Il 21 gennaio a Roma per una sinistra più forte
Il 21 Gennaio 2007 dedicheremo la nostra manifestazione nazionale per l’anniversario della nascita del PCI ad Antonio Gramsci, nel settantesimo della sua morte.
Una scelta politica obbligata e meditata, in uno dei momenti più delicati per la sinistra e per chi si richiama alle idealità del socialismo ed alla storia del movimento operaio. Un appuntamento politico, non una celebrazione, con la parola d’ordine “Più forti i comunisti Più forte l’unità della sinistra”.
Siamo cioè nel cuore della nostra proposta di riaggregazione confederale della sinistra per superare lo stallo ormai insostenibile tra sparuti gruppi dirigenti, con la consapevolezza della necessità storica di un nuovo soggetto della trasformazione che non si accomodi, per ignavia o per calcolo, nella passiva accettazione del presente: un bipolarismo maggioritario introdotto negli ani 90 non tanto per collocare ad un polo il capitale e dall’altro il lavoro, ma per escludere l’opposizione di classe dalla rappresentanza politica o per costringerla in modo subalterno all’interno di un polo.
Nello scontro tra due frazioni del capitale i comunisti e la sinistra c.d. di alternativa hanno giustamente scelto di combattere il nemico principale in questa fase, rappresentato dal sovversivismo di Berlusconi.
Su questo necessario ed utile compromesso di tipo difensivo, che oggi è configurato dall’Unione, i Comunisti italiani non sono stati secondi a nessuno.
Ma ciò non annebbia la consapevolezza dei processi reali in corso e del moderatismo di DS e Margherita, avviati pur tra enormi contraddizioni verso il PD, che sorge proprio sull’assunto ideologico della fine del grande ciclo storico rivoluzionario e del carattere imperituro del capitalismo. Ne discende l’obbligo di normalizzare definitivamente il conflitto politico e sociale con la cancellazione delle idealità comuniste e socialiste e procedere sulla strada di una governabilità di tipo statunitense.
Alla luce di ciò vanno letti, all’interno della vittoria di misura dell’Unione, gli ostacoli al programma fondato sulla centralità dei lavoratori e su una nuova idea di sviluppo delle forze produttive, della ricerca e del sapere, mentre ogni giorno si prepara l’attacco alle pensioni. La fase che ha caratterizzato l’Italia dalla fine degli anni ’80 - inizio anni ’90 - segnata dalla crisi del capitalismo italiano e impersonificato da Silvio Berlusconi, non può dunque essere liquidata come una parentesi.
Non si tratta solo di un fenomeno di sovversivismo di parte delle classi dirigenti italiane maggiormente legate alla fedeltà atlantica, ed omogenee al piano di rinascita di Licio Gelli, ma soprattutto di un processo che affonda le radici in una materialità regressiva della composizione di classe della società italiana – dove il peso della rendita immobiliare e finanziaria ed il declino dell’apparato produttivo ha posto sostanzialmente fine a fenomeni di mobilità sociale che avevano caratterizzato l’Italia – e ci consegna la necessità di una analisi più avvertita delle dinamiche sociali del paese.
Se è sconfitto Berlusconi, non parimenti è sconfitto il blocco da lui rappresentato, anzi forti e radicati appaiono gli interessi e la cultura della piccola borghesia, del vasto mondo dell’illegalità diffusa ed organizzata, il cui richiamo populista ha fatto presa anche su settori delle classi popolari, fuori o contro le regole del gioco su cui si era sviluppata la grande borghesia italiana all’interno dello stato italiano e del progetto politico europeista.
Manca una riflessione seria sulla crisi delle storiche espressioni della rappresentanza politica e sociale: dai partiti, passando per le organizzazioni sindacali fino ad arrivare alla stessa Confindustria, sulla debolezza delle classi generali italiane quali la borghesia e il movimento operaio, accanto all’analisi sulle modificazioni strutturali di carattere economico e sociale, sugli squilibri, sul blocco sociale rappresentato dal berlusconismo ma anche sul carattere contemporaneo del blocco storico di centro destra.
Gramsci è ancora una volta, fondamentale, a partire dalla sua lettura della realtà in tutta la sua complessità, che non separa mai economia e politica, cultura e bisogni sociali. Gramsci che si pone il problema della risposta politica che il partito della classe operaia deve opporre al blocco di potere che partorisce il fascismo, è il dirigente politico e intellettuale che affronta per intero il peso della sconfitta, non fugge dalle sue ragioni più profonde, non scarta nell’ideologia, non si accomoda nel ripiegamento opportunistico, ma accetta la sfida della storia, presente e passata, unica via per il futuro.
Tante le analogie del disgregato presente, politico e culturale, con gli anni in cui Gramsci vede il distacco tra le correnti intellettuali e la vita reale della nazione, dato storico peculiare italiano ma che nella moderna società novecentesca di massa ha conseguenze nuove sul complesso della vita politica, sociale, ideale, nella crisi dei partiti e del movimento socialista, oscillante tra un volontarismo rivoluzionario privo di consistenza, e un pragmatismo vuoto di sostanza ideale e di programma. In questa crisi, in cui chi potrebbe non da risposte, mette radici il consenso di massa al dannunzianesimo, al militarismo, alla retorica piccolo borghese dell’ordine e infine al fascismo. Per questo in Gramsci il problema della cultura e degli intellettuali è centrale e non vezzo formalistico, non riduce la loro funzione ad una strumentalità ma la studia nella sua realtà di elemento della storia umana, fattore di unità o rottura delle formazioni sociali. Così gli intellettuali e la cultura, nel loro far parte di un blocco storico che le crisi spezzano,sono terreno decisivo dello scontro sociale e politico.
I comunisti e la sinistra in questi anni hanno subito le più forti sconfitte proprio sul terreno degli orientamenti ideali e culturali: averne coscienza é il primo passo per riconoscere l’eredità politica e morale di Gramsci.