«La Convenzione di Amato è poco fattibile. Le larghe intese? Sono irrealizzabili» «Niente partito unico, alle elezioni ci andremo con la Federazione delle libertà»
Per prima cosa, una sepoltura collettiva. Giulio Tremonti sotterra la legge elettorale approvata dal centrodestra nel 2005. «Non funziona», ammette. «Ma è stato un errore senza dolo». Archivia i sogni di unità nazionale. «Prodi dopo le elezioni doveva fare come la Merkel, invece è andato in direzione opposta»: capitolo chiuso. Seppellisce anche la Convenzione proposta dal ministro dell'Interno, Giuliano Amato: «È poco fattibile». E sembra confidare nel referendum elettorale. Potrebbe essere l'occasione per battezzare «la Federazione delle libertà», potenziale erede della Cdl; ma soprattutto per accelerare la fine della legislatura. È una strategia «ad orologeria» che il vicepresidente di Forza Italia considera ancora in incubazione; ma che potrebbe rivelarsi l'unica a portata di mano per affrontare i prossimi mesi all'opposizione.
Perché sta diventando così importante la questione elettorale?
«Perché la politica italiana ha un problema, che è la legge elettorale, ma non la soluzione; anzi, ne ha troppe in concorrenza fra di loro. La legge attuale è inefficiente e questa inefficienza produce l'impotenza del governo. È la stessa coalizione che di continuo motiva le sue difficoltà con la legge elettorale».
Veramente l'Unione dice qualcosa di più: che l'avete approvata per non farla governare.
«Che non funzioni è un dato oggettivo».
Ma l'avete voluta voi.
«Per la verità, pensavamo di vincere noi. Se c'è stato un errore, non c'è stato dolo. In ogni caso, su questa legge elettorale agisce ormai un congegno ad orologeria. Anzi, un doppio congegno».
Quale, e chi lo avrebbe messo in moto?
«Il primo è il referendum elettorale, che è in sé, ed insieme postula, una legge elettorale nuova. Il secondo congegno è nel messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, con l'invito forte a farla. La riforma batterà l'ora del governo».
La batterà in che senso?
«Che subito dopo si va a votare, perché il Parlamento non sarà più legittimato. Perché raggiunta l'efficienza, non si continua con l'inefficienza».
E perché Prodi dovrebbe accettare una legislatura ad orologeria berlusconiana?
«L'orologeria ha un diverso marchio di fabbrica. L'agenda della politica è dominata, da una parte, dal calendario referendario, e dall'altra influenzata dal messaggio presidenziale. Sotto questo vincolo, la politica ha tre possibili soluzioni. Una è parlamentare, nel senso che la riforma si fa in Parlamento. Due sono extraparlamentari: il referendum e la Convenzione».
Partiamo dall'ultima, Tremonti. Divide gli schieramenti al loro interno, e non si capisce quanto il centrodestra lo gradisca.
«Se la politica è l'arte del possibile, la Convenzione ha un modesto margine di fattibilità politica. Se c'è un problema, non lo puoi risolvere immaginando che non ci sia. I piccoli partiti esistono e non voterebbero mai per non esistere. Vogliamo essere empirici? Pensiamo a Fausto Bertinotti. I suoi voti si contano in aula, ma soprattutto si pesano dentro l'Unione, dove il suo potere si moltiplica in modo più che proporzionale».
Vale anche per la Lega e l'Udc, vostri alleati.
«Vale per tutti i partiti che difendono la loro identità. Ma torniamo al presidente Bertinotti. Votando per la Convenzione, con una mossa sola si autoridurrebbe tanto come partito quanto come presidente della Camera. Camera e Senato sarebbero infatti degradati a succursale politica della Convenzione:
chambres de registration di una legislazione a bassa intensità politica e soprattutto a scadenza limitata. Celebrerebbero infatti la loro fine nella votazione a scatola chiusa del prodotto della Convenzione».
Ma alla soluzione parlamentare non crede quasi nessuno.
«Non per il bene della mia parte ma del Paese, credo ancora nella formula parlamentare. E un'iniziativa parlamentare potrebbe essere costruita combinando insieme quello che c'è; rispettando le identità dei partiti, ma unendole nel vincolo di governo: qualcosa di simile al meccanismo delle regionali, che ha garantito rappresentanza, bipolarismo e governabilità».
Le pare che i contatti che sta avendo il ministro Chiti puntino a questo?
«Non so quale sia il disegno politico di Prodi e Chiti. Ma so che non si può scindere la rappresentanza dal governo. In effetti, vedo che sono in campo forze che intendono il proporzionale come rappresentanza pura, senza vincolo di governo. Ma chi vuole il proporzionale deve anche accettare il vincolo di coalizione. Un proporzionale puro con governi girevoli non sarebbe nell'interesse del Paese».
Non sarà che temete un'Unione in grado di cooptare pezzi del centrodestra?
«Lo escludo in assoluto».
Non teme neppure un grande centro?
«Lei mi chiede se, escluso il passaggio a sinistra, non sia però escluso il passaggio al centro. Il grande centro non c'è in Europa e non c'è nei numeri. Può essere centro ma non è grande. È così che il grande centro finisce per identificarsi con l'utopia «beautiful»: grande centro, bella gente, poco popolo. In realtà le élites hanno ruolo politico reale solo se intercettano e rappresentano interessi e sentimenti delle masse. Perché se le élites credono alle masse, le masse credono alle élites. Può essere elegante o no, ma la democrazia si fa con i grandi numeri. Nelle élites italiane non vedo questa capacità di rappresentanza. Quelle forti hanno ormai un limitato interesse ai problemi domestici, perché si muovono su uno scacchiere più ampio. A «occuparsi» dell'Italia sono mezze élites, ispirate più dall'interesse particolare che generale».
Rimane il fatto che la politica non riesce a produrre leggi elettorali in grado di funzionare.
«In un'epoca dominata dall'ideologia del maggioritario uninominale, inteso come metafora del cambiamento positivo e strumento salvifico, proposi una riforma elettorale modellata su quella tedesca. Il pamphlet che la accompagnava era intitolato: il cancelliere o il caos. Il senso politico era di combinare la logica della rappresentanza ed esigenza di governabilità. Resto di quell'idea».
Per lei governo forte, oggi, significa sempre unità nazionale?
«No, la grande coalizione non è realizzabile in Italia. Se ad aprile del 2006 Prodi avesse fatto come Angela Merkel, avremmo avuto un corso della storia diverso. Ma Prodi ha preferito la via opposta alla grande coalizione: la maggioranza minima. Se la grande coalizione è impossibile, la maggioranza minima non tiene. Per questo, l'alternativa italiana può solo essere quella di una nuova legge elettorale per un governo più forte».
Il vostro era forte, anche numericamente. Eppure avete perso.
«Per la verità abbiamo pareggiato. E comunque, in Europa è avvenuta una mutazione politica. Il pendolo non va più da destra a sinistra e viceversa. Va in una direzione sola, contro i governi in carica. Per questo, l'obiettivo di governi forti, che nel 1997 era un'ipotesi, ora è una reale necessità».
Se davvero si va al referendum, non temete un altro bagno gelido nell'astensionismo?
«Primo: al referendum si va solo se il Parlamento non è capace di fare la sua riforma. Secondo: per quanto mi risulta, è in atto nel centrodestra una discussione sulla riforma elettorale. La mia opinione è che se davvero si arriva al referendum, come centrodestra dobbiamo avere una posizione comune. Un conto è andarci in ordine sparso, un conto con uno strumento politico concordato».
Ma il risultato prevedibile sarebbe una spinta al partito unico. Si può fare contro Lega e Udc?
«Lo strumento al quale stiamo lavorando è la Federazione delle libertà, non il partito unico. Per adesso è l'unica che ci pare possibile per combinare l'identità dei partiti del centrodestra con l'unità di azione politica».
La resa dei conti con Prodi sembra rinviata, dunque. E a Palazzo Chigi fanno notare di avere mangiato già il primo panettone.
«Aspettiamo le amministrative di primavera. Mi pare che la rivolta contro la finanziaria stia appena cominciando».
I sondaggi dicono che la gente non ama il governo, non che ha nostalgia del governo Berlusconi.
«A me risulta l'opposto. Per inciso, siccome la vita della gente è fatta di piccole cose, dalla tassa sulle ricette mediche alle vendite catastali, per vincere basta una giocata sull'ambo elettorale Padoa Schioppa-Visco».
Massimo Franco
08 gennaio 2007