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    Predefinito Scaramella come Igor Marini?


    Chi c’è dietro il dossier contro Prodi e la magistratura?
    Milano, 12 gennaio – Faccendiere è parola ambigua. Lo Zingarelli, preziosa abitudine, riporta testuale: «Chi si dà da fare in affari poco onesti»; e pure aggiunge «sinonimo di maneggione». Ora, che qualcosa di poco chiaro in Mario Scaramella ci fosse, lo si era capito subito; ma arrivare a definirlo faccendiere – come riportano gran parte dei quotidiani da novembre a questa parte – sembrerebbe un’esagerazione, quasi una forzatura.
    Dallo scorso 24 dicembre, Scaramella dimora in pianta stabile a Regina Coeli, arrestato appena fuori dal British Airways Londra-Napoli. Indagato da tre procure – Napoli, Bologna e Roma – il consulente della Mitrokhin vanta una rosa di imputazioni di tutto rispetto: dalla violazione di segreto di ufficio al traffico d´armi, dalla calunnia anche aggravata al traffico di rifiuti nocivi.
    Scaramella, tanto per fare mente locale, era al centro del quadro d’accusa quando si sosteneva una pericolosa prossimità di Romano Prodi e il Kgb; ed è stato lui a confermare la presenza (poi smentita) di un traffico di barre d’uranio tra Rimini e San Marino.
    In carcere a Roma, però, Scaramella c’è finito soprattutto per altri motivi: sul finire del 2005 ha ordito una trama di episodi sospetti che ruotavano attorno a tale Alexandr Talik, cittadino ucraino di Napoli considerato una pedina centrale nel progetto (mai accertato) di attentare alla vita del presidente della Mitrokhin stessa, Paolo Guzzanti. E proprio con Guzzanti, Scaramella aveva acceso una rete di fitte collaborazioni. Secondo le intercettazioni pubblicate a fine novembre, risulterebbe che il senatore forzista cercasse elementi per dimostrare la connivenza di Prodi e Pecoraro Scanio coi servizi segreti russi, ed insieme smascherare la rete di appalti che avrebbero portato il presidente Bassolino a favorire cooperative rosse vicine alla camorra. Lodevole proposito, se poi – come accerterà la stessa commissione – non emergesse chiaro che erano tutte fandonie.
    Scaramella traeva le sue informazioni dalle soffiate di un reticolo di fuoriusciti russi – primo tra tutti quell’Alexandr Litvinenko morto ammazzato a Londra, avvelenato col Polonio 210 – ma anche da agenti italiani e americani. Tra questi, Bob Lady, agente Cia di stanza a Milano implicato nel sequestro Abu Omar. Contatti pericolosi, che potrebbero essere alla base della contaminazione prima mortale, poi improvvisamente risolta, dello stesso Scaramella con l’isotopo radioattivo.
    La procura di Roma – nella persona del gip Valerio Savio – nelle scorse settimane ha negato i domiciliari al consulente napoletano, evidenziando la sua possibilità di inquinare le prove, realizzare opera di disinformazione e modificare l’esito dell’inchiesta tramite i molti contatti che Scaramella può vantare in ambito di polizia, magistratura e servizi segreti. Un’opera di costante mistificazione, secondo l’accusa, perpetrata anche ai danni della commissione stessa; inoltre, il magistrato sottolinea la possibilità di fuga, essendo Scaramella venuto a contatto con delicate strutture della malavita internazionale, le stesse che avrebbero provveduto all’eliminazione di Livtinenko.
    Anche dal fronte delle collaborazioni non sembra andare per il meglio. Il senatore Guzzanti, alla domanda se Scaramella avesse mai potuto sviare i lavori della commissione Mitrokhin, risponde che «mai alcuna attività di caramella è confluita nei lavori e nelle conclusioni della commissione». E alla domanda del perché intrattenesse rapporti con lui, Guzzanti dice che Scaramella conosceva alcuni fuoriusciti, ma di certo non possedeva dossier d’accusa perché questi «non esistono». Questo un vago – e sicuramente incompleto – ritratto di Mario Scaramella. Un personaggio che ricorda, chissà come mai, il fantomatico supertestimone della vicenda Telekom Serbia.
    Ricordate Igor Marini? Era il 1997: sotto il primo governo Prodi si dispose l’acquisto del 29% della compagnia telefonica di Belgrado: una bazzecola di quasi mille miliardi di lire che avrebbe consentito a Telecom Italia – al tempo ancora in gran parte pubblica – di espandere la propria rete d’influenze anche all’estero.
    Con la vittoria del centro-destra del 2001, la procedura di acquisto finì sotto i riflettori, tanto da indurre il neoeletto governo Berlusconi ad istituire una commissione d’inchiesta. Commissione definita subito pretestuosa dal centro-sinistra: nel ‘97 infatti, l’allora ministro del Tesoro Ciampi aveva disposto un sistema di regole che prevedevano – per le società a partecipazione statale – la libertà di fare acquisizioni senza dover sottostare al parere vincolante del governo; il tutto, è chiaro, per svincolare le dirigenze aziendali da pressioni politiche di sorta. Già questo avrebbe dovuto far riflettere sul possibile intervento della politica nella scelta di acquisizione da parte della società telefonica italiana. Ma tant’è che nel giro di pochi mesi, Telecom Italia iniziò il processo di collocamento sul mercato, rendendo disponibili una gran parte delle quote pubbliche. La progressiva svalutazione delle quote di Telekom Serbia (nel periodo 1997-2003, quando le azioni vennero cedute) indusse una perdita al patrimonio statale di quasi 200 milioni di euro. Vennero dunque accusati i vertici Telecom di aver dato il via ad un’operazione fallimentare, ed insieme si accusò il governo Prodi, per aver avallato un simile insuccesso. L’accusa più dura, però, fu quella mossa nei confronti dell’intera dirigenza di centro-sinistra. Si cercò di dimostrare, infatti, che il governo italiano aveva ricevuto tangenti dal presidente serbo Milosevic per favorire l’operazione d’acquisto nonostante la precaria situazione economica della società straniera.
    Igor Marini entra in scena a questo punto: il faccendiere svizzero – faccendiere di fatto, questa volta è dimostrato – dichiarò alla commissione d’inchiesta che praticamente tutti i leader della coalizione (Prodi, Fassino, Rutelli, Dini e molti altri) avevano ricevuto mazzette. L’accusa – moltiplicata e rilanciata dai media vicini al Cavaliere – tenne banco per parecchi mesi (Carlo Taormina chiese a gran voce l’immediato arresto di Prodi e Fassino), nello specifico fino a quando la magistratura non smontò le accuse e dichiarò il teste Marini “non credibile”. Le prove fornite dagli accusanti – due ordini di versamento – si rivelarono poi dei falsi, come dimostrarono le inchieste de L’espresso e La Repubblica.
    La commissione di inchiesta concluse i suoi lavori senza nulla in mano, la Procura di Torino archiviò l’indagine nell’aprile 2005 e nell’aprile 2006 tre protagonisti della vicenda (Romanazzi, De Simone e Volpe, gli stessi che avevano accusato Prodi e Dini di aver ricevuto una tangente di 125 mila dollari) vennero rinviati a giudizio per calunnia aggravata e per aver costruito prove false.
    Le analogie tra i due casi sono parecchie. Con l’aggravante che nel caso di Scaramella, i nebulosi dossier d’accusa hanno la chiara finalità di smontare non soltanto la credibilità del Premier, ma persino di delegittimare una serie di inchieste che, col Kgb e Mitrokhin, non c’entrerebbero nulla. È di oggi la notizia che un capitolo di documento chiamava in causa il pubblico ministero Armando Spataro, “reo” di aver messo le mani sullo scandalo delle intercettazioni Telecom, affare nel quale sono coinvolti il direttore della security Telecom Giuliano Tavaroli e il numero due del sismi Marco Mancini. Inoltre, e ritorna la coincidenza, Spataro è lo stesso magistrato che ha inquisito l’ex capo del sismi Niccolò Pollari proprio in relazione al sequestro dell’imam Abu Omar.
    La magistratura compirà il suo corso, e qui non si vuole affatto stabilire sentenze. Ma percorrendo le pagine dei dossier di Scaramella – almeno, quello che ne passano i giornali – si ha come l’impressione che il ricorrere persistenti di certi nomi – Prodi, Spataro, i giornalisti Bonini e D’Avanzo, il generale Cucchi – cadrebbe a fagiolo per screditare e silenziare i protagonisti di alcune tra le più oscure e malavitose vicende della storia recente: le intercettazioni illegali prodotte da Telecom Italia e l’affaire Abu Omar, episodi a loro volta stretti da un doppio filo di coincidenze e zone d’ombra. Scaramella, in questo quadro, apparirebbe più come una pedina che come un protagonista: non uno scomodo informatore, temuto perché in grado di portare alla luce dossier sconvolgenti, ma un vero e proprio ingranaggio trituratore cui ricorrere non appena si presenti la necessità di smontare pubblicamente una singola persona, un’inchiesta, un magistrato.
    Ci auguriamo che il lavoro della magistratura si compia nel modo più veloce possibile. Intanto registriamo la volontà dello stesso Scaramella di non rispondere all’accusa di calunnia a scopo di eversione. La faccenda caramella rischia di aprire un baratro di proporzioni catastrofiche: i magistrati che si occupano dell’inchiesta sottolineano che al momento si esclude ogni ipotesi di scarcerazione.
    Graziani
    http://www.voceditalia.it/index.asp?...R=pol&ART=3290

  2. #2
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    Molly Bezz per la Voce d'Italia


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