Maurizio Blondet
16/01/2007
Mentre Ahmadinejad incontrava Chavez (essenzialmente, per concertare un taglio delle estrazioni OPEC onde rialzare il prezzo del greggio, mantenuto artificialmente basso dalle manipolazioni di Goldman Sachs), un’altra visita di Stato avveniva dalla parte opposta del pianeta: Ehud Olmert è stato ricevuto con tutti gli onori a Pechino dal premier Wen Jiabao. (1)
E il cinese ha esplicitamente condannato l’Iran per il suo atteggiamento di sfida all’ONU.
«La risoluzione 1737 [quella che impone a Teheran di interrompere l’arricchimento di uranio], adottata all’unanimità dal consiglio di Sicurezza, riflette le preoccupazioni della comunità internazionale a proposito della questione nucleare iraniana», ha detto il cinese.
Olmert quasi non credeva alle proprie orecchie.
«Ho ascoltato molte cose sorprendentemente positive», ha dichiarato ai giornali pechinesi:
«Il premier Wen ha chiarito in modo assoluto l’opposizione cinese alla bomba atomica iraniana».
La visita del governante sionista a Pechino era l’ultima tappa del tour nelle capitali dei cinque membri permanenti dell’ONU (Londra, Parigi, Mosca e Washington) per spingere i cinque «grandi» ad aumentare le pressioni sull’Iran.
Sulla Cina, si può credere che l’ebreo abbia poca influenza.
Ma l’incontro è avvenuto all'indomani della visita a Pechino di Ali Larjani, il negoziatore iraniano sulla questione nucleare.
Ed anche a lui i capi del PC cinese hanno sottolineato che la risoluzione ONU 1737 esprime preccupazioni «condivise», dunque non solo americane.
Insomma la nomenklatura pechinese ha dato un sostegno ragguardevole, e deliberato, alla posizione estremamente ostile di Bush, che nell’ultimo suo discorso ha apertamente minacciato l’Iran indicandolo come il nemico prossimo da abbattere.
Tanto più che la Merkel alla presidenza UE, e Sarkozy prossimo probabile presidente a Parigi, preludono ad un mutamento delle posizioni europeee: assai meno conciliante verso Teheran, e assai più neocon.
Ora Bush ha la concreta possibilità di isolare Mosca nel consiglio di Sicurezza, mentre si avvicina la scadenza (marzo) in cui si dovrà constatare se la Risoluzione 1737 è stata violata.
Non c’è dubbio che l’atteggiamento di Teheran, e di Larjani, debba aver irritato i cinesi.
Dopo la visita di Larjani, il capo della commissione Esteri del Majlis (il parlamento iraniano), Alaeddin Broujerdi, ha dichiarato all’agenzia ufficiale persiana: «Ci aspettiamo che Mosca e Pechino mostrino più forza, potere e indipendenza… Ci aspettiamo che usino il loro potere di veto come dimostrazione della loro forza e indipendenza, come fanno invariabilmente gli USA in questioni riguardanti il regime sionista».
Eppure proprio un rapporto del Majlis, nell’aprile 2006, aveva valutato che Pechino non avrebbe spinto il suo appoggio a Teheran fino al gelo con Washington.
Le due economie, quella americana e quella del gigante asiatico, sono troppo intrecciate: il creditore (Cina) detiene troppi dollari del debitore per potersi permettere un suo fallimento.
Gli scambi tecnologici e commerciali sono intensissimi.
I due Paesi sono alleati di fatto in economia, e in politica mondiale non così distanti come pare. Dopotutto, la Cina vuol giocare la parte - a cui Washington la invita - di «partner responsabile» e rispettabile.
Non ha interessi che la inducano a contrastare l’America ed Israele sulla questione palestinese, né ideologici né - quel che oggi conta - economici.
In Libano, Pechino ha già aiutato gli americani ad ottenere la risoluzione ONU che esige il processo internazionale per l’omicidio di Hariri.
Si aspetta un aiuto altrettanto discreto contro la sua minoranza musulmana interna, i 150 milioni di uiguri turcofoni, ove fosse necessaria una sanguinosa repressione.
La nomenklatura non ha alcuna simpatia ideologica per il mondo islamico.
D’altra parte, il 13 % delle importazioni cinesi di greggio vengono dall’Iran, e i cinesi stanno investendo nell’economia iraniana, anche a lungo termine: ma sempre sotto condizione di un atteggiamento più conciliante di Teheran.
L’Iran ha presunto troppo circa la sua importanza come fornitore di Pechino.
La Cina ha una relazione sempre più stretta con l’Arabia Saudita (con scambi di visite al massimo livello in soli quattro mesi), e conta sui sauditi per riempire le quattro riserve strategiche energetiche che progetta di costruire nel territorio cinese, e che dovranno soddisfare un mese di importazioni petrolifere dal prossimo anno, e fino a tre mesi entro il 2015.
Non solo Pechino importa dai sauditi più che dall’Iran (17 %), ma sa che l’Arabia può, al bisogno, pompare più petrolio del consentito dall’OPEC, per riempire le riserve in accelerazione se necessario.
Per questo Pechino ha investito miliardi di dollari nel petrolchimico arabo.
Ed è sensibile all’allarme saudita - acutissimo - sull'emergenza della «mezzaluna sciita» egemonizzata dall’Iran.
Tutto questo conduce ad una convergenza ambigua verso le posizioni israelo-americane.
Come nota l’ambasciatore Bhadrakumar, nel discorso di Bush sull’escalation in Iraq ha avuto posto un appello a «Paesi come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania e gli Stati del Golfo a capire la minaccia strategica alla loro sopravvivenza».
Sullo sfondo di questa frase, Bhadrakumar intravede una strategia in cui questi Paesi sunniti potrebbero - su mandato Onu - inviare una forza multinazionale della Lega Araba che, col pretesto di «proteggere i sunniti iracheni», terrebbe a freno l’avanzata sciita e consentirebbe alle truppe USA di alleggerire la loro presenza in Iraq.
Più a fondo ancora, c’è l’interesse cinese per gli armamenti sofisticati e le tecnologie che Israele può fornire a Paesi «amici».
Armamenti e brevetti americani, che sarebbero vietati a Pechino, possono essere ottenuti attraverso lo Stato ebraico.
L’Iran farebbe meglio a non illudersi.
Se l’attacco contro le sue installazioni avverrà - ad aprile secondo «Arab Times», o ad agosto secondo voci dei servizi israeliani - i vecchi comunisti cinesi diventati capitalisti e garanti del «nuovo ordine mondiale» non saranno certo dalla loro parte.
Sul piano metastorico sarebbe strano il contrario: ci sarebbe da stupirsi se un regime ripugnante come quello cinese, alla resa dei conti o all’Armageddon, non stesse dalla parte dei peggiori.
A fianco delle potenze «huius mundi».
Maurizio Blondet
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Note
1) M. K. Bhadrakumar, «China’s Middle East journey via Jerusalem», Asia Times, 13 gennaio 2007.
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