Caro “declino” non servi più, ora la parola giusta è “ripresa”
LA LEGGENDA INIZIÒ CON IL CETO MEDIO CHE COMPRAVA IL LATTE A RATE, ADESSO TERMINA CON IL BICCHIERE (MEZZO) PIENISSIMO
Il declino è finito: parole di Romano Prodi
alla conferenza stampa di fine anno. O forse
non era fine anno, e forse non era neppure
Prodi, forse era il governatore Mario Draghi
il 9 aprile scorso: “La ripresa senza dubbio
è in corso, diversi segnali dicono che le
cose vanno meglio, gli investimenti e le
esportazioni crescono”. O forse non era Draghi,
era il Tg3 del 12 aprile: “Segnali positivi
per l’industria a febbraio: aumenta la produzione”.
O forse era il Riformista otto giorni
dopo: “Industria, volano gli ordini a febbraio,
secondo l’Istat è la crescita congiunturale
più consistente da dicembre 2000”. A meno
che fosse il Corriere della Sera del 19 maggio:
“Crescita più che consistente a marzo
per il fatturato dell’industria italiana, in rialzo
del 3,1 per cento rispetto al mese precedente
e del 14,5 rispetto a un anno prima, l’Istat
ha precisato che la variazione tendenziale
è la più alta dal gennaio 2001”. Va in confusione
la memoria. Persino a Valentino Parlato
scappò questa uscita sul Manifesto del
24 maggio: “Debbo confessare che Berlusconi
non aveva tutti i torti quando affermava
che l’Italia non sta tanto male”. Un tecnico
alla Ilvo Diamanti forse l’avrebbe spiegata
come fece il 6 giugno su Repubblica: “E’ probabile
che la retorica del declino racconti un
paese almeno in parte immaginario, visto
che poi la diffusione di beni immobili e di
consumi vistosi e costosi suggerisce una
realtà diversa, dove i comportamenti tradiscono
un benessere diffuso in ampi settori
della società. (…) L’Italia: un paese liquido e
medio che indulge nella retorica del declino
e della pauperizzazione. Ma senza crederci
davvero. Per inerzia o per artificio. O per tecnica
politica: per accrescere il malessere dei
cittadini contro la destra che stava al governo.
Ieri”. Diamanti di saggezza, e dispiace
che il sociologo, ospite frequente a Ballarò,
non avesse fatto in tempo a definire il concetto
già nella puntata che Giovanni Floris il
25 aprile aveva titolato così: “Quale eredità
lasciano Berlusconi e Tremonti dopo cinque
anni? Quanto peserà sulle tasche degli italiani?
Dove cercherà i soldi Romano Prodi?”.
Quesiti che riportano ai giornali di ieri ma
trovano risposta, per ora, solo sul dove Prodi
abbia trovato i soldi: in una Finanziaria da
40 miliardi. Pazienza se Giulio Tremonti sostiene
da mesi che secondo i parametri europei
ne bastavano 15: l’ex ministro dell’Economia
in ogni caso non tira la ripresa per la
giacchetta, il dibattito sa di tappo.
Già il 12 aprile scorso il Corriere della Sera
gli aveva attribuito la frase “Il rilancio?
Merito nostro”, e questa era stata la sua replica:
“Caro direttore, questa tesi può essere
astuta politicamente, ma non è corretta logicamente.
E dunque – per me – non è corretta
neppure politicamente. Da anni sostengo infatti
e sosterrò comunque anche nei prossimi
anni, indipendentemente dai governi in
carica, che i fattori e le forze in campo e dominanti
sull’economia non derivano e non
dipendono più – se non in parte marginale –
dalle politiche nazionali. I fattori e le forze
dominanti sull’economia sono essenzialmente
sovranazionali e comunque extraeuropei:
dai cambi tra le valute, decisivi per le esportazioni,
ai saggi di interesse, decisivi per gli
investimenti e i bilanci pubblici, al costo del
petrolio, decisivo insieme per la produzione
industriale e per il tenore di vita delle famiglie”.
E messa così non fa una piega, anche
se è vero che la ripresa non puoi inventarla
epperò puoi frenarla.
Forse si tratta di capire, tra i governi Berlusconi
e Prodi, quale dei due abbia tagliato
le tasse e quale abbia introdotto un po’ di
flessibilità nel mondo del lavoro. Si tratta di
capire quale parte politica, di converso, abbia
cercato di dipingere un paese disperato e
da addebitare appunto alla gestione governativa
precedente. Quale, ossia, abbia parlato di
“famiglie che comprano a rate anche il latte”
(Ballarò, 22 febbraio 2005) o di “ bambine lasciate
morire di stenti” (sempre Ballarò) e ciò
senza contare i “due milioni di bambini poveri”
dell’Eurispes del novembre 2004, dati poi
rivelatisi ridicoli. Occorrerebbe capire se la
marcia funebre sia giusto cominciata nell’autunno
2003, con quella lunga inchiesta del
Corriere della Sera dedicata al tramonto del
ceto medio e curata da Dario Di Vico. Andrebbe
riletto il libro mastro dei narratori
della “sindrome della quarta settimana”,
quando cioè ti spiegavano che aziende e supermercati
attorno al 20 del mese accusavano
flessioni delle vendite perché la gente non
aveva più soldi, stesso periodo in cui l’Ulivo
commissionò alla Pan Advertising quello che
rimarrà il manifesto più menagramo della
storia politica italiana: “Arrivi a fine mese?”.
La Cgil, nell’autunno 2005, giunse a scrivere
che “molti pensionati oramai non arrivano
nemmeno alla terza settimana”, mentre l’Eurispes
tornava a spiegare che il paese era abitato
da sette milioni e 588 mila poveri più altri
otto milioni che rischiavano di diventarlo:
un bacino di 15 milioni di disperati.
E “la fase più critica del dopoguerra”?
Naturalmente non era vero, e per saperlo
bastava guardare i dati Istat che davano la
povertà in costante regressione, o nondimeno
bastava leggere quanto scrivevano professori
ed economisti pure acclamati dalla sinistra
alla maniera di Tito Boeri (acclamato
anche lui a Ballarò) o come Andrea Brandolini,
del centro studi della Banca d’Italia.
Leggere per esempio questo: “Vi sono due
fonti statistiche principali sui bilanci familiari:
l’indagine dell’Istat sui consumi e quella
della Banca d’Italia sui redditi e sulla ricchezza.
In entrambe le indagini le misure aggregate
di disuguaglianza e povertà non indicano
alcuna tendenza al peggioramento…
Anche l’analisi dei dati dell’indagine della
Banca d’Italia sui bilanci familiari non segnala
un aumento dell’incidenza della povertà,
né un peggioramento della disuguaglianza
dei redditi”. Fine. Per buona pace di
Luca di Montezemolo, che nel dicembre 2004
aveva tuonato contro “la fase più critica dal
dopoguerra”, mentre settimanali anglosassoni
come l’Economist scrivevano che “molti
italiani stanno riducendo le proprie vacanze
annuali o vi stanno addirittura rinunciando,
altri stanno rinviando l’acquisto di una nuova
auto o di un completo, i supermercati riferiscono
che gli incassi di questi tempi crollano
intorno alla quarta settimana del mese”.
Non era vero. Cresceva semmai il numero di
italiani che andava in vacanza, cresceva l’acquisto
di auto soprattutto di grande cilindrata,
la Jacuzzi nel 2002 aveva venduto ben 17
mila vasche idromassaggio, l’acquisto di televisori
al plasma nel 2003 si era quadruplicato;
tutto così, e non c’era analisi sociologica
(seria) che nella società italiana non notasse
semmai una divaricazione: da una parte un
ceto medio declassato, dall’altra uno che invece
stava meglio; da un lato impiegati e piccoli
commercianti e professori, dall’altro immobiliaristi
e grossisti.
Nel Natale 2005, descritto come recessivo,
la decrescita degli acquisti è stata del 3 per
cento, ma vista nel dettaglio riguardava un 10
per cento per l’abbigliamento (attesa dei saldi)
mentre aumentava la vendita non di pane
e latte: ma di libri, dischi e giocattoli. Nel periodo
di maggior offensiva del poverismo
l’acquisto di caviale è calato dell’1 per cento,
capirai, ma nessuno sui giornali evidenziò
che le spese per il pranzo di Natale erano
aumentate del 4 per cento. Il Natale appena
passato, sotto il governo Prodi, sotto questo
profilo è stato peggiore: consumi calati del 5
per cento e l’80 per cento delle tredicesime
bruciato in assicurazioni e bollette e rate di
mutui, con il ponte di Ognissanti a registrare
un 27 per cento di presenze in meno. Ma l’offensiva
poverista è sparita. Il bicchiere è
mezzo pieno. Nel 2006 c’è stato un aumento
medio del reddito familiare del 2,5 per cento,
con una crescita dei depositi bancari del
35 per cento. Ora si può dirlo. Nel 2006 gli
italiani hanno risparmiato di più che in qualsiasi
altro paese d’Europa, e il rialzo del risparmio
non solo è comune a tutte le fasce di
reddito, ma risulta persino più alto per i redditi
medio-bassi. La gente metteva i soldi in
banca, cioè, ma non li aveva per comprare il
latte alla quarta settimana.
Filippo Facci
Il Foglio