Luigi Tedeschi intervista COSTANZO PREVE

Luigi Tedeschi: 1) La democrazia, intesa nel significato originario, quale potere del popolo è un’istituzione che presuppone la partecipazione diretta o mediata tramite la rappresentanza politica del popolo alle scelte politiche della comunità statuale cui appartiene. Pertanto l’ordinamento democratico, per definizione, è tanto più coerente con i propri fondamenti ideali, quanto più riesce ad estendere la partecipazione attiva a strati sempre più estesi delle masse e dei popoli e quanto più è rappresentativa della pluralità delle aggregazioni sociali presenti nella società. Oggi, oggetto di valutazione della realizzazione dei principi democratici nella società non sono più tanto le istituzioni quanto gli individui. Infatti la società viene continuamente educata alla democrazia mediante la diffusione mediatica di una cultura liberal radicale che introduce ideologismi discriminanti circa i comportamenti, il linguaggio, i pensieri, le emozioni, da osservare perché l’individuo, in quanto “democratico”, possa avere l’autostima di sé stesso. la democrazia, anziché espressione della libertà, è un codice morale imposto alla stregua di una dottrina: se si è democratici si accettano i diritti umani, il cosmopolitismo, il pacifismo, il progressismo, il mercato, l’individualismo morale e sociale, si rigetta tutto ciò che è diverso, in quanto non omologato e quindi totalitario e oscurantista. Quindi la democrazia odierna si è trasformata nel suo opposto e contrario: è un criterio selettivo che discrimina idee e comportamenti e lo stesso esercizio dei diritti è subordinato all’assenso acritico di quei postulati ideologici per definizione “democratici”. conseguenza necessaria di tale processo di omologazione è il progressivo mutarsi della democrazia in oligarchia politica e culturale, in un meccanismo di esclusione di strati della società non funzionali alla omologazione “politically correct” di massa. La partecipazione si muta in esclusivismo. La fine delle ideologie ha creato una lunga serie di nuovi sbarramenti ideologici all’accesso alla democrazia. La democrazia, anche in un mondo globalizzato, rimane patrimonio esclusivo dei “democratici”, così come lo era dei proprietari nella società liberale dell’800? E’ dunque la democrazia sempre un percorso politico a senso unico?

Costanzo Preve: La formulazione della tua domanda è molto felice, perché suggerisce immediatamente il cuore della questione. In breve, la teoria classica della democrazia si basava sulla partecipazione popolare, laddove l’apparato ingannatore che viene oggi impropriamente connotato come “democrazia” è ridotto ad un vero e proprio “simulacro di legittimazione” per il potere di ristrettissime oligarchie finanziarie che governano mediante un vero e proprio clero postmoderno di “esperti economici” con accompagnamento corale non più dei “vecchi saggi della città” (come nelle tragedie greche tipo l’Antigone di Sofocle), ma dell’asfissiante circo mediatico. Non bisogna stancarsi mai di chiarire che non viviamo per nulla in una democrazia, ma più propriamente in un regime dispotico, e quindi tirannico, di oligarchie finanziarie, che garantisce alcune istanze liberali peraltro capillarmente sorvegliate e controllate da strutture elettroniche di controllo (cfr. Elements, n.118, automne 2005), ma le garantisce non certo perché ispirato a valori etici “liberali”, ma perché il lubrificante degli scambi di mercato è composto dal suo raddoppiamento impotente dei cosiddetti “scambi culturali pluralistici”.
Il punto essenziale da segnalare tuttavia a mio avviso non è tanto questo, quanto il secondo da te indicato nella tua domanda, che è assolutamente primario. Si tratta del fatto che oggi regna una concezione “proprietaria” della democrazia, come peraltro della libertà politica, per cui i proprietari dei diritti notarili legittimi della democrazia sono anche e soprattutto i proprietari di un “codice d’accesso” di tipo ideologico, e cioè dell’unico profilo “politicamente corretto” consentito, definito da quell’insieme di elementi che tu indichi (i diritti umani, il cosmopolitismo multiculturale, il pacifismo ritualizzato, il progressismo ostentato, il mercato come regolatore non solo economico ma simbolicamente “totalitario”, l’individualismo morale e sociale, eccetera). A questo elenco aggiungerei alcuni altri elementi, come la sottrazione delle credenze religiose all’ambito comunitario e la loro derubricazione a visioni del mondo individualistiche e private così di ogni normatività sociale (riservata ferreamente al mercato, e solo al mercato), e soprattutto la riduzione della solidarietà assistenziale ai soli corpi feriti di vecchi e bambini, mentre gli “adulti” sono ridotti a fanatici politici in folle lotta reciproca (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006). Un tempo si solidarizzava per degli adulti che bene o male si battevano per cause etiche e politiche, ma oggi soltanto i nudi corpi sofferenti sembrano degni di assistenza (emblematica in proposito l’icona buonista di Veltroni circondato da negretti smagriti, e smagriti proprio dallo sfruttamento imperialistico cui lo stesso Veltroni è politicamente del tutto interno). Ciò che tu segnali è completamente occultato dalla riproduzione manipolata della dicotomia Destra contro Sinistra, che ovviamente non può neppure vedere il fenomeno che tu cerchi di segnalare. La dicotomia Destra/Sinistra presuppone che esista preventivamente uno “spazio democratico” in cui si affrontano concezioni alternative della società considerate come legittime e politicamente organizzate in gruppi pensati come “sovrani” nella decisione politica. In realtà oggi la democrazia non è per nulla uno “spazio agonale” in cui tutti i partecipanti sono astrattamente considerati come legittimi, ma è diventata una “costruzione normativa identitaria” ispirata al Politicamente Corretto, divinità di cui sono sacerdoti i membri riconosciuti del Circo Mediatico. Come tu dici, la democrazia oggi coincide con il patrimonio simbolico esclusivo dei “democratici” che ne sono proprietari.
Ritengo che questo secondo punto (la concezione proprietaria della democrazia che coincide con l’unico profilo politicamente corretto riconosciuto dalle oligarchie finanziarie e sorvegliato dal conformismo totalitario del circo mediatico) sia più importante del primo da te indicato (lo svuotamento della partecipazione e la frammentazione atomistica degli individui). E sia non solo più importante, ma molto più importante. L’odierno simulacro di democrazia infatti favorisce forme di pseudo-democrazia partecipativa (la scelta delle primarie di Prodi dell’Ulivo in Italia o di Ségolène Royal in Francia, eccetera), in cui sembra che i “cittadini” possano finalmente dire la “loro”. Ma questa pseudo-democrazia partecipativa e privata di qualsiasi sovranità reale, perché i “cittadini progressisti e democratici” possono scegliere Prodi contro Rutelli (in realtà entrambi preventivamente imposti da giganteschi apparati), ma non possono in alcun modo impedire che dopo la sceneggiata “pluralistica” Padoa Schioppa eseguisca i mandati imperativi delle oligarchie economiche internazionali, americane o europee. E questo ci porta, ovviamente, al problema dei problemi, che è quello della sovranità reale e non illusoria e simulata.

L.T. 2) La democrazia è sinonimo di autogoverno del popolo. Quindi, costituzioni, leggi, equilibri nel campo economico-sociale, debbono essere frutto della volontà popolare espressa con il voto. Oggi però, organismi internazionali (quali Nato, UE, FMI, WTO), impongono decisioni sottratte alla volontà popolare, oltre al fatto che in economia è diffusa la prassi degli arbitrati internazionali, che travalicano il diritto degli stati. Ci si chiede allora se la fonte del diritto sia ancora identificabile con gli ordinamenti politici degli stati, o piuttosto con la dinamica dell’economia globalizzata. La problematica della democrazia è indissolubile da quella concernente la sovranità. Dall’800 e fino alla metà del secolo scorso, la democrazia si affermò nel mondo occidentale parallelamente al fenomeno della nazionalizzazione delle masse. oggi l’orizzonte si è capovolto; la democrazia coincide con l’internazionalizzazione delle masse, perché soggetti della democrazia globale dei diritti umani sono gli individui e non più gli stati. La globalizzazione è infatti intesa come un fenomeno che contiene in sé la progressiva democratizzazione delle masse, nella misura in cui queste siano affrancate dalla sovranità degli stati. Ove vi sia dicotomia tra individuo e stato, può sussistere la democrazia? la sovranità del popolo non implica invece la sovranità dello stato? oppure alla sovranità dello stato ottocentesco si è sostituita la sovranità internazionale dei diritti umani in quanto quest’ultima è il conseguente sviluppo di un finalismo ideologico proprio del cosmopolitismo insito nella cultura progressista liberale?

C.P.: La tua seconda domanda non è che un’articolazione necessaria della prima, perché mette al centro il problema dei problemi, e cioè il nesso essenziale fra democrazia e sovranità, o più esattamente fra decisione democratica ed operatività di questa stessa decisione. Oggi l’Europa è occupata da basi militari americane a più di sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, e nessun ateniese del tempo di Pericle e di Socrate avrebbe parlato di “democrazia” in presenza di una base militare spartana nel territorio dell’Attica. Il fatto che dei proconsolati imperiali USA possano autodefinirsi “democratici”, laddove essendo privi di sovranità militare e geopolitica non possono ovviamente esserlo “per la contraddizion che nol consente” (come direbbe Dante Alighieri), segnala soltanto una situazione di “decadenza” inaudito dell’Europa in quanto tale. Il buonismo ipocrita alla Veltroni ed il pacifismo ritualizzato alla Bertinotti, che pure si contrappongono simbolicamente al “guerrismo” occidentalistico della crociata al cosiddetto “islamofascismo” di Fini e Berlusconi, possono forse soddisfare gli amanti della simulazione immateriale postmoderna, ma non possono distruggere la realtà storicamente “reale”, il fatto cioè che senza sovranità militare non può esistere nessuna democrazia, perché non comanda il demos, ma lo xenos, uno straniero che non è neppure ospite gradito, ma è anzi un nemico della pace e del diritto internazionale.
Hai perfettamente ragione nel rilevare che mentre un secolo fa la democrazia si identificava con la nazionalizzazione delle masse, oggi si identifica piuttosto con la prescrizione dell’internazionalizzazione delle masse stesse. Aggiungerei soltanto che la connotazione più appropriata di questo fenomeno non è tanto “internazionalizzazione”, quanto “globalizzazione”, e cioè globalizzazione ad un tempo multiculturale ed individualizzante delle masse stesse. E questo perché il termine di internazionalizzazione, contenendo la paroletta latina inter, alludeva ancora ad un rapporto fra nazioni, e di conseguenza fra stati, non importa se stati-nazione o stati multi-nazionali. Oggi la polemica del profilo democratico politicamente corretto, come abbiamo cercato entrambi di definirlo nella domanda e nella risposta precedenti, si rivolge direttamente contro la nozione di sovranità degli stati, ed è contro questa nozione che il coro urlante del circo mediatico si rivolge con particolare ferocia. Ferocia peraltro del tutto comprensibile, perché qui si gioca una partita veramente strategica. Viviamo infatti in un capitalismo già in parte del tutto post-borghese, e mentre la borghesia tradizionalmente intesa si aggregava appunto all’interno dello spazio economico e culturale appunto “borghese” (lo stato-nazione, in breve), oggi le nuove oligarchie post-borghesi ed ultra-capitalistiche si aggregano direttamente nello spazio globalizzato ed unificato del mondo intero. Con questo, tuttavia, lo stato-nazione non è affatto sparito, come afferma scorrettamente la scuola onirico-futurista di Toni Negri, perché non solo è tuttora in pieno esercizio presso i dominatori del mondo (i dominatori guerrieri, USA e Inghilterra, ed il clero religioso che specula sul complesso di colpa dell’Europa malata, il sionismo israeliano massacratore del popolo-martire palestinese), ma è ancora presente come protesi diplomatica di appoggio alle proprie classi imprenditoriali (e si vedano i tragicomici viaggi della coppia Prodi-Cordero di Montezemolo che sponsorizzano l’azienda-Italia presso stralunati statisti bianchi, neri, gialli, caffellatte e colore unito multiculturale Benetton).
In ogni caso, al centro resta sempre e soltanto la decisività della (mancanza di) sovranità. La critica antica alla democrazia (Socrate, Platone, in parte anche Aristotele, eccetera) si basava proprio sul fatto che la decisione democratica del demos esisteva veramente, e proprio perché esisteva veramente poteva essere pericolosa e distruttiva, in quanto promossa da soggettività emotive, passionali e poco razionali. Ma oggi gli ideologi dell’inesistenza di una vera democrazia decisionale che invece ipocritamente affermano come esistente, sia pure ovviamente imperfetta e perfettibile, come Norberto Bobbio, devono riuscire a mettere sotto silenzio il punto essenziale, e cioè il fatto che in assenza di sovranità reale la stessa decisione politica non è né cattiva né buona, come era al tempo di Socrate, ma è del tutto inesistente.
Quanto andrà avanti ancora questa ripugnante simulazione? Apparentemente per sempre, se teniamo conto della forza gigantesca del trinomio Oligarchie Finanziarie-Circo Mediatico di gestione del codice politicamente corretto di accesso alla legittimazione “democratica” -Ceti politici incorporati nella riproduzione politologica. Ma la storia riserva sempre delle sorprese, ed in queste sorprese possiamo sempre pascalianamente scommettere, anche se sono venute meno (ed era ora!) le pseudo-certezze del meccanicismo deterministico del (cattivo) marxismo.

L.T.) La democrazia è sinonimo di pluralismo. Pertanto, non dovrebbe riscontrarsi nella democrazia alcun presupposto di carattere etico in qualche modo condizionante idee e tendenze rappresentate nelle istituzioni democratiche. Hans Kelsen sostiene che l’unico presupposto filosofico della democrazia è il relativismo assoluto. Ci si domanda allora se il relativismo assoluto non sia a sua volta una contraddizione in terminis, dal momento che il relativismo negando a priori qualsiasi presupposto etico nella democrazia, finisca per divenire esso stesso un assoluto, tale da trasformare la democrazia stessa nel suo contrario, non ammettendo idee che riferimento a norme di carattere etico condiviso. Ci si chiede ancora se la democrazia sia un ideale riferibile ad una filosofia specifica, oppure sia una forma di governo politico in cui possano coesistere filosofie opposte e conflittuali. Infine, se la democrazia, proprio per sussistere e non essere disintegrata dai relativismi in perpetua conflittualità, debba contenere in sé stessa dei finalismo etici che integrino e compongano in una sintesi unitaria il necessario pluralismo delle idee. Ma allora, l’attribuire valori etici primari alla democrazia, non potrebbe trasformare la democrazia stessa, non potrebbe trasformarla in un mero metodo di governo idoneo ad occultare un sostanziale totalitarismo?

C.P.: Questa tua terza domanda “filosofica” è per me un vero e proprio invito a nozze. Sul problema dell’esistenza o meno di un fondamento “filosofico” alla base della democrazia politica ci sono in genere due posizioni. La prima sostiene che la democrazia, in quanto semplice metodo per la presa di decisioni politiche, non ha di per sé e non può avere nessun presupposto filosofico (posizione che definirei formalistica o “laicista”). La seconda posizione è quella esplicitata sessant’anni fa da Hans Kelsen, definibile in termini di “relativismo”, e che a mio avviso non si identifica con la prima, pur assomigliandole. La mia posizione personale è diversa da entrambe, in quanto io credo che un fondamento filosofico della democrazia esista, e sia il comunitarismo. Ho espresso questo concetto in due libri complementari, (cfr. Il Popolo al Potere, Arianna Editrice , ed Elogio del Comunitarismo, Editore Controcorrente , entrambi 2006). Ma dire soltanto che il fondamento filosofico della democrazia è il comunitarismo rischia di essere una generica frase vuota, se non è in qualche modo chiarita con alcune determinazioni ulteriori di tipo storico e teorico.
In primo luogo, non è possibile che vi siano teorie politiche (e la democrazia è una teoria della pratica politica comunitaria, che sia ispirata o meno a pretese a pretese di tipo “universalistico”) senza presupposti filosofici. I presupposti filosofici ci sono sempre, e sono di due tipi: impliciti o espliciti. Dire che si è privi di presupposti filosofici equivale a dire che si sta camminando in pieno sole senza lasciare alcuna ombra. Impossibile. Lasciamo dunque da parte la prima posizione. In secondo luogo, la posizione che sessant’anni fa Kelsen presentava come “relativistica” viene oggi ripresentata in forma più articolata e sofisticata dalla cosiddetta “critica democratica al naturalismo normativo” (Richard Rorty, e in Italia Gianni Vattimo). In breve, si sostiene che qualunque posizione che si richiami direttamente o indirettamente a Dio, oppure a quel suo succedaneo funzionale che è l’interpretazione normativa della natura umana data per vera ed autentica (la natura umana è così, e quindi dal suo essere così discende un corpo di norme morali che lo stato deve trasformare in leggi), come avviene infatti oggi nella teologia neoaristotelica di Joseph Ratzinger, è autoritaria, e quindi di fatto non democratica. E’ chiaro che questa critica al naturalismo normativistico Rorty-Vattimo rappresenta un’evoluzione del relativismo di Keynes che si colloca sul suo stesso terreno decisamente anti-ontologico. Da un punto di vista storico, si tratta in breve di una variante del cosiddetto Pensiero Debole, che a volta presuppone l’accettazione della critica postmoderna della modernità, ritenuta ancora troppo “prescrittiva” perché legata a quella ideologia grande-narrativa del Progresso, di cui si diagnostica (peraltro correttamente) l’origine in una secolarizzazione solo apparentemente “laica” della vecchia escatologia finalistica giudaico-cristiana.
Non intendo certo negare le ragioni storiche di questa polemica contro il cosiddetto naturalismo normativo e prescrittivo. Ma qui appunto, a mio parere, si butta via il bambino del comunitarismo solidaristico con l’acqua sporca del falso universalismo ideologico di regolazione autoritaria dei comportamenti individuali e collettivi, arbitrariamente divisi in “naturali” (e quindi leciti) ed “innaturali” (e quindi illeciti). E allora direi che il primo principio di ogni filosofia politica dovrebbe essere: mai buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Ed il bambino è il comunitarismo solidale, basato su di una preventiva selezione critico-culturale dei comportamenti leciti ed illeciti. Il cannibalismo rituale, lo stupro dei bambini e delle donne, il matrimonio forzato per insindacabile decisione dei vecchi della famiglia, eccetera, dovrebbero essere dichiarati illeciti. Si dirà che ogni e qualsivoglia dichiarazione di illiceità è una forma di “naturalismo”, e quindi inaccettabile ed autoritaria. Su questa base però il ralativista conseguente, se fosse appunto coerente con i suoi presupposti, dovrebbe sostenere che è sempre “vietato vietare” qualsiasi cosa. Una simile forma di individualismo solipsistico esasperato renderebbe ovviamente impossibile la costituzione di qualunque comunità umana. Si tratta allora di “vietare il meno possibile”, oppure di vietare solo lo “strettamente necessario”. Di qui due problemi: chi deve decidere quale sia lo strettamente necessario da vietare?; ed ancora: in che modo si decide lo strettamente necessario da vietare?
A questi due quesiti risponderei così. Per quanto riguarda il primo quesito (il chi) risponderei: la democrazia comunitaria. Ogni altra alternativa e di tipo oligarchico (filosofi-re platonici, oligarchie finanziarie, partito comunista illuminato dal “vero marxismo”). Per quanto riguarda il secondo quesito (il come) non vedo alternativa ad un metodo razionalistico-universalistico basato sul dialogo ininterrotto proceduralmente garantito.

L.T.: 4) Lo stato liberale ha sancito, mediante il riconoscimento dei diritti dell’uomo, l’eguaglianza formale dei cittadini dinanzi alla legge Secondo noi (e secondo la stessa costituzione italiana), però è compito primario della democrazia, quello di realizzare una eguaglianza di carattere sostanziale. Pertanto, in un ordinamento democratico, i diritti sociali (quali il lavoro, la famiglia, la casa, la sanità, la previdenza), dovrebbero essere anteposti ai diritti individuali. L’esercizio dei diritti politici non può essere limitato al voto individuale. In realtà, il riconoscimento dei diritti politici, se non accompagnato dall’esercizio sostanziale dei diritti sociali nell’ambito economico-sociale, viene svuotato dei suoi contenuti e la democrazia diviene un insieme di norme astratte. L’eguaglianza e la libertà non possono essere garantite, qualora ad un ordinamento democratico faccia riscontro un sistema economico basato sul libero mercato, in cui lo stato sia solo amministratore e il lavoro assuma esclusivamente il ruolo di un fattore della produzione alla pari delle merci di scambio. L’economia di mercato, non sarebbe dunque compatibile con la democrazia, qualora questa presupponga l’eguaglianza sostanziale e la partecipazione. La stessa libertà diviene un diritto riservato a coloro che possono goderne, in quanto liberi dal fabbisogno economico e non soggetti alle fluttuazioni del mercato. Oggi la precarietà occupazionale e con essa, la subalternità al mercato del lavoro sono condizioni ostative dell’esercizio delle libertà democratiche. Secondo noi, la democrazia esige scelte istituzionali nell’ambito economico, che riconoscano la libera iniziativa nella misura in cui questa sia compatibile con gli obiettivi di carattere sociale perseguiti dallo stato. occorre quindi riproporre la problematica della democrazia economica: il lavoro e l’impresa, mediante la partecipazione alla gestione e ai risultati economici, dovrebbero prevalere sull’elemento capitale, onde liberare l’uomo dall’economicismo totalizzante della società capitalista.

C.P.: Deve la democrazia limitarsi a “registrare” i crescenti divari economici ed i crescenti differenziali in termini di sapere, potere e ricchezza fra i cittadini di una stessa nazione e fra le diverse nazioni, oppure anziché limitarsi a “registrare” deve invece attivamente “promuovere” obbiettivi collettivi di tipo non solo formale ma a tutti gli effetti “sostanziale” (il lavoro, la famiglia, la casa, la sanità, la previdenza, l’educazione giovanile e permanente, eccetera)? In quanto sostenitore di un modello comunitario di democrazia io sono evidentemente favorevole ad una attività di “promozione”, e non solo certo di “registrazione” quasi notarile delle crescenti disuguaglianze. In proposito, la dissoluzione a mio avviso irreversibile dei sistemi sociali del defunto comunismo storico novecentesco (1917-1991) mi ha convinto della sostanziale non riproponibilità di questo modello, ma non ha mutato di un grammo e non ha spostato di un millimetro la mia opinione favorevole ad un comunitarismo solidaristico. Il generalizzato rifiuto delle cosiddette “utopie egualitarie”, rifiuto unito ad una altrettanto generalizzata adesione ai cosiddetti “valori” dell’individualismo liberale (ho detto “cosiddetti” perché per me sono soltanto disvalori puri), è per me soltanto uno sgradevole dato ideologico congiunturale dovuto alla sinergia viziosa fra il pentimento della sciagurata generazione del 1968 e la capillare opera di conformazione autoritaria al profilo “proprietario” del concetto di democrazia oggi effettuato dal clero idolatrico del circo mediatico, come abbiamo già detto nella prima domanda-risposta. Questa congiuntura storica può durare (e probabilmente durerà) più a lungo della nostra vita terrena restante, ma vista su di un piano storico più ampio resta una sgradevole congiuntura provvisoria, e non certo una “fine della storia” (Fukuyama) o una post-istoria (Gehlen). Sostenere un modello comunitario di democrazia che “promuova” obbiettivi di carattere sociale è indubbiamente un’affermazione universalistica, o più esattamente un’affermazione politico-filosofica con pretese di universalizzazione cosmopolitica. Qui si vede con chiarezza solare che l’attuale dibattito fra universalisti e relativisti (o più esattamente -come ho già detto nella mia terza risposta- critici del naturalismo normativo) non è per nulla una disputa di lana caprina o una perdita di tempo per teologi “bizantini”, ma è invece un tema ineludibile ed inaggirabile.
So molto bene (e si vedano in proposito le opportune critiche all’uso ideologico-militare dell’universalismo di Alain de Benoist e di Danilo Zolo) che oggi la cosiddetta “pretesa universalistica” è in realtà diventata la protesi teorica strumentale per l’impero ideocratico americano e per i suoi sciocchi vassalli europei. Lo so anzi talmente bene da averci dedicato un libro che mi hanno anche recentemente tradotto in serbo-croato (cfr. Il Bombardamento Etico, Editrice CRT, Pistoia 2000). E tuttavia anche qui siamo di fronte ad un tipico caso di bambino e di acqua sporca che non bisogna gettare via insieme, ed una semplice riflessione basterà per rendercene conto almeno in linea generale.
Tu infatti giustamente rilevi che situazioni protratte e strutturali come precarietà occupazionale (il cosiddetto lavoro “flessibile”, che trasforma un ente naturale generico in ente intercambiabile flessibile e precario, dato che a mio avviso conferma la piena attualità della venerabile categoria hegelo-marxiana di alienazione) sono incompatibili con la democrazia comunque definita. Sono pienamente d’accordo. La democrazia ateniese classica si basava infatti sulla piena identità di diritti politici e di diritti sociali, in quanto era uno strumento anti-crematistico per sua stessa intima natura, o quanto meno di limitazione strutturale della crematistica privata. Nello stesso tempo, questa democrazia “sostanziale” si pensava non come universale ma come esclusivamente “ellenica”, anzi di alcuni elleni fra gli altri (ateniesi e non spartani). Sul piano puramente teorico, non esiste e non può esistere un modo definitivo per dimostrare inconfutabilmente il fondamento universalistico e/o relativistico di questa natura “sociale”. Sono almeno duemila e cinquecento anni che ci si prova, e nessuno mai riuscito ad uscire vincitore da questa disputa interminabile e insolubile con metodi puramente “argomentativi”. Ma ciò che non riesce a fare la tecnica argomentativa, lo può fare forse l’avvicinamento relazionale fra popoli e civiltà propiziato dalla cosiddetta “globalizzazione”. Il problema infatti del matrimonio fra democrazia sostanziale e comunitarismo solidaristico, nato necessariamente in un ambito geografico limitato ed in contesto storico determinato, può ambire non certo ad una pretesa di universalismo prescrittivo ma ad una universalizzazione processuale. E se non scommettiamo su questo, in che cosa dovremmo allora razionalmente scommettere? E se non ora, quando?