Maurizio Blondet
12/01/2007
Un gentile ed attento lettore mi avverte che all’Università di Bologna, il 17 gennaio, si terrà una «giornata di riflessione sui rapporti fra cristiani ed ebrei».
Ore 20.30, ingresso libero, via Belmeloro 8.
Già il titolo della «riflessione» dice dove si andrà a parare: «Verus Israel?».
Il punto interrogativo smonta la pretesa che la Chiesa ebbe dall’inizio, di essere il vero Israele. Ancor più esplicito il comunicato, vischiosamente ecumenista e giudaizzante:
«Dal 1990 la Conferenza Episcopale Italiana invita a dedicare il giorno che precede la Settimana di preghiera per l’unità delle chiese (18-25 gennaio) all’approfondimento e allo sviluppo del dialogo fra cattolici e ebrei. Questa denominazione ufficiale registra quest’anno una significativa evoluzione in Giornata di riflessione ebraico-cristiana e il sussidio relativo è firmato congiuntamente da monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Commissione CEI per l’Ecumenismo e il Dialogo, e dal professor Giuseppe Laras, Presidente dell’'Assemblea dei Rabbini d’Italia. Si tratta di una proposta di passaggio dalla riflessione ecclesiale ad atti di dialogo attorno a tematiche comuni come quello della giornata di quest’anno: ‘Non avrai altre divinità al Mio cospetto’ (Esodo 20, 3).
L’esigenza di una riflessione intraecclesiale resta peraltro molto forte, a causa della complessità dei problemi di identità che il soggetto cristiano si trova a affrontare, nel momento in cui riscopre la propria originaria condizione rispetto a Israele secondo il Nuovo Testamento e assume consapevolmente un paradigma relazionale non-sostitutivo e quindi non più antiebraico. Questa consapevolezza è al centro delle occasioni di riflessione che da qualche anno offre il 17 gennaio a Bologna l’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ISSR) ‘Santi Vitale e Agricola’, all’interno del quale è attivo un gruppo di lavoro interdisciplinare, ora in stretto contatto con il Dipartimento di Storia della Teologia della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (FTER), e con colleghi di altri centri di ricerca.
E’ di particolare rilievo l’appuntamento di quest’anno, dedicato a un confronto fra la tradizione cattolica e quella riformata rispetto al nodo secolare della autocoscienza cristiana come Verus Israel, sia per la gravità storica del problema (che tocca non solo la relazione Chiesa-Israele ma anche le relazioni fra le chiese che si dividono, assumendo quella identità sostitutiva legittimante) che per l’autorevolezza dei relatori: il professor Daniele Garrone, biblista e Decano della Facoltà di Teologia Valdese di Roma, e il professor Erio Castellucci, teologo sistematico e Preside della FTER.
Questa serata bolognese nasce dalla collaborazione fra FTER-ISSR e la Chiesa Evangelica Metodista di Bologna e il SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) locale, che hanno accolto con piacere l’attenzione e la disponibilità del CUC a ospitare l’incontro come il primo del 2007 dei Mercoledì all’Università».



Si noti lo spesseggiare delle sigle (CUC, SAE, FTER, ISSR), tragicomico riflesso della mentalità burocratica cui ormai s’è ridotto il clericalismo ufficiale: pare una riunione della Commissione Europea a Bruxelles.
Tralasciamo l’immancabile presenza dei rabbini e dei «riformati».
E’ ovvio (ed è già deciso) che la «riflessione» concluderà nella riaffermazione «del paradigma non-sostitutivo e quindi non più anti-ebraico» ossia - per tradurre la lingua di legno dei clerocrati - con la riaffermazione che il Verus Israel è e resta il regno sionista di Giuda.
Vorremmo solo, sommessamente, sperare che questi signori «riflettenti» a senso unico ascoltassero qualche voce diversa.
Non la nostra, per carità.
Una voce ecclesiastica e clericale al massimo grado, quella di padre Marcel Jacques Dubois.
Chi è costui?
Un domenicano di 86 anni, che da mezzo secolo ha scelto di abitare in Israele per condividere le sorti dell’amatissimo (da lui) popolo eletto.
Ora, questo credente semi-secolare del Vetus Israel si pente e si ricrede: «Sono stato ingenuo, sono stato idealista», confessa.
E grida «Israele, torna in te stesso».
Ecco il caso come lo racconta Avvenire online:
«Bisogna avere l’animo di un poeta per comprendere Israele e la sua esperienza umana, la sofferenza, la solitudine, l’incomprensione del mondo.
Può ben dirlo padre Marcel-Jacques Dubois, domenicano nato a Tourcoing, in Francia, 86 anni fa.
E’ arrivato a Gerusalemme nel lontano 1962, con la missione di animatore della ‘Casa sant’Isaia’, un centro di studi cristiani sull’ebraismo. L’empatia con gli israeliani è venuta fuori da subito.
‘Nel corso dei primi anni in Israele, da cristiano ho gioito nel vedere il popolo biblico raggiungere la terra della Bibbia’. Dubois è diventato un pioniere del dialogo interreligioso. Ha tracciato nuove strade di riconciliazione insieme al confratello Bruno Hussar, fondatore di Nevé Shalom/Waahat as-Salaam, il villaggio dove convivono famiglie israeliane e arabe.
Professore di filosofia all’Università ebraica dal 1970, Dubois è stato a lungo tra gli interlocutori preferiti dal Vaticano per le relazioni con Israele. Dal 1973 ha perfino scelto di prendere la nazionalità israeliana. Cittadino onorario di Gerusalemme, nel 1996 ha vinto il ‘Gran prix d’Israele’, uno dei pochi cristiani a poter vantare questo titolo. Il legame con lo Stato israeliano ha radici profonde, per questo sta destando scalpore il suo ultimo libro ‘Nostalgie d’Israël. Entretiens avec Olivier-Thomas Venard’. Avec la collaboration d’Annie Laurent (Editions du Cerf, 418 pagine, 34 euro). Raccoglie una serie di interviste in francese rilasciate a un suo confratello, Olivier Thomas Renard, […] Sono le riflessioni con cui Dubois interrompe un lungo silenzio, dettato anche da motivi di salute per i postumi di un attacco cerebrale tre-quattro anni fa.
Ed è un ritorno che non manca di far discutere».



«Colpisce la lucidità delle analisi, ma non meno sorprendenti appaiono alcune sue dichiarazioni in cui è evidente come qualcosa sia cambiato nel rapporto con Israele. Non di rado sono sofferte ammissioni di colpa: oggi il domenicano si rimprovera una visione a lungo idilliaca e unilaterale del popolo israeliano. ‘Sono stato ingenuamente sionista - dice nel libro -. Ho confuso l’avventura ebrea con quella israeliana, trascurando la miseria palestinese’. Affiora in lui quella nostalgia richiamata nel titolo.
C’è stato un tempo, secondo Dubois, in cui ‘il popolo si sentiva chiamato a un destino particolare su una terra particolare’. Adesso non più: ‘La tragedia attuale è nell’infedeltà di quelli che conducono Israele verso un destino di violenza e conquista’. Lo sdegno verso le ultime politiche israeliane è netto. Però Dubois rileva come il cambiamento di rotta dei governi d’Israele risalga alla ‘Guerra dei sei giorni’ del 1967 con l’occupazione dei territori palestinesi. Da quel momento in poi, a suo dire, ha preso piede una deriva sionista volta alla conquista. Il religioso francese ritorna a far sentire la sua voce da una nuova inimmaginabile dimora in un quartiere palestinese di Gerusalemme est. Non è stata una decisione casuale: ‘Ho scelto di vivere qui per dimostrare chiaramente che non sono d’accordo con la politica del mio Stato’.
Abita presso una famiglia a cui il domenicano è grato per avergli fatto scoprire le condizioni dei palestinesi, dei cristiani in particolare, e delle ingiustizie da loro subìte. Se adesso prevale la coscienza di aver idealizzato Israele, non per questo la sua è un’apologia della causa palestinese. L’affetto per la stirpe ebraica è rimasto immutato. ‘Marcel Dubois reste Marcel Dubois’. Lo ripete all’infinito nel testo. Di nuovo c’è solo il rammarico di chi vede un popolo dimenticare la sfida impegnativa a cui è chiamato: ‘Dio ha dato una terra a Israele, ma come è possibile vivere all’altezza di una tale vocazione senza cadere nell’orgoglio?’.
Per chi fosse interessato a una risposta gli spunti non mancano nel libro. C’è dentro tutto il profondo percorso intellettuale e spirituale di un uomo che accompagna il popolo d’Israele da oltre quarant’anni e continua ad amarlo».



Ma ascolteranno i signori riuniti in «riflessione» contro il Verus Israel e per il Vetus, la voce di questo ingenuo che s’è accorto - tardi - di essersi reso complice di un’immensa atrocità? Ascolteranno la realtà di testimoni oculari, entità che amano chiamarsi CUC, SAE, ISSR?
Entità disumane, burocratici mostri freddi.
Invece è caldo e disperato un appello che mi manda un prete che non conosco, don Mario Cormioli. Da anni, questo prete porta i suoi parrocchiani a visitare la Terra Santa.
Ma non, non più, con le agenzie di viaggio ecclesiastiche o ammanicate con la Chiesa.
«Perché in tanti pellegrinaggi», mi scrive, «non incontrano mai un cristiano o una comunità; solo pietre morte e reperti archeologici; perché dormono in alberghi ebrei... quando la maggioranza dei nostri fratelli cristiani lavora nel turismo e dormire una notte a Betlemme aiuta a campare tante famiglie».
E’ degli arabi cristiani che parla don Mario.
E’ di loro che si è innamorato.
Li chiama, questi cristiani che resistono a Nazareth, a Betlemme, in Galilea a testimoniare che Cristo è stato qui, a casa loro, «i santuari viventi».
Don Mario porta i parrocchiani presso questi santuari.
A vivere con loro e a sentire l’oppressione in cui vivono le pietre vive di Gesù sotto il Vetus Israel.
«In questi anni ci siamo accorti che incontrando non solo i luoghi ma anche le persone, la nostra gente rimane entusiasta e soprattutto riesce a raccogliere il grido di disperazione e di sofferenza di un popolo umiliato e martoriato, e tornando a casa riesce a guardare con spirito critico tutte le falsità che ci vorrebbero far credere sul conflitto.
Il pellegrinaggio da turismo religioso è diventato spontaneamente «tante piccole iniziative: adozioni di famiglie o di studenti, piccoli progetti di sviluppo, sostegno alle varie realtà presenti».
Don Mario mi ringrazia perché ha scoperto che c’è della verità nei miei articoli.
Sono io che ringrazio lui, che mi fa sentire meno solo e meno inutile.
Nelle sue semplici parole, sono riuscito a cogliere la radicale diversità cristiana: non si vanno a vedere le pietre morte, non ci occupa - come Israele - il Tempio e la sua «gloria».
Sono le «pietre vive» che ci interessano, le dolenti pietre di carne ed ossa, le residuali luminose pietre che testimoniano Gesù.
E’ questa la cura che Cristo ci ha insegnato: per le pietre vive.
Non andremo a gridare «Tempio del Signore!», perché il nostro Tempio è il suo Corpo, e tutti i corpi che ha affidato alla nostra carità e al nostro amore.



Don Mario mi manda anche un’altra testimonianza.
E’ della giornalista ebrea Shulamit Aloni, pubblicata anche su Liberazione.
«Fra di noi, la certezza ebraica di essere nel giusto è data tanto per scontata che non riusciamo a vedere cosa abbiamo proprio davanti agli occhi. E’ semplicemente inconcepibile essere nel giusto è data tanto per scontata che non riusciamo a vedere cosa abbiamo proprio davanti agli occhi. E’ semplicemente inconcepibile che le vittime per eccellenza, gli ebrei, possano compiere atti malvagi. Ciononostante, lo Stato di Israele pratica la propria forma di apartheid, piuttosto violenta, nei confronti della popolazione palestinese nativa.
L’attacco dell’establishment ebraico all’ex presidente Jimmy Carter si fonda sul fatto che questi ha osato dire la verità che è nota a tutti: tramite l’esercito, il governo di Israele pratica una forma brutale di apartheid nel territorio che occupa. L’esercito ha trasformato ogni villaggio ed ogni cittadina palestinese in un campo di detenzione recintato o bloccato; tutto questo per tenere d’occhio gli spostamenti della popolazione, e rendere loro la vita difficile. Israele impone un coprifuoco totale ogni qualvolta i coloni, che hanno usurpato illegalmente le terre dei palestinesi, celebrano le loro festività o compiono le loro parate.
Come se non bastasse, i generali che comandano la regione emanano frequentemente ulteriori ordini, regolamenti, direttive e norme (non dimentichiamo che sono i signori del territorio). Oramai hanno requisito ulteriori terreni allo scopo di costruire strade‘solo ebraiche’: strade meravigliose, ampie, ben asfaltate, con un’ottima illuminazione notturna - tutto questo su terra rubata. Quando un palestinese passa su una strada siffatta, gli si confisca l’auto e lo si manda via.
Una volta sono stata testimone di un tale incontro fra un guidatore e un soldato che raccoglieva i dati prima di confiscare l’auto e di mandare via il suo proprietario.‘Perché?’ ho chiesto al soldato. ‘E’ un ordine: questa è una strada-solo-per-ebrei’ ha risposto. Ho domandato dove fosse il cartello che lo indicasse, ad informare [altri] guidatori a non percorrerla. Ha risposto in modo semplicemente sbalorditivo. ‘E’ affar suo saperlo! E poi, cosa vuoi che facciamo? Che mettiamo qui un cartello a cui qualche reporter o giornalista antisemita possa scattare una foto, per poter mostrare al mondo che qui esiste l’apartheid?’».



«L’apartheid esiste davvero qui. E il nostro esercito non è ‘l’esercito più morale del mondo’, come ci dicono i comandanti. Sia sufficiente ricordare che ogni cittadina e ogni villaggio si sono trasformati in centri di detenzione e che ogni ingresso e ogni uscita sono stati chiusi, escludendoli dal traffico sulle grandi vie di comunicazione. Come se non bastasse il divieto ai palestinesi di percorrere, sulla loro terra, le strade asfaltate ‘solo per ebrei’, l’attuale generale in capo ha trovato necessario appioppare, con una ‘proposta ingegnosa’, un altro colpo a chi è nato lì.
Nemmeno gli attivisti umanitari possono trasportare palestinesi.
Il maggiore Naveh, famoso per il suo grande patriottismo, ha emanato un nuovo ordine - che, a partire dal 19 gennaio, proibisce di trasportare palestinesi senza un permesso. L’ordine sancisce che gli israeliani non possono trasportare palestinesi in un veicolo israeliano (vale a dire uno registrato in Israele, indipendentemente dal tipo di targa), se non ne hanno ricevuto il permesso esplicito; l’autorizzazione riguarda sia il guidatore, sia il passeggero palestinese. Ovviamente nulla di tutto ciò si applica ai lavoratori che servono ai coloni: questi, ed i loro datori di lavoro, riceveranno naturalmente i permessi necessari, in modo da poter continuare a servire i padroni del territorio, i coloni medesimi.
Il presidente Carter, uomo di pace, si è davvero sbagliato nel concludere che Israele sta creando apartheid? Ha esagerato? I leader delle comunità ebraiche USA non riconoscono forse la Convenzione Internazionale del 7 marzo 1966, firmata da Israele, sull’eliminare tutte le forme di discriminazione razziale? Agli ebrei statunitensi che hanno lanciato in modo forte ed ingiurioso la campagna contro Carter, accusato di calunniare il carattere e la natura democratica ed umanista di Israele, è forse sconosciuta la Convenzione Internazionale del 30 novembre 1973, sul reprimere e punire il crimine di apartheid?
L’apartheid è ivi definito come un crimine internazionale, che fra le altre cose comprende usare strumenti legali differenti per governare su gruppi razziali diversi, privando così la popolazione dei diritti umani. La libertà di spostarsi non fa parte di tali diritti?».


La giornalista ebrea Shulamit Aloni



«In passato, i leader delle comunità ebraiche USA conoscevano abbastanza beneil significato di quelle convenzioni. Per qualche ragione, tuttavia, sono convinti che Israele sia autorizzato a trasgredirle. Va bene uccidere civili, donne e bambini, vecchi e genitori con i loro figli, deliberatamente o no, senza accettare alcuna responsabilità.
Può essere permesso derubare la gente dei loro campi, distruggere i loro raccolti, rinchiuderli come animali allo zoo. D’ora in poi, è vietato a volontari israeliani e di organizzazioni umanitarie internazionali assistere una donna in travaglio trasportandola in ospedale. I volontari del [gruppo israeliano per i diritti umani] Yesh Din non possono portare alla stazione di polizia, a presentare un reclamo, un palestinese derubato e pestato. (Le stazioni di polizia sono situate al centro delle colonie). C’è qualcuno che ritiene che questo non sia apartheid?
Jimmy Carter non ha bisogno di me per difendere la sua reputazione, dopo le calunnie dei funzionari delle comunità israelofile. Il problema è che ‘l’amore che nutrono per Israele distorce la loro capacità di giudizio e li acceca, impedendo loro di vedere ciò che hanno di fronte. Israele è una potenza occupante che da 40 anni opprime la popolazione del luogo, che ha il diritto ad un’esistenza sovrana ed indipendente, vivendo con noi in pace. Dovremmo ricordare che anche noi abbiamo usato molto spesso un terrorismo assai violento contro un potere straniero, perché volevamo un nostro Stato: l’elenco delle vittime è piuttosto lungo ed esteso.
Non ci limitiamo a negare alla popolazione [palestinese] i diritti umani. Non rubiamo loro solo la libertà, la terra e l’acqua. Applichiamo punizioni collettive a milioni di persone; nella frenesia della vendetta, distruggiamo pure il rifornimento di energia elettrica per un milione e mezzo di civili: che ‘stiano al buio’ e ‘patiscano la fame’.Non si possono pagare i salari ai dipendenti perché Israele trattiene 500 milioni di shekel che appartengono ai palestinesi. E dopo tutto ciò restiamo ‘puri come la neve che cade’. I nostri atti non sono marchiati da alcun disonore morale. Non c’è alcuna separazione razziale, alcun apartheid. E un’invenzione dei nemici di Israele. Evviva i nostri fratelli e sorelle negli USA! La vostra dedizione è apprezzata moltissimo: avete davvero allontanato da noi una brutta macchia. Ora possiamo avere una spinta in più, nel maltrattare, sicuri di noi stessi, la popolazione palestinese, tramite ‘l’esercito più morale del mondo’».



Questo articolo potrebbe essere un bel tema di «riflessione» per i giudaizzanti clericali e riformati (ossia falso-cristiani) radunati a Bologna con ingresso libero.
Ma sono in grado di ascoltare voci che nascono dalla carne e dal sangue, entità che si chiamano IRSS, CUC, CEI e FTER?
Invece, vale la pena di ascoltare l’iniziativa che propone don Mario, e che nasce dalle suore del Baby Hospital di Betlemme: dedicare il primo marzo di ogni anno ad una giornata di preghiera e solidarietà concreta verso i palestinesi assediati e soffocati.
Ciò perché il primo marzo del 2004 è stata elevata la prima pietra morta del Muro della morte con cui Giuda si circonda, rubando terre ai palestinesi.
E «non servono muri, ma ponti», come disse un Pontifex.
Le suore del Baby Hospital, cattoliche, per lo più francesi, le ho conosciute.
Non posso dire con quale eroica povertà salvano bambini, ricoverano ragazze madri musulmane scampandole dall’uccisione per «onore» dei familiari maschi - che spesso sono anche i loro stupratori (non sono ingenuo, non idealizzo).
Non hanno mezzi, nessuno manda loro denaro: ma non manca mai posto, nelle loro linde camerate, per un altro bambino e un’altra giovane donna.
Da loro ho capito quel che ha fatto Giuseppe, tenendo presso di sé Maria incinta: l’ha salvata dal linciaggio e dalla lapidazione.
Chi vuole partecipare, scriva a donmario.c@tiscali.it.
Potrà fare ponti contro il Muro: ponti di carne contro la pietra morta.
A Bologna, si riuniscono gli adoratori delle pietre morte e di un Israele impietrito nella sua malvagità.
Accecati gridano «Tempio del Signore!», di quel Tempio di cui non resta pietra su pietra, e dimenticano quello che disse di Sé: «Distruggete questo Tempio, e in tre giorni lo rifarò», e parlava del Tempio del suo Corpo.
Tuttavia, non sarà il caso di lasciarli in pace nelle loro opere morte, questi IRSS, CUC e FTER.
Chi può, vada alla loro riunione (ingresso libero) a far sentire la voce viva degli esseri umani.

Maurizio Blondet




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