di “così si insegna a ragionare”!!). Proprio per riscoprire il valore di tali saggezze, spesso proponiamo materiali che hanno lo scopo di ripresentare in modo adeguato certi insegnamenti del passato, liberandoli da quelle sovrapposizioni interpretative che ne impediscono una valida comprensione. Nella misura in cui certe filosofie del passato vengono rivisitate e riposizionate nella giusta luce, il resto viene da sé: ci si rende conto, per esempio, che l’etica kantiana non è affatto superiore a quella cosmocentrica degli antichi; che la tolleranza prevista dal liberale Locke è cosa meschina rispetto a quella praticata dal moghul Akbar; che anche gli antichi sapevano ragionare (che scoperta!), senza però assolutizzare la ragione, poiché riconoscevano in sovrappiù la dimensione noetico-contemplativa, che i moderni hanno smarrito…

    Ci siamo soffermati sulla storia della filosofia, ma considerazioni analoghe possono essere estese anche alle altre discipline, la cui impostazione di
    fondo risente di pregiudizi simili, se non identici: perciò il nostro interesse è rivolto a tutte le discipline, in ogni ordine di scuola, a partire dalla scuola elementare.

    D: La vostra associazione si muove da molti anni sul territorio trevigiano e
    veneto, ma con una profondità culturale che ha un'eco molto più ampia.
    Questo è probabilmente dovuto al taglio non conformista del fatto ecologico
    e delle sue ricadute culturali. In effetti si coglie nella versatilità della
    vostra prospettiva un filo conduttore che collega intimamente i fattori
    spirituali, economici, sociali, ambientali, scientifici: ciò è tipico di una
    filosofia aperta ai vari aspetti della realtà ed ai molteplici angoli visuali, capace di evitare le assolutizzazioni unilaterali. Possiamo riassumere tutto ciò con il termine “olismo”?

    R: “Olismo” va benissimo, poiché indica l’apertura verso la totalità, e quindi verso le infinite connessioni che sono per così dire in essa ospitate, in quanto partecipi del grande reticolo cosmico. Poiché, come
    sostengono molte saggezze ecocentriche, “tutto è relazionato”, lo saranno per forza di cose anche i fattori spirituali, materiali etc. : perciò la filosofia, intesa al modo di Platone quale “apertura al tutto” (senza la pretesa di circoscriverlo, di catturarlo), deve seguire il filo conduttore che unisce i vari aspetti della realtà, senza preclusioni…questo spiega perché ci occupiamo anche di questioni che debordano l’ambito considerato strettamente filosofico dagli accademici. Tale approccio olistico può esser considerato di per sé ecologico, nella misura in cui anche l’ecologia si rivolge alle varie interconnessioni cosmiche: un sostenitore del paradigma olistico come Fritjof Capra considera ancora più adeguato il termine “ecologico” (vedi La rete della vita), purché esso venga riferito all’Ecologia profonda e non a quella superficiale, per motivi che Capra spiega in modo esauriente e che sono del tutto condivisibili. Per dirla nel modo più breve possibile: l’ecologia profonda è olistica in quanto prevede un’apertura verso tutti gli esseri in modo equanime, mentre l’ecologia superficiale li vede in una prospettiva antropocentrica, cioè in vista di un loro efficiente utilizzo. In questo caso non c’è attenzione rispettosa per il “tutto”, bensì calcolo efficientistico direzionato sulla fetta di mondo che si vuole assoggettare. L’ecologia superficiale ha un taglio conformista, ed è pericolosamente esposta verso il razionalismo progettante e manipolatore ufficialmente inaugurato da F. Bacone e Cartesio, aggiungendovi qualche correttivo; solo l’ecologia profonda è non conformista, ed è in sintonia con l’atteggiamento olistico e contemplativo.

    D: L’apertura culturale che voi sostenete, rivolta a superare i riduttivismi
    e le contrapposizioni di vario genere, comporta tra l’altro l’esigenza di riequilibrare il rapporto uomo-natura e quello tra i popoli, in spirito di pluralismo interculturale. Quale lettura date del rapporto critico tra diversità e universalismo alla luce del processo di globalizzazione ed omogeneizzazione culturale indotto dalla modernità?

    R: Prima di tutto, occorre fare chiarezza su cosa si debba intendere per
    universalismo: molti ritengono che esso indichi il contrario di pluralismo e
    di diversita’, e quindi criticano ogni pretesa di universalismo, equiparato
    ad un’ideologia aggressiva e negatrice delle differenze. In quest’ottica, l’occidentalizzazione del mondo descritta da Serge Latouche, tanto per citare un esempio celebre, sarebbe un processo di universalizzazione dell’Occidente moderno che conduce all’affermazione del pensiero unico. In questo caso, l’universalizzazione viene intesa come espansione di un unico punto di vista che elimina tutti gli altri. Viene così negato ogni pluralismo culturale e imposto universalmente quel razionalismo progettante-calcolante che conduce alla devastazione della natura e delle culture.

    Resta però da precisare che l’universale non è sempre stato inteso in questo modo aggressivo e imperialistico. L’Uno o l’Aformale dei Neoplatonici (tanto per restare nel Mediterraneo) era per loro l’universale per eccellenza,
    inteso però come illimitata dimora accogliente, che nella sua vastità
    inaggirabile accoglie tutti gli enti e gli eventi (anche quelli di segno
    contrario, come insegnano le cosmologie tradizionali fondate sull’integrazione o sull’equilibrio degli opposti). Ciò è connaturato a tutte le saggezze non-dualistiche d’Occidente e d’Oriente, nonostante le diverse formule espressive da esse impiegate. Merita sottolineare che la prima parola celebre della cosiddetta filosofia occidentale è l’universale in quanto
    Apeiron, come sappiamo da Anassimandro: e Apeiron ha proprio il significato
    di Illimitata dimora, che come tale ospita i contrari e le diversità. Come
    si può evincere, la filosofia, nel Mediterraneo, si era mossa col piede
    giusto fin dall’inizio, calcando il sentiero della non-dualità e del pluralismo…questo vale per i Greci, ma vale anche per altre culture.

    D: E’ in tale contesto che va colto il vostro speciale interesse per le
    antiche tradizioni di saggezza e per le culture non occidentali?

    R: Certamente: l’attenzione per le tradizioni di ogni dove è doverosa per i
    motivi di cui sopra e per molti altri, che poco o nulla hanno in comune con
    la curiosità eruditiva fine a se stessa. Il fatto è che non si può ogni volta ripartire da zero, come volevano certi padri della modernità, alla Cartesio, che pretendevano di costruire una civiltà migliore negando il valore delle culture premoderne. Tutti quelli che hanno sostenuto tesi simili, ridicolizzando il passato, in realtà lo hanno fortemente deformato, essendo incapaci di comprenderlo. E’ quanto accade ancor oggi, e ne abbiamo già fatto cenno. Riprendendo certi esempi della manualistica, la cosmologia
    greca risulterebbe quasi sempre dualistica, semplicemente perché vi sarebbero almeno due principi in competizione; la metafisica sarebbe quasi
    sempre monistica (e dunque autoritaria), poiché tutto farebbe capo a un solo principio…Impiegando schematizzazioni sbrigative di questo genere, ripetute con sicumera da migliaia di docenti, è impossibile portare alla luce gli orientamenti di saggezza non-duale che sono depositati in certe dottrine
    antiche: così facendo, si perde di vista il meglio di esse, o addirittura si
    esercita nei loro confronti una gratuita violenza interpretativa; probabilmente per questo Umberto Galimberti ha apostrofato i manuali di
    filosofia con l’espressione “quei libri orrendi che circolano nei nostri licei” (vedi Idee: il catalogo è questo. Feltrinelli ed.).

    Si potrebbero produrre moltissimi altri esempi simili, anche al di fuori della storiografia filosofica, ma il discorso sarebbe lunghissimo. Qui basterà ribadire che essere attenti alle tradizioni di saggezza significa semplicemente: lasciar parlare tali saggezze, lasciar fluire il loro messaggio, senza forzature e interferenze, per quanto ne siamo capaci. Questo criterio non colonialistico, indice di onestà intellettuale, deve essere riservato ai Greci e a qualsiasi altra cultura del pianeta.

    Quanto detto non comporta alcun atteggiamento “passatista”, alcun tradizionalismo di maniera: non si vuole minimamente idealizzare il passato,
    poiché anch’esso aveva i suoi limiti (la perfezione non appartiene comunque
    al mondo storico, insegnava Platone). Le saggezze tradizionali non vanno
    fotocopiate e chiosate con pedanteria neoscolastica: semplicemente, vanno rispettate e riabilitate, anche perché hanno ancora molto da dire, perfino al nostro mondo.

    D: La lettura sapienziale delle tradizioni culturali è per voi più che una
    legittimazione del passato, una chiave di lettura del presente, per
    rimeditare i problemi di drammatica attualità che hanno la loro radice in
    determinati modi di concepire il mondo ed i rapporti tra gli esseri che vi
    sono ospitati. Se la contraddizione epocale è l’acuita dicotomia tra cultura
    e natura, dobbiamo quindi accomunare l’ecologia e la filosofia? I limiti
    dell’ambientalismo hanno un logico superamento nell’ecologia del profondo?

    R: Da qualche parte, G. Bateson ha detto che “i problemi principali del
    mondo sono il risultato della differenza tra il modo in cui la natura opera
    e il modo in cui l’uomo pensa”. Un modo elegante per sintetizzare il senso
    della frattura tra natura e cultura moderna. I pensatori della modernità (da
    F. Bacone a Cartesio, da Kant a Hegel etc.) hanno celebrato la scissione tra natura e cultura, ritenendo che quest’ultima dovesse rendersi indipendente dai vincoli naturali e costruire tramite la tecnoscienza e l’attivismo della ragione un mondo nuovo, superiore a quello naturale. Questo tipo di pensiero è antiecologico già nella sua impostazione di fondo, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

    Le culture premoderne, pur essendo alquanto differenziate, convergono in
    gran parte su un orientamento cosmocentrico, nella misura in cui ritengono
    di trovare nelle leggi cosmiche, nei ritmi naturali, dei principi d’ordine
    che quindi le società umane devono rispettare e introiettare. Ciò significa
    che esse sono intrinsecamente ecologiche, in quanto si ispirano ai processi
    ciclici presenti in natura per organizzare anche la vita umana. L’ecologia
    non nasce con certi autori moderni, per il semplice fatto che essa è da
    sempre connaturata a molte filosofie e saggezze premoderne. Per di più, non si tratta di un’ecologia spicciola, bensì di un’ecologia profonda, proprio
    perché tali saggezze propendono per una visione cosmocentrica; di conseguenza, tendono a realizzare istanze tipiche dell’ecologia profonda:
    basti pensare al rispetto per tutti gli esseri, all’etica della compassione
    cosmica…Devall e Sessions l’hanno detto benissimo: l’ecologia profonda è il
    filo conduttore che pervade e ispira varie correnti spirituali e filosofiche
    dell’antichità (vedi Ecologia profonda. Ed. Gruppo Abele); essa può rivitalizzare anche l’ambientalismo contemporaneo, troppo spesso attardato
    sulle posizioni dell’ecologismo superficiale.

    D: Tra i limiti dell’ambientalismo vi è la contraddittoria aspirazione a
    riformare la società industriale tramite l’ossimoro dello “sviluppo
    sostenibile”. Per questo voi collaborate con il movimento della decrescita,
    senza però rinunciare alla vostra specifica sensibilità culturale. Forse che
    anche quest’ultima forma critica del modello occidentale ne mantiene più o
    meno inconsciamente un riduttivismo antropocentrico?

    R: Decrescita è una parola d’ordine importante, che ha il grande merito di
    raccogliere e sintetizzare molte istanze culturali, sociali, ambientali,
    economiche, quali: sostenibilità, sobrietà, senso del limite,
    autosussistenza, condivisione, rispetto dei beni comuni…Al di là delle
    adesioni formali al movimento della decrescita, vari gruppi e singole
    persone praticavano aspetti della decrescita, ben prima che affiorasse l’idea
    di costituire una vera e propria rete organizzativa, anzi ben prima che il
    termine “decrescita” diventasse di uso comune, per merito precipuo di Serge Latouche. Ciò vale anche per la nostra associazione, che già negli anni addietro trattava temi ecofilosofici riconducibili a ciò che oggi chiamiamo decrescita. Tutto questo è senz’altro positivo: significa che l’area informale della decrescita ha grandi potenzialità, perché è molto più ampia rispetto alla somma dei gruppi che dichiarano di aderirvi ufficialmente.
    Come favorire l’espressione delle potenzialità di cui sopra?

    A questo proposito, la connessione tra decrescita ed istanze ecologiste
    assume una speciale rilevanza sotto il profilo qualitativo. E’ infatti vero,
    come si sottolinea nella domanda, che una parte dell’ambientalismo è legata
    all’ideologia dello sviluppo sostenibile, con tutti gli equivoci e le incoerenze del caso; questo settore dell’ambientalismo, come sopra si è detto, rientra nella categoria dell’ecologia superficiale: tutto sommato, si vorrebbe salvare il sistema industriale, l’apparato tecnico-scientifico e la cultura antropocentrica che li ha originati, cercando di correggerne le storture più evidenti, in nome dell’eco-efficienza e di una sostenibilità a buon mercato. Serge Latouche ha criticato con decisione sia lo sviluppo sostenibile, sia i limiti dell’eco-efficienza, delineando così un orientamento di fondo per il mondo della decrescita. Occorre proseguire lungo questa via che è stata aperta: la cultura ecofilosofica della decrescita e della sostenibilità coerente è una cultura in via di elaborazione, che ha bisogno di innumerevoli apporti per esprimere le sue potenzialità e per applicarle nei variegati ambiti della vita individuale, sociale e planetaria. Operando in questa direzione, sarà inevitabile prendere le distanze dall’antropocentrismo, così come dall’ecologia superficiale e dallo sviluppo sostenibile, valorizzando invece l’integrazione tra decrescita ed ecologia profonda.

    Diversi eventi recenti sembrano confermare questa linea di tendenza. In
    Piemonte, nell’ottobre 2006, si è tenuto l’incontro internazionale della
    Rete per il Doposviluppo, e la prima giornata era dedicata ad un tema molto
    significativo: ”Dalla visione antropocentrica a quella biocentrica: per una
    nuova etica del dopo-sviluppo”. Solo qualche settimana dopo (12 novembre) a Oderzo (TV), assieme all’Associazione per la Decrescita sostenibile (Treviso), al Forum del terzo settore (Pordenone), a Eticamente
    (Portogruaro), abbiamo organizzato un convegno intitolato “Per un nuovo
    equilibrio tra uomo e natura. Antropocentrismo o biocentrismo, sviluppo
    sostenibile o decrescita?”. Si è trattato di un convegno particolarmente
    importante e ben riuscito, non solo per motivi quantitativi (la notevole
    affluenza di pubblico e di associazioni), ma anche per motivi qualitativi:
    infatti è stata rafforzata l’idea che l’area variegata dell’ecologismo, dell’animalismo e della decrescita debba oltrepassare del tutto l’ideologia dello sviluppismo e dell’antropocentrismo, e posizionarsi saldamente su un humus culturale diverso, su una visione ecofilosofica alternativa a tutto questo e capace di fornire validi orientamenti per una civiltà sostenibile. In
    aggiunta, sono state gettate le basi per un coordinamento del Nord-Est tra i gruppi partecipanti.

    Queste esperienze recenti confermano la convinzione secondo cui in vari
    ambienti favorevoli alla decrescita sono state poste delle premesse culturali incoraggianti, che allontanano dal riduttivismo antropocentrico e inclinano verso l’ecocentrismo e l’ecologia profonda. E’ auspicabile che non si tratti di episodi sporadici, e che questa via continui ad essere percorsa.

    D: Una implicazione coerente della decrescita è la riduzione di scala
    economica, che è possibile solo in una riconversione localistica. La lettura
    ecologica di tale indicazione è il bioregionalismo: è per voi una risposta
    socialmente credibile?

    R: Fino ad oggi non siamo riusciti a riservare al bioregionalismo, quale
    tematica specifica, iniziative ad hoc (potrebbe essere un’idea per il prossimo futuro). Tuttavia, l’argomento è stato toccato e apprezzato in vari contesti, per esempio durante incontri dedicati a R. Panikkar e S. Latouche,
    i quali ne parlano con grande favore. In un articolo intitolato “Ecofascismo
    o ecodemocrazia” (pubblicato in Le Monde diplomatique), è lo stesso Latouche a ricordare la propensione di Panikkar per le bioregioni, quali alternative ad un governo mondiale uniformatizzatore. Secondo Latouche, vi è una affinità di fondo tra la sua ipotesi della “Democrazia delle culture” (come recita il titolo di un altro suo articolo) e le idee bioregionaliste.
    Sappiamo d’altronde che il bioregionalismo cerca di coniugare il localismo
    economico, il pluralismo, la democrazia partecipativa dal basso e l’ecologia
    profonda: si tratta di idee condivisibili anche da parte di chi non aderisce
    formalmente al bioregionalismo. Probabilmente, anche in questo caso, le
    simpatie effettive per vari aspetti del bioregionalismo sono molto più estese rispetto ai pochi riferimenti organizzativi espliciti presenti in Italia. E’ facilmente prevedibile che, in tempi non lunghi, bioregionalismo e decrescita siano destinati a incrociarsi sempre più spesso, con esiti sicuramente positivi, data la compatibilità delle rispettive posizioni e la comune attenzione per la rivitalizzazione del tessuto locale, quale antidoto al localismo eterodiretto, cioè piegato alle strategie della globalizzazione.

    D: Vi è una ricaduta sociale del vostro impegno culturale? In che modo vi
    contribuisce la vostra presenza nel mondo del volontariato? Come rendere
    fattivo uno stile di vita ispirato alla sobrietà? Quali sono le vostre iniziative in campo?

    R: Nella misura in cui procede la decolonizzazione dell’immaginario economicista, lo stile della sobrietà è vocato a proporsi come una specie di
    paradigma alternativo, che comporta innumerevoli articolazioni teoriche e
    pratiche, non tutte prevedibili da subito. Un certo lavoro è già stato fatto, ma siamo solo agli inizi: il più è ancora da fare e da vedere. Vi sono iniziative pratiche in corso rispetto alle quali non vantiamo alcun merito, e che però meritano di essere seguite e condivise: esse sono note, e riguardano il risparmio energetico, il riciclaggio, l’agricoltura biologica, l’alimentazione vegetariana e vegana, il rispetto per il mondo animale, e un
    ampio ventaglio di iniziative a sfondo ecologico contro le grandi opere, il
    produttivismo industriale, il consumismo usa-e-getta e l’inquinamento che ne discende…In aggiunta, ci sembra importante ridurre la dipendenza dal sistema economico, dal mega apparato tecnico-scientifico, e riattivare per quanto possibile la capacità di autosufficienza delle persone: in questa logica, promuoviamo per esempio iniziative volte al riconoscimento delle piante spontanee, presso un sito naturalistico poco antropizzato in alta montagna (in Trentino), e presso un piccolo orto botanico strutturato didatticamente da alcuni soci in pianura (a Mestre-Venezia). Lo scopo è quello di riscoprire e incrementare l’impiego autonomo delle piante per usi medicinali e alimentari, in una prospettiva più ampia di rivalutazione di molti saperi tradizionali che, come ricorda Vandana Shiva, vengono continuamente aggrediti dall’avanzare della civilizzazione e della globalizzazione. In questo contesto merita segnalare che in epoca medievale circolavano anche da noi libelli interessanti, più o meno intitolati “Thesaurus pauperum”; essi sintetizzavano certi saperi tradizionali circa le risorse vegetali e si configuravano come strumenti utili per sostenere la sobria autosussistenza dei ceti popolari: un’idea che merita di essere ripresa e adeguata al nostro contesto. Inoltre, e questo non è meno importante, attività di questo genere spesso si accompagnano a escursioni nella natura, che vanno incentivate perché contribuiscono a quel riavvicinamento, materiale e spirituale, tra uomo e natura, di cui si avverte un insopprimibile bisogno (e che per alcuni può avere anche un riscontro terapeutico, molto meglio di tante inutili e fumose psicoterapie). Un’educazione naturalistica di questo tipo è stata iniziata anche presso alcuni CTP (Centro Territoriale Permanente per l’educazione degli adulti), in collaborazione con la locale Associazione per la Decrescita sostenibile, e merita di essere avviata già a partire dalle scuole elementari; un buon punto di riferimento per chi opera in questo campo può esser costituito dal programma di ecoalfabetizzazione suggerito da F. Capra, per indurre i giovani a fare esperienza concreta dei cicli della natura: i cicli e i ritmi naturali forniscono un modello alternativo a
    quello lineare tipico delle ideologie sviluppiste della crescita. Occorre promuovere l’ecoalfabetizzazione, proprio perché, come dice Gary Snyder, la
    gente è diventata sempre più analfabeta in fatto di natura (vedi Ri-abitare
    nel grande flusso, Arianna ed. : un bellissimo testo ecofilosofico!).

    Più in generale, la scuola di ogni ordine e grado merita una maggiore attenzione, per il semplice fatto che ogni anno milioni di giovani vi ricevono una formazione che, per quanto superficiale e lacunosa, è condizionata dalle ideologie sviluppiste. Le varie discipline sono congegnate in modo da presentare gli eventi di loro competenza secondo criteri che rispondono ai requisiti dell’occidentalizzazione del mondo, assunta come indice di progresso globale (progresso in campo sociale, politico, economico, etico, filosofico, culturale, giuridico, scientifico, etc). Occorre agire per un riequilibrio culturale, poiché un’educazione così unilaterale è inaccettabile e i docenti che la assecondano si riducono ad essere gli agenti o gli impiegati del pensiero unico: è doveroso presentare anche altri punti di vista (per esempio quelli delle saggezze umiliate, dei saperi rimossi), gestendo creativamente gli spazi previsti dalla libertà di insegnamento. Bisogna chiedere agli insegnanti (e non solo a loro): dov’è la libertà, se non si ha la capacità professionale e il coraggio di mettere a disposizione un’immagine del mondo diversa da quella predominante?

    In funzione di quanto sopra, abbiamo promosso varie iniziative di educazione
    interculturale ed ecologica dentro e fuori la scuola, che verranno
    ulteriormente ripensate e riarticolate (alcuni materiali sono riprodotti nel
    nostro sito www.filosofiatv.org).

    In sovrappiù, merita di essere ripresa anche un’idea che ha ispirato la
    recente (2-12-2006) Festa della Decrescita a Villotta di Chions (Pordenone): la tavola rotonda della giornata era dedicata al tema “Decostruire la società della crescita irresponsabile”. In effetti, la decostruzione della cultura della crescita è una mossa obbligatoria, per meglio comprendere le ragioni e i limiti della civiltà sviluppista, e per dare visibilità ad altri angoli visuali: nel corso di una tale operazione, vi sarà posto per la rivalutazione di vari aspetti delle nostre antiche radici culturali, che in modo frettoloso abbiamo per troppo tempo trascurato o disprezzato.

    Per concludere: promuovere una grande e profonda cultura ecofilosofica della sostenibilità, della sobrietà, del rispetto per tutti gli esseri ci sembra l’impegno più urgente e concreto che si possa immaginare, anche perché risponde alle più gravi emergenze del nostro tempo. Tale cultura non deve restare relegata in circoli ristretti, ma deve essere divulgata, poiché si presta a molteplici applicazioni in ogni settore della vita individuale, pubblica e planetaria. Essa può fornire un aiuto rilevante alla persona disorientata,
    che vi può trovare un sostegno per superare o arginare i disagi esistenziali; può fornire un orientamento indispensabile per la vita civile, contribuendo a una consapevolezza diffusa sul fatto che non si può andare avanti con il vecchio paradigma sviluppista e consumista, perché siamo ormai giunti “al punto di svolta”, per usare una celebre espressione. Perciò vediamo con favore un volontariato militante, capace di attivarsi anche in questa direzione: interventi di questo genere probabilmente superano in concretezza molte pratiche encomiabili alle quali il volontariato è storicamente legato, e che coinvolgono settori molto specifici (sanità, persone svantaggiate, emarginazione sociale, problemi di integrazione etc).
    Il fatto di operare per una cultura della sostenibilità, considerata nei suoi vari risvolti (ecologici, sociali, economici, etici …), implica ricadute concrete (per esempio educative, formative…) che investono i citati settori e molti altri ancora: non si può continuare a presumere che chi interviene in modo assistenzialista su problemi particolari abbia il monopolio esclusivo della concretezza.

    Per rivolgersi al mondo del volontariato, così come alle istituzioni e alla società civile in genere, necessita una capacità di comunicazione, che troppo spesso manca. Certi gruppi (e anche certi intellettuali non omologati) esprimono posizioni culturalmente interessanti, ma le gestiscono
    con aggressività e supponenza, ripetendo formule prive di flessibilità, cosicché riescono a dialogare pochissimo e solo con simpatizzanti selezionati. Nella misura in cui diminuisce la capacità di tradurre e comunicare, viene eccitato lo spirito polemico e contrappositivo, che trova
    espressione in qualche intransigenza ideologica destinata a rimanere autoreferenziale: così facendo, si offre il fianco a facili accuse di oltranzismo, ed è proprio quello che il sistema desidera.

    Alla luce di una coerente visione ecofilosofica, capace di praticare lo
    stile pacato della non-dualità, l’estremismo appartiene a quelle forze che
    sospingono il mondo “sull’orlo dell’abisso”(per dirla con H. Jonas), cioè
    verso l’omologazione planetaria e la violenza pervicace nei confronti della
    Terra : non certo a coloro che invitano a prendersi cura del mondo e delle
    sue molteplici esperienze culturali, promuovendo la responsabilità umana nei
    riguardi dell’intero reticolo della vita cosmica.

    *La seguente intervista sarà disponibile nel prossimo numero in edicola de
    Il Consapevole www.ilconsapevole.it

  2. #2
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    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Teoricamente è in buona parte accettabile, ma trasportare nella pratica "il migliore dei mondi possibili" è cosa molto diversa, ripeto qui cosa ho già detto a voce ad alcuni di voi, credo che la strada da seguire sia creare una sinergia tra il pensiero di Preve e quello di La Grassa, loro non lo faranno mai, i teorici difendono la loro "creatura" fino alla morte, questo immane compito spetta a noi, non esclusivamente, ma noi dobbiamo spingere più di tutti!!!

    ARDITI NON GENDARMI

  3. #3
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    Citazione Originariamente Scritto da Muntzer Visualizza Messaggio
    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Teoricamente è in buona parte accettabile, ma trasportare nella pratica "il migliore dei mondi possibili" è cosa molto diversa, ripeto qui cosa ho già detto a voce ad alcuni di voi, credo che la strada da seguire sia creare una sinergia tra il pensiero di Preve e quello di La Grassa, loro non lo faranno mai, i teorici difendono la loro "creatura" fino alla morte, questo immane compito spetta a noi, non esclusivamente, ma noi dobbiamo spingere più di tutti!!!

    ARDITI NON GENDARMI
    Pur essendo un "radicale", concordo. La meta, per me, rimane quella, ma la prassi politica è un'altra cosa. Lavoreremo insieme per trovare quella giusta misura per sensibilizzare chi ci sta intorno. Insieme. Tutti. Tutti insieme.

  4. #4
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    Citazione Originariamente Scritto da Outis Visualizza Messaggio
    Pur essendo un "radicale", concordo. La meta, per me, rimane quella, ma la prassi politica è un'altra cosa. Lavoreremo insieme per trovare quella giusta misura per sensibilizzare chi ci sta intorno. Insieme. Tutti. Tutti insieme.
    Una comunità comunista, nazionalitaria, libertaria.

    A luta continua

 

 

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