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    Arrow Gli Alleati ed i prigionieri tedeschi. Quale memoria?

    I crimini di guerra dei soldati alleati, gli stessi che apparivano come accusatori nei confronti dei Serbi e dell'ex Armata Rossa, sono caduti in prescrizione, sostiene l'anali*sta storico del 20° secolo Michael Walsh.


    La sua ricerca mette in luce il genocidio alleato, la schiavizzazione ed il maltratta*mento istituzionalizzato dei prigionieri di guerra dell'Asse durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.


    Egli afferma che gli abusi a cui erano sot*toposti i prigionieri di guerra erano contrari alle varie convenzioni internazionali in mate*ria e delle quali, l'Inghilterra ed i suoi alleati, erano firmatari.


    Addirittura nel 1948, tre anni dopo la fine della guerra, il trattamento del governo ingle*se nei confronti dei suoi prigionieri stranieri fu soggetto ad un minuzioso esame della Croce Rossa Internazionale e alla condanna mondiale.


    La Croce Rossa Internazionale minacciò di portare il governo di Sua Maestà davanti a tribunali internazionali per abuso e schiaviz*zazione illegali.


    E' noto che i campi di prigionia ammini*strati dagli inglesi erano peggiori di Belsen, ben dopo la fine della guerra. Perfino civili furono tenuti in prigionie, deportati e assassi*nati a decine di migliaia, mentre i loro carne*fici riuscirono ad evitare la giustizia.


    L'accreditato fotografo della Associated Press, Henry Griffin, che scattò delle foto ai corpi senza vita di Buchenwald e Dachau, quando visitò i campi dei prigionieri di guer*ra alleati, affermò: la sola differenza che vedo fra questi uomini e quei corpi è che i primi respirano ancora (Fonte: Congressional Record, 11.12.45 p. A-5816).


    Secondo le rivelazioni di membri della Casa dei Comuni di Londra, circa 130.000 ex ufficiali tedeschi e uomini furono imprigio*nati durante l'inverno 1945-46 in campi bri*tannici in Belgio in condizioni che, ufficiali inglesi, non esitarono a descrivere come: non tanto migliori che a Belsen.


    (Fonte: Gruesome Harvest, R.F. Keeling, Institute of American Economics, Chicago 1947).










    TORTURA E BRUTALITÀ'


    In aggiunta al disappunto internazionale, Cyril Connolly, uno degli scrittori inglesi più noto affermò: militari inglesi imprigionarono e torturarono soldati tedeschi. Egli descrisse come essi fossero talmente "influenzati" dalla propaganda sugli Unni tedeschi, da essere felici di mostrare le loro atrocità ai giornalisti in visita.


    Un giornalista britannico di nome Moorehead, che era presente a queste "feste di tortura", osservò che un giovane ufficiale medico inglese e un capitano del Genio diri*gevano il campo di Bergen-Belsen. Il capita*no era di ottimo umore, ma quando ci avvici*nammo alle celle, il sergente perse la pazien*za e il capitano mi disse che al mattino effet*tuarono degli interrogatori e temeva che i pri*gionieri non avessero un gran bell'aspetto.


    Le celle furono aperte alle visite dei gior*nalisti, i prigionieri tedeschi erano per terra, ricurvi su se stessi, gemevano ed erano rico*perti di sangue. Quello più vicino a me tenta*va di reggersi in piedi e alla fine ci riuscì. Tremava e muoveva le braccia come se dovesse difendersi dai pugni.


    IN PIEDI! Gridò il sergente. CONTRO IL MURO!


    Furono sbattuti contro il muro e se ne sta*vano là, barcollanti. In un'altra cella l'ufficia*le medico aveva appena terminato un interro*gatorio.


    IN PIEDI! Gridò l'ufficiale. ALZATI!


    L'uomo giaceva sanguinante sul pavi*mento. Afferrò con le braccia una sedia e tentò di sollevarsi. Riuscì ad alzarsi in piedi, allungò le braccia verso di noi e rantolando disse: PERCHE’ NON MI UCCIDETE?


    Il sergente allora affermò: QUEL MALEDETTO BASTARDO E1 TUTTA MATTINA CHE BORBOTTA QUESTE PAROLE! (Fonte: Cyril Connolly, The Golden Horizon, Weidenfeld and Nicholson, London)


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    SPARARE AI PRIGIONIERI PER DIVERTIMENTO


    L'ex veterano dell'esercito britannico A.W. Perkins di Holland-on-Sea, descrisse le condizioni del campo di concentramento bri*tannico di Sennelager, il quale conteneva, inaspettatamente, non soldati ma civili.


    Egli racconta: durante la seconda metà del 1945 ero con le truppe inglesi a guardia di civili sospettati di nazismo e che vivevano con razioni da fame in un campo chiamato Sennelager.


    Venivano picchiati frequentemente ed inoltre rovistavano nei nostri bidoni dell'im*mondizia per raccogliere la brodaglia dei piatti.


    Questa ex guardia descriveva come le altre guardie si divertivano a tormentare i pri*gionieri denutriti e affamati: potevano essere uccisi a vista se solo osavano avvicinarsi alla rete del perimetro. Era un abitudine gettare una sigaretta all'interno della rete e sparare al primo prigioniero che tentava di prenderla (Fonte: Daily Mail, London 22.04.95).


    Quando rappresentanti della stampa chie*devano di visitare i campi di prigionia, gli inglesi rifiutavano fermamente, adducendo la scusa che la Convenzione di Ginevra vieta tali visite ai campi di prigionia, affermò il corrispondente Arthur Veysey da Londra il 28.05.46.














    "DENUTRITI E PICCHIATI" - AMMETTE UN IMPORTANTE QUOTI*DIANO AMERICANO.


    Il Servizio Stampa del Chicago Tribune, il 19.05.46, un anno dopo la fine della Guerra, afferma: i prigionieri hanno trascor*so l'inverno in tende, dormendo sul suolo nudo e con una coperta a testa. Dicono di essere malnutriti, picchiati e presi a calci dalle guardie. Molti non hanno biancheria intima, né stivali.


    Un dispaccio dell'Associated Press (Londra, 27.08.46), più di sedici mesi dalla fine della guerra, affermava: nell'estate del 1946 un sempre maggior numero di prigio*nieri di guerra fuggiva dai campi di concen*tramento britannici, spesso con l'aiuto di civili inglesi. La polizia militare dava loro la caccia con un accanimento tale che ricordava gli inseguimenti ai neri fuggitivi delle pianta*gioni di cotone prima della guerra civile americana.






    CIVILI, DONNE E BAMBINI MITRAGLIATI


    Decine di migliaia di persone del Centro Europa, sfollati dalla guerra, che cadevano in mani britanniche, venivano trattate anche peggio nella Yoguslavia e nell’Austria controllate dagli Inglesi.


    In quei luoghi, la Gran Bretagna e l'NKVD sovietico, gestivano congiuntamen*te i campi di concentramento.


    L'NKVD, precursore del malvagio KGB, veniva invitato ad aiutare i britannici a cattu*rare, deportare e sterminare le loro vittime.


    Un ufficiale britannico descrisse come i prigionieri (civili) venivano trattati rudemen*te ma non brutalmente: venivano spinti e strattonati ma non c'era resistenza, niente lotte o tentativi di fuga. Erano completamen*te docili e rassegnati al loro destino. I solda*ti li radunavano rapidamente in gruppi, por*tandoli in luoghi dove poi venivano massa*crati a colpi di mitra.


    L'ufficiale inglese aggiunse: molti di loro non andarono molto lontano. Dietro alla sta*zione c'era un bosco nel quale venivano fatti entrare e, di lì a poco, si udiva il crepitio dei mitra. Non vidi personalmente le esecuzioni ma sono certo che è quello che avvenne in diversi angoli di quel bosco.


    Questo è uno dei tanti tipici racconti di quando, unità britanniche cooperando con ufficiali dell'NKVD dell'Armata Rossa, davano la caccia e sterminavano decine di migliaia di rifugiati civili cosacchi, inclusi bambini, in Austria nell'estate del 1945, dopo la fine della guerra.














    UN CONVOGLIO FERROVIARIO BRITANNICO COSPARSO DI SANGUE


    Decine di migliaia di persone di molte nazionalità furono catturate e rinchiuse come bestiame per essere portati nei campi di ster*minio dell'Armata Rossa.


    Un racconto descrive come tutto il treno era sporco di sangue. Erano carrozze aperte e ricordo le chiazze di sangue dove i corpi venivano trascinati, nei corridori, tra i sedili, fin giù dagli scalini. I Bagli erano completa*mente ricoperti di sangue.


    Una pattuglia composta da due ufficiali dell'Armata Rossa e 4 soldati britannici andarono a cavallo nelle colline, l'8 Giugno 1945. Catturarono un gruppo di persone su di un pendio. I Cosacchi fuggirono in discesa lasciandone indietro alcuni, per lo più donne e bambini, troppo deboli per correre. Un sol*dato individuò un cosacco a distanza, puntò il fucile su di lui, sparò e lo vidi cadere. Siccome non fu visto rialzarsi, si pensò fosse morto.


    Il Capitano Duncàn MacMillan ricorda: vicino ad una piccola stazione c'era un recin*to con filo spinato. Vidi i cosacchi venire sca*ricati dai vagoni che venivano derubati di ogni minimo avere, perfino del cibo, prima di essere portati via.


    Molti soldati inglesi testimoniarono di aver udito diverse scariche di mitra nelle vicinanze dopo che i prigionieri furono allontanati.


    James Davidson disse: pensammo che quei colpi significavano la loro fine e che erano stati portati laggiù per essere sterminati.


    Questi terribili racconti furono descritti nel libro di Nicholas Bermeli THE LAST SECRET (L'Ultimo Segreto), pubblicato da FUTURA (Londra) nel 1974.


    L'apparato giudiziario inglese soppresse ulteriori racconti.






    SCHIAVITÙ' DEL XX° SECOLO


    Nell'Agosto del 1946, secondo la Croce Rossa Internazionale, l'Inghilterra aveva 460.000 prigionieri tedeschi in stato di schia*vitù. Ciò contravveniva all'Ari. 75 della Convenzione di Ginevra, che vietava la schiavizzazione dei prigionieri di guerra e della quale la Gran Bretagna era firmataria,


    Arthur Veysey del Chicago Tribune, in data 28.05.46, affermò: quando i prigionieri di guerra tedeschi al loro arrivo nei porti inglesi e tedeschi seppero che avrebbero dovuto lavorare come schiavi a tempo inde*terminato, diventarono tutti cupi.






    APPROFITTANDO DEGLI SCHIAVI TEDESCHI


    Arthur Veysey, inorridito dall'abuso dei diritti umani da parte del governo britannico e dall'illegalità delle politiche schiavistiche praticate in violazione della Convenzione di Ginevra, disse: il governo inglese guadagna oltre 250 milioni di dollari all'anno dai suoi schiavi.


    Il Governo, che si autodefinisce il "pro*prietario" dei prigionieri, affitta gli uomini a datori di lavoro bisognosi di mano d'opera, addebitando loro da 15 a 20 Dollari a setti*mana per ogni schiavo e pagando gli schiavi da 10 a 20 centesimi al giorno.


    I prigionieri però non vengono mai paga*ti in moneta ma sotto forma di " buoni "










    L’UNIONE SOVIETICA SEGUE L'E*SEMPIO SCHIAVISTA INGLESE


    Quando gli americani tentarono di preve*nire che Stalin prelevasse 5 milioni di tede*schi, molti dei quali civili, inclusi bambini, come lavoratori schiavi, dopo la sconfitta della Germania, i sovietici si fecero avanti. Essi esibirono un proclama firmato dal Gen. Dwight Eisenhower un anno prima il quale dava ai sovietici completa libertà di fare ciò che volevano con i prigionieri tedeschi.


    Ciò includeva la deportazione e la messa in schiavitù, saccheggiare e distruggere senza remore.


    Essi ricordarono al governo americano che avevano gli stessi diritti di fare ciò che questi stava già facendo. Storie di testimonioculari raccontano di quando Berlino s Breslau si arresero: la lunga colonna grigio*verde di prigionieri era in marcia verso Est, dove sarebbero poi finiti in tremende e gigantesche costruzioni vicino a Leningrado, Mosca, Minsk, Stalingrado, Kiev, Kharkov e Sebastopoli.


    Tutti gli uomini sani dovevano marciare per 22 km al giorno. Quelli fisicamente han*dicappati erano su carretti trascinati da altre persone.


    Questo fu raccontato nel Congressional Record il 29.03.46






    MORTE PER FAME DEI PRIGIO*NIERI DI GUERRA IN FRANCIA


    Nell'Agosto 1946 la Francia, secondo la Croce Rossa Internazionale, aveva schiaviz*zato circa 750.000 soldati tedeschi. Di questi 475.000 erano stati catturati dagli americani, i quali "in una trattativa" li avevano trasferiti ai francesi con lo specifico obiettivo di lavo*ro forzato.


    In modo macabro i francesi restituirono 2.474 prigionieri di guerra tedeschi lamen*tandosi che erano troppo gracili (Fonte: John Thompson, Chicago Tribune Press Service, Ginevra, 24.08.46


    Questi dovevano essere proprio messi male, poiché i rimanenti 472.526 erano già stati descritti dai corrispondenti della stampa come un esercito di straccioni, pallidi e magri, vestiti di cenci infestati dai vermi.


    Nessuno di loro era adatto a lavorare. Tre quarti di essi veniva appositamente sottoali*mentato.


    Di questo sventurato "esercito" di schia*vi, il 19% fu maltrattato così tanto che ebbe bisogno del ricovero in ospedale (Fonte: Gruesome Harvest, R.F. Keeling, Institute of American Economics, Chicago 1947).


    Nel famigerato campo del distretto della Sarthe, 20.000 prigionieri ricevevano solo 900 calorie al giorno. Ne morivano 12 al giorno in ospedale. Da 4 a 5.000 non erano più idonei al lavoro.


    Arrivarono altri treni con nuovi prigio*nieri, molti di loro morirono nel viaggio, altri tentarono di sopravvivere mangiando il car*bone che trovavano sul treno merci che li aveva trasportati (Fonte: Louis Clair, The Progressive, 14.01.46).


    Il 05.12.46 il Governo Americano richie*se il rimpatrio (entro il 1° Ottobre 1947) in Germania di 674.000 prigionieri di guerra tedeschi che erano stati "dati" al Belgio, alla Francia, all'Olanda e al Lussemburgo.


    La Francia si dichiarò favorevole in linea di principio ma non per la data prestabilita.


    I francesi fecero presente che, il Memorandum del 1° Dicembre 1945 dichia*rava chiaramente che i prigionieri tedeschi trasferiti ai francesi dal governo americano erano beni mobili da essere usati a tempo indefinito come lavoro forzato (Fonte: Gruesome Harvest, R.F. Keeling, Institute of American Economics, Chicago 1947)










    L'ESERCITO AMERICANO STER*MINO' PRIGIONIERI DI GUERRA TEDESCHI


    Le forze annate tedesche hanno sempre rispettato le convenzioni e le leggi di guerra alla lettera.


    Parlando per se stesso e per altri coman*danti militari alletai, il Maggiore Generale Robert W. Grow, Comandante della Sesta Divisione Corazzata Americana in Europa, ammise che non ci fu un problema di atrocità tedesche.


    Ero in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale in qualità di comandante di una divisione corazzata durante la campagna europea, dalla Normandia alla Sassonia. La mia divisione perse un discreto numero di ufficiali e soldati, catturati fra il Luglio del 1944 e l'Aprile del 1945. Non ho mai sentito dire dal personale della nostra divisione che avessero ricevuto un trattamento diverso dalle norme che regolano la guerra terrestre. Per quel che riguarda la Sesta Divisione Corazzata, nei suoi 280 giorni di scontri in prima linea, non vi furono problemi di atro*cità. Francamente rimasi atterrito, così come molti dei miei colleghi, quando apprendem*mo dei processi per "crimini di guerra" ed il fatto che comandanti militari erano fra gli accusati. So che nessun ufficiale superiore può averli approvati. (Fonte: Doenitz at Nueremberg: a re-appraisal, H.K. Thompson/Henry Strutz, Amber Publishing Corp., N.Y. 1976)


    Nonostante l'osservanza tedesca delle Convenzioni, la reazione delle forze ameri*cane fu spesso sommaria e brutale tanto, quanto quella praticata dai loro alleati sovie*tici. Solo nel caso di cattura di gruppi nume*rosi di prigionieri, questi venivano fatti schiavi.


    Se catturati in piccoli gruppi, la politica dell'esercito americano era quella di uccider*li sul posto.


    E' incorso uno studio specifico mirante alla stesura di prove di tali atrocità, per il cui contributo, l'autore, Michael Walsh, ringra*zia.


    Un altro caso fu quello dello sterminio a sangue freddo di circa 700 soldati della Ottava Divisione Alpina di SS. Questi solda*ti che si erano battuti con onore e distinzione, avevano, in un primo tempo, catturato un ospedale da campo americano.


    Sebbene i soldati tedeschi si erano com*portati correttamente, essi furono, dopo esse*re stati successivamente catturati a loro volta dall'esercito americano, separati e fucilati in gruppi da plotoni di militari americani.






    L'ESERCITO AMERICANO TRA*SFORMA LA TRANQUILLA DACHAU IN UN MATTATOIO


    Un simile destino toccò ai fanti della Brigata SS "Westfalia" che vennero catturati dalla Terza Divisione Corazzata americana. La maggior parte dei prigionieri tedeschi venne uccisa con un colpo alla nuca.


    Gli americani esultanti dissero alla gente del posto di lasciare i loro corpi nelle strade come monito e minacciavano altre vendette. I corpi restarono nelle strade per cinque gior*ni prima che gli occupanti ne permisero la sepoltura.


    Dopo la guerra le autorità tedesche tenta*rono, inutilmente, di perseguire penalmente i responsabili militari americani (Fonte: Daily Mail, London, 1° Maggio 1995).


    Ironicamente, alla fine delle ricerche post-belliche, è stato scoperto che le sole atrocità commesse a Dachau furono quelle dei vittoriosi alleati.


    Altrettanto ironico è il fatto che Dachau fu un campo di concentramento alleato per un periodo (11 anni) più lungo di quando era gestito dai tedeschi. Laggiù trecento sentinel*le delle SS furono rapidamente neutralizzate su ordine del Gen. Dwight Eisenhower.


    Il termine "neutralizzate" è un termine politicamente (o vigliaccamente) corretto per dire che i prigionieri di guerra furono stermi*nati in gruppo a colpi di mitra.


    Racconti di omicidi di massa di prigio*nieri di guerra tedeschi a Dachau sono stati descritti in almeno due libri: " The Day of The Americans " di Nerin Gun, Fleet Publishing Company di New York e " Deliverance Day-The Lost Hours at Dachau " di Michael Selzer, Lippincot, Philadelphia.


    Questi libri spiegano come i prigionieri tedeschi venivano radunati in gruppi, messi contro il muro e sistematicamente fucilati da soldati americani, alcuni di essi ancora con le mani alzate in segno di resa.


    Gli americani calpestavano disinvolta*mente i corpi a terra ancora palpitanti, elimi*nando i feriti.


    Mentre ciò accadeva, fotografi americani prendevano delle foto dei massacri. A Dachau, che si trovava nella zona di control*lo americano in Germania, truppe d'interven*to americane e polacche tentarono di far sali*re sul treno con la forza un gruppo di prigio*nieri russi dell'Armata di Vlasov che si rifiu*tavano di essere rimpatriati in Unione Sovietica.










    SUICIDI MASSA


    Tutti questi uomini si rifiutavano di sali*re sul treno, scrisse Robert Murphy nel suo rapporto circa l'incidente. Implorarono di essere fucilati. Resistettero al tentativo di essere messi nei vagoni, togliendosi gli abiti di dosso e rifiutandosi di lasciare le loro baracche. I gas lacrimogeni li obbligarono a uscire dagli edifici nella neve dove, diversi caddero in un lago di sangue dopo essersi tagliati le vene o essersi accoltellati.


    Nove si impiccarono, due si accoltellaro*no a morte e uno morì subito dopo, mentre altri 20 erano in ospedale a causa delle ferite auto-inflittesi.


    Sul treno furono fatti salire, alla fine, 368 uomini (Fonte: Dougla Botting, "In The Ruins of thè Reich", Gorge Allen & Unwin, London).


    L'ultima operazione di questo genere in Germania avvenne a Plattling, vicino a Regensburg, dove 15 uomini dell'Armata russa di Vlasov erano stati internati dagli americani. Nelle prime ore del 24.02.46 essi furono spinti fuori dalle loro baracche anco*ra semi-svestiti e furono consegnati ai russi nella foresta vicino al confine fra Baviera e Cecoslovacchia.


    Prima che il treno partisse per il viaggio di ritorno, le guardie americane rimasero inorridite nel vedere i corpi degli uomini dell'Armata di Vlasov che erano già stati impiccati agli alberi e quando fecero ritorno a Plattling perfino le SS prigioniere nel vicino campo li schernivano per ciò che avevano fatto (Fonte: Dougla Botting, " In The Ruins of The Reich ", Gorge Allen & Unwin, London).


    Secondo il quoti*diano canadese Toronto Daily Star del 09.03.68 membri di un gruppo armato israeliano ille*gale, al quale fu data mano libera di stermi*nare i tedeschi, ammi*sero che oltre 1.000 ufficiali nazisti delle SS morirono in seguito ad ingestione di pane impregnato di arsenico, introdotto il 13.04.46 in un campo americano di prigionieri di guer*ra vicino a Norimberga.


    Dopo la vittoria americana (la battaglia del ponte di Remagen sul Reno) i tedeschi in Renania si arresero in massa. Tra l'Aprile ed il Luglio 1945, 260.000 prigionieri di guerra furono tenuti prigionieri dagli americani in campi melmosi fra Remagen e Sinzig. Erano tenuti all'aperto e la loro razione giornaliera era una patata, un biscotto, un cucchiaio di verdura e un po' d'acqua.


    In seguito a varie malattie, almeno 1.200 morirono, secondo gli archivi tedeschi (Fonte: Roger Boyes, The Times, 07.03.95).






    SCHIAVI TEDESCHI TRATTENUTI NEI PAESI ALLEATI


    Stati Uniti 140.000; Francia 680.000; Belgio 48.000; Gran Bretagna 460.000; Unione Sovietica 4.000.000 (ma se ne stima*no almeno 5 milioni); Italia 30.000; Olanda 1.300; Yugoslavia 80.000;


    Cecoslovacchia 45.000; Lussemburgo 4.000.










    UN BRUTTO PRECEDENTE


    La Croce Rossa Internazionale, indigna*ta, opinava: gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna, ad un anno dalla fine degli eventi bellici, stano violando gli accordi della Croce Rossa Internazionale, da questi firmati nel 1929. Sebbene migliaia di ex sol*dati tedeschi vengano utilizzati in lavori peri*colosi come sminare campi e coste, abbatte*re edifici semi-distrutti, la Convenzione di Ginevra proibisce espressamente di usare prigionieri " in qualsiasi tipo di lavoro rischioso o nel trasporto di materiali bellici ".


    Henry Wales, a Ginevra, il 13.04.46 aggiunse: il baratto dei soldati nemici cattu*rati dai vincitori, riporta il mondo indietro nei tempi bui in cui i baroni feudali depreda*vano i tenitori dei ducati vicini e ricostituire le loro mandrie di bestiame umano.


    E' un sistema iniquo ed un pessimo pre*cedente perché si apre ad ogni tipo di abuso con la difficoltà di stabilirne le responsabi*lità. E' palesemente ingiusto venderli per ragioni politiche come lo furono i neri africa*ni un secolo fa.






    IL TRATTAMENTO TEDESCO DEI PRIGIONIERI DI GUERRA FU DI GRAN LUNGA PIÙ' UMANO


    Al contrario, le forze armate tedesche si comportarono impeccabilmente verso i loro


    prigionieri di guerra.


    La cosa più sbalorditiva circa le atrocità di questa guerra è che ce ne sono state molto poche. Mi sono imbattuto in pochissime denunce secondo le quali i tedeschi non ave*vano trattato i prigionieri secondo le regole o rispettato quelle della Croce Rossa.


    Ciò fu riportato dal giornale THE PRO*GRESSIVE il 04.02.45


    Allan Wood, corrispondente del London Express concordò:! tedeschi, anche nei loro peggiori momenti, rispettarono le convenzio*ni nei loro molteplici aspetti. Vero è che ci furono atrocità sulle linee dei fronti, luoghi caldi, dove gli animi si surriscaldano, ma erano incidenti e non pratiche comuni, così come la malgestione dei campi di prigionia era cosa inusuale.


    Ciò fu confermato anche dal Tenente Newton L. Marguiles.


    Il Giudice Assistente americano, Aw.to Jefferson Barracks, il 27.04.45 disse: è vero che il Reich pretese lavori forzati dai lavora*tori stranieri, ma è altrettanto vero che veni*vano tutti retribuiti e ben rifocillati.


    Penso che alcune persone si siano trova*te meglio in questa situazione di quanto lo fossero state nella loro vita, aggiunse il Dr. James K. Pollack del Governo Militare Alleato.


    Cosa fecero i tedeschi per ottenere una produzione efficiente dal lavoro forzato che noi non riuscimmo ad ottenere dai tedeschi che lavoravano giù nelle miniere? Semplice! Li nutrivano, e li nutrivano bene! Disse Max H. Forester, Capo della Divisione Mineraria e Carbonifera della AMO nel Luglio 1946






    ARRIVERÀ' LA NEMESI ?


    Chiesto quali erano le possibilità di por*tare davanti alla giustizia coloro che commi*sero tali crimini, Michael Walsh disse che la sola cosa che divideva i responsabili sadici alleati e la corda saponata era la volontà di processarli. Il precedente sulla giustizia retroattiva è già un dato di fatto. Il suo falli*mento è che la giustizia sui crimini di guerra è selettiva e quindi applicabile solo ai vinti, sotto l'egida di discutibili procedure legali internazionalmente criticate.


    Ciò di cui c'è bisogno è di risvegliare la pubblica coscienza, dando spazio anche a coloro la cui parola tende ad essere censurata.


    Michael Walsh ha inoltre aggiunto che gli interessi della giustizia devono venire prima dell'orgoglio nazionale, prima dell'e*spediente politico e prima della colpa milita*re.

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    Lager tedeschi e ‘alleati’ a confronto

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    | Mercoledì 26 Luglio 2006 - 146 | Francesco Fatica |

    Mi è stato regalato un libro in cui è riportato il diario di un marinaio italiano arresosi ai tedeschi, assieme ai suoi commilitoni, in Grecia, il 9 settembre 1943, e deportato in Germania.
    L’autore, giovandosi di una veste tipografica elegante, si dilunga per oltre trecento pagine a lamentare il freddo e le deficienze del vitto.
    E’ stata una lettura utile, che ho voluto continuare fino alla fine e che mi ha fatto tornare alla mente altri campi di prigionia di cui nessuno parla perché la discriminazione manichea imposta dal regime vigente asservito pecorescamente alla Sinarchia Universale, non consente ancora l’emergere della Verità.
    Dunque, il povero giovane marinaio, abbandonato da Badoglio e dal re al suo destino, era alloggiato in uno di quei ”famigerati lager” attrezzato però con baracche prefabbricate in cemento armato, corredate di normali finestre, regolarmente munite di vetri e imposte. Le camerate erano arredate con brande e con stipetti ordinatamente assegnati ad ogni ospite. Tutte le baracche erano riscaldate da stufe a carbone per cui l’autore però lamentava che fossero forniti ”solo 5 kg di carbone al giorno”, trascurando di considerare le restrizioni di guerra a cui era sottoposto tutto il popolo tedesco.
    A questo punto vorrei esplorare i campi di prigionia “alleati” per constatare che nessuno di coloro che ebbero la ventura di esservi ristretti ha mai lamentato la deficienza del carbone per il riscaldamento, infatti semplicemente non c’erano né le stufe, né ovviamente, altro sistema di riscaldamento. Il solito benpensante potrebbe argomentare che in Italia non c’era bisogno di stufe, ma spesso non c’erano neanche le baracche e quando c’erano le tende, non si poteva stare in piedi e se pioveva non si poteva stare neanche sdraiati perché anche l’interno della tenda si allagava e quindi si era costretti a passare la notte in piedi sotto la pioggia. Ma non sempre c’erano neppure le tende e i prigionieri si arrangiavano con qualche pezzo di cartone, o paglia, se riuscivano ad avere il privilegio di trovarne.
    Qualche rara volta potevano capitare delle baracche semisconnesse di lamiera, gelide d’inverno ed infuocate d’estate, come nel campo di smistamento di Torrette di Ancona.
    Ma accadde pure che qualche volta si utilizzassero strutture industriali dismesse, come avvenne per il “R. Civilian Internee Camp” di Collescipoli (Terni), o anche si utilizzò addirittura una certosa abbandonata, come avvenne per la certosa di Padula in provincia di Salerno ( 371 PW camp di Padula.)
    Il nostro ex marinaio insoddisfatto lamenta pure che il vitto era da fame, ma in quel periodo anche i civili tedeschi non avevano da scialare e ciononostante accadeva pure che qualcuno gli offrisse qualche fettina di pane e margarina. A tal proposito vorrei raccontare cosa forniva all’epoca l’amministrazione carceraria “badogliana” del carcere di “Poggioreale” a Napoli. Tutti i giorni, dal 1944 al luglio del 1946, data in cui potei usufruire dell’amnistia, veniva distribuito una sola volta al giorno, un mestolo di “minestra”, costituita invariabilmente, dalla famigerata polvere di piselli senza condimento alcuno, cotta molto male perché la caldaia era un mezzo fusto di benzina con spigoli vivi in cui si raggrumava la polvere di piselli la quale acquistava pertanto un sapore di bruciaticcio aspro che infiammava irreparabilmente la gola e l’esofago e, nonostante la fame nera, non si riusciva a mandare giù. Si poteva, è vero, pescare alcuni torsoli di cavolo. Ma i torsoli di cavolo erano di consistenza legnosa e accuratamente mondati dalle foglie per cui si doveva cercare di rosicchiare qualche resto di peduncolo rimasto attaccato per sbaglio al torsolo. Tutti i giorni così, ineluttabilmente. Veniva distribuito anche un panino di scarsi cento grammi, che poi divenne truffaldinamente bianchissimo, ma peggiorò perché senza sapore e senza sostanza, tanto che non riuscire a capire che miscela di farine americane si era usata per infornarlo; forse la farina di frumento non c’era per niente e si rimpiangeva il minuscolo panino nero.
    Cosa si mangiava nei famigerati lager tedeschi? Secondo la testimonianza del marinaio deportato veniva distribuito una volta al giorno “un mestolo di minestra costituita da patate, rape, barbabietole e verdure”, più “un quartino di pane” e “un pezzettino di margarina”, che poteva essere sostituito di tanto in tanto da “due fettine di salame” o anche da “due cucchiai di marmellata” a cui venivano aggiunti a Natale, Capodanno, Pasqua e in qualche altra più rara occasione la pasta e addirittura “due cucchiai di budino”.
    Cosa si mangiava nei lager “alleati”? Molto di meno e molto peggio: gli inglesi non si vergognarono di infierire fino al punto di alimentare i civili italiani reclusi nel campo di Padula, perché fascisti o ritenuti tali, nei primi tempi esclusivamente con ghiande; si, avete letto bene: esclusivamente con ghiande. Poi, col passare del tempo, il vitto fu meno bestiale, ma sempre scarso ed insufficiente, al punto che, quando furono tagliati degli ulivi, molti reclusi si lanciarono a divorare le olive di quei rami, nonostante fossero ancora immature ed amarissime. Nei gelidi ed umidi cameroni della certosa, i cui finestroni erano assolutamente privi di vetri e di alcun riparo, si dormiva per terra sulla paglia, in cento per ogni camerone. Gli indiani incaricati della sorveglianza si facevano strada a pedate ed a scudisciate.
    Ma il nostro connazionale deportato dai tedeschi si lamentava invece che il capo campo tedesco lo considerasse “un traditore” e lo apostrofasse talvolta con voce burbera. Cattivone!
    La principessa Pignatelli, ci ha testimoniato l’episodio allucinante della prigioniera Nicoletta de Terlizzi, uccisa nel campo di Collescipoli, sotto gli occhi delle sue compagne allibite soltanto perché si era sdegnosamente rifiutata di andare a ballare con un soldato inglese. Nello stesso campo venivano inflitte inumane umiliazioni ai prigionieri maschi: Ha scritto ancora la principessa “Ricordate Terni, ove per punizione un colonnello polacco amico degli inglesi e che si era costruito un campo ostacoli per cavalcare, si divertiva con una lunga frusta da maneggio a far correre ai ragazzi italiani gli stessi ostacoli dei suoi cavalli”. (Lettera che la principessa scrisse verso la fine del 1949 a David Rousset,)
    Nel campo di Coltano, (PWE 336 e 337 nella tenuta dell’O.N.C. di Coltano) tenuto dagli americani, a guerra ormai finita, un caporale americano, riveritissimo capo campo, entrava con lo scudiscio di nervo di bue e non si peritava di schiaffeggiare qualche malcapitato prigioniero ex combattente della Rsi e in qualche caso usava pesantemente e senza misericordia anche lo scudiscio. (Mariano Dal Dosso, Quelli di Coltano, Editore Giachini, Milano, terza edizione, 1950.)
    Il vitto era assolutamente insufficiente e i prigionieri, quando potevano si arrangiavano con i rifiuti della cucina.(bucce di patate e quanto altro) Niente baracche, ma solo piccole tende canadesi, che si dovevano obbligatoriamente smontare di giorno. Tende anche nel campo PWE 339 di S. Rossore . Nel campo di punizione PWE 335 di Metato, sempre in Toscana, al posto delle tende vi erano delle gabbie senza altra copertura che il filo spinato, addirittura peggio delle tristemente famose gabbie per i prigionieri afghani a Guantanamo, che almeno hanno un tettuccio di lamiera. In una di quelle gabbie fu rinchiuso Ezra Pound.
    Ma i lager tedeschi hanno goduto e continuano dopo sessant’anni persistentemente a godere una pessima fama; si è detto che ebrei e partigiani fossero addirittura gasati. Eppure in un impianto del genere furono fatti passare anche il nostro giovane marinaio e tutti gli altri suoi commilitoni, e ne uscirono vivi e disinfestati dai parassiti assieme agli indumenti ed ai rispettivi zaini. Non ho svolto degli studi particolari sull’argomento, tuttavia ho avuto occasione di leggere qualche pubblicazione e mi sono fatta una mia opinione sugli errori grossolani commessi da chi ha sostenuto la colpevolezza dei tedeschi, ma non voglio, né potrei addentrarmi in una discussione che comporterebbe dissertazioni tecniche, formule chimiche e calcoli piuttosto ostici. ( Franco Deana, Studi revisionistici, Graphos, Genova, 2002) Mi limiterò a considerare che se effettivamente si volevano eliminare degli oppositori, sarebbe stato un imperdonabile spreco, oltre tutto controproducente alloggiarli in baracche accoglienti, sarebbe bastato usare i metodi “alleati” culminati nell’organizzazione di sterminio preordinata e fortemente voluta dal comandante in capo dell’esercito americano Dwigt Eishenower detto Ike, che fece rinchiudere gli ex combattenti tedeschi in enormi campi di sterminio in Germania, dove si dormiva sulla nuda terra, esposti al gelo e per ripararsi in qualche modo si scavava una tana nel terreno, ma venivano nottetempo azionate le ruspe che ripianavano la superficie del campo: settecentomila morti di stenti e di malattie; duecentomila nei campi gestiti dai francesi. Naturalmente era proibito a chiunque portare aiuto ai prigionieri, o anche soltanto avvicinarsi al campo La guerra, si diceva infatti, era finita; gli uomini erano stati liberati dalla schiavitù…ecc. ecc.
    Ma allora che bisogno avevano i tedeschi cattivi e feroci, di alloggiare i prigionieri in accoglienti baracche, pure riscaldate e di fornire loro un vitto passabile, compatibilmente con le deficienze dei tempi?
    Ike ci ha insegnato molte cose; dobbiamo riconoscere che quando ci si metteva era veramente bravo. E infatti la Sinarchia Universale lo volle Presidente degli Stai Uniti d’America.
    Francesco Fatica

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    L'assassinio dei nazionalsocialisti da parte dei "Vendicatori"

    Da Indro Montanelli a Israel Carmi

    Prodezze della Brigata Ebraica

    Tremila assassinii

    Dal sottosuolo: l'assassinio di Jochen Peiper







    La stanza di MONANELLI

    Gli ebrei e i falsi «squadroni della morte»

    «Caro Montanelli,

    Le scrivo di nuovo confidando in una sua risposta. Sono qui a chiederle un'informazione storica. Sto scrivendo un libro su un fatto che ho letto di sfuggita su di un quotidiano un po' di tempo fa e di cui mi è rimasto impresso solo il contenuto e non la fonte. Si parlava di una specie di «squadroni della morte», composti da ebrei, anche sopravvissuti ai campi di sterminio, che, all'indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, avrebbero cominciato a dare la caccia ai criminali nazisti uccidendoli e uccidendo anche le loro famiglie. Potrebbe davvero avere un fondamento di verità questa notizia? Lei, come storico, ne ha mai sentito parlare?»

    Federico Franceschini, Pavia




    «Caro Federico,

    non ricordo di aver ricevuto una tua lettera su questo argomento: si vede che non superò il filtro a cui purtroppo debbo sottoporre la corrispondenza della «stanza», essendo umanamente impossibile che io legga tutta quella che mi arriva, in media dalle 130 alle 180 lettere al giorno. Dato l'argomento, ti avrei certamente risposto per metterti in guardia dalle «patacche» che ogni tanto, anzi ogni poco Pantisemitismo mette in circolazione. La più celebre, e la più smaccata, furono i «Protocolli del Savi di Sion» che trovarono seguito e credito sulla fine del secolo scorso, nonostante la rozzezza della confezione. A inventarseli era stata infatti la polizia più brutale e sgrammaticata di allora: l'Okrana del governo zarista russo. Essa pretendeva dimostrare l'esistenza di un complotto fra i più potenti capi delle comunità ebraiche sparse nei Paesi occidentali per fomentarvi rivoluzioni e guerre fratricide. Se vuoi saperne di più, leggi l'esemplare saggio di Sergio Romano, «I falsi protocolli», che ne ha ricostruito la storia, per dimostrarne non tanto l'infondatezza, che traspare ad occhio nudo, quanto l'ignoranza e l'ottusità di coloro che le dettero credito o finsero di darglielo. Gli «squadroni della morte» appartengono allo stesso genere di panzane, anche se hanno trovato molto meno credito e seguito. Di vero c'è soltanto questo: che alcuni ebrei miracolosamente scampati ad Auschwitz dopo avervi perso l'intera famiglia hanno consacrato la loro vita alla ricerca dei responsabili per portarli sul banco degli imputati. Il caso più noto è quello di Wiesenthal che, dopo averlo scoperto in Argen.tina, riuscì (non si è mai saputo come) a trasferire il supercriminale Eichmann in Israele, dove fu regolarmente processato e impiccato. Questo è l'unico «squadrone della morte», composto da un solo uomo, di cui si. sia avuta notizia. Il resto appartiene alla grossolana fantasia degli antisemiti e alla cretineria di chi ci crede, anche se si basa su un elemento di ordine - diciamo - biblico: il culto ebraico del Castigo. A differenza del Dio nostro indulgente e perdonatore, il Dio degli ebrei è Jehova, il Dio giustiziere, quale poi fu mutuato dai protestanti, e specialmente dai calvinisti, il Dio dell'«occhio per occhio» e «dente per dente». Ma lasciamo questo discorso che ci porterebbe troppo lontano, alle origini delle tre grandi religioni monoteistiche, compresa quella islamica, tutte di fonte e ispirazione ebraiche. E torniamo alla bufala degli squadroni. Credi a me, caro Federico: l'antisemitismo è una delle cose più nefande che le società cristiane abbiano inventato. Non fartene mai complice prestando credito alle fandonie di cui è intessuto. Uno dei miei rimorsi è di non aver fatto nulla, quando furono emanate le leggi razziali, in favore degli ebrei. In realtà non ne avevo i mezzi: nessun giornale avrebbe pubblicato un mio rigo in loro difesa. Dovetti contentarmi di non scriverne, contro gli ordini del Minculpop, a loro accusa. Ma ciò che leggevo mi faceva, come italiano, arrossire di vergogna. Dio ti risparmi queste umiliazioni.»




    Ad una lettera al massimo quotidiano italiano, il Corriere della Sera, con la quale il lettore Federico Franceschini chiede a Indro Montanelli di essere illuminato sul caso dei «Vendicatori ebraici», presente da due anni su giornali e periodici in tutto il mondo, il Principe dei Giornalisti risponde il 6 giugno 2000. Invitiamo i lettori a confrontare quanto affermato da Montanelli con le notizie che seguono.

    Nove anni prima dell'«esplosione» del caso su tutte le gazzette, il 28 settembre 1989 appare, a pagina 17 del quotidiano Canadian Jewish News, supplemento per il capodanno giudaico Rosh Hashanah, un articolo dello storico israeliano Benny Morris dal titolo Jewish Avengers executed the Nazis, «Vendicatori ebraici giustiziarono i nazisti». Si tratta di un'intervista con Israel Carmi, capo di uno di quei gruppi di «vendicatori», che rievoca una delle pagine meno conosciute del conflitto mondiale.

    Oltre a questa prima ammissione pubblica (ma già nel 1966 il buon Carmi aveva pubblicato a Tel Aviv il volume «La via dei combattenti»), era stato fino ad allora solo il libro di Michael Bar Zohar dal titolo The Avengers (l'edizione da noi consultata è la francese Les vengeurs, del 1968), edito un ventennio prima, ad avere illustrato l'attività di terroristi ebrei nella Germania occupata e in altre zone dell'Europa dilacerata postbellica. Successivi articoli, e l'opera di Morris Beckman, confermeranno quelle prime «indiscrezioni». Quegli «atti di giustizia» (il cosiddetto Piano C o Tre) sono stati in realtà semplici, sbrigative esecuzioni senza processo, assassinii privi di ogni parvenza legale, specchio e contraltare, con minore ipocrisia, delle sentenze espresse dalle varie Norimberghe contro centinaia di migliaia di incriminati per delitti «contro l'umanità» o, semplicemente, per «nazismo».

    Nei paesi civili, legati al dettato della legge, quella «giustizia» non può che chiamarsi assassinio, ma gli scrittori ebrei, i politicanti occidentali e gli attivisti dei Sacrosanti Diritti - tutti quei garantisti che senza posa alzano lai contro i crimini, veri e soprattutto presunti, compiuti nei secoli contro gli ebrei - non si péritano di definire «giustizia» i delitti compiuti da bande ebraiche, assassinii e prevaricazioni tuttora misconosciuti e in ogni caso, quand'anche ammessi, giustificati mediante una «ovvia» comprensione. I protagonisti attivi, gli attori principali di quegli assassinii furono i militari inquadrati nel Jewish Jnfantry Brigade Group o, per dirla in breve, Jewish Brigade dell'Ottava Armata, che aveva risalito la penisola italiana al seguito degli inglesi, sul fianco orientale.

    La prima pubblica affermazione dell'interventismo bellico da parte ebraica viene fatta al 25° congresso sionista a Ginevra a metà dell'agosto 1939, quindi ben due settimane prima dello scoppio della crisi tedesco-polacca, da Chaim Weizmann, capo della World Zionist Organization e futuro primo presidente di Israele: gli ebrei sono pronti, egli annuncia chiaramente, a collaborare con l'Inghilterra «in difesa della democrazia nella guerra mondiale che si approssima». Il 29 agosto, tre giorni prima che i tedeschi scendano in campo a frenare la follia polacca e cinque avanti l'aggressione anglo-francese, lo stesso assicura il governo inglese che ogni ebreo, ovunque si trovi, nell'imminente conflitto si schiererà al fianco delle Democrazie Occidentali.




    “La vista di un tedesco bastava a risvegliare la nostra voglia di vendetta.

    Quando un ciclista passava davanti al nostro Dodge aprivamo improvvisamente le porte,

    l'uomo cadeva sotto le ruote e veniva stritolato.”

    Sam Halevi, uno dei Vendicatori, in Der Spiegel, 23-12-1968




    “Ogni ebreo dovrebbe conservare nel profondo del suo essere una zona d'odio,

    odio sano, virile, per ciò che il tedesco incarna e che nel tedesco sopravvive.

    Agire altrimenti sarebbe tradire i morti.”

    Elie Wiesel, Legends of Our Time, 1968




    “Ma se con le loro ricerche gli storici scalfissero queste rappresentazioni manichee

    del Bene e del Male, finirebbero subito su un terreno minato

    fatto di tabù e proibizioni a pensare, ove una bizzarra coalizione di pedagoghi di massa,

    autonominatisi «giudici supremi della Storia» e modelli esemplari di political correctness,

    sorveglia, diffidente, il loro comportamento nei confronti della verità storica.

    Tale coalizione è rosa dal sospetto che la risaputa voglia di revisionare

    la storiografia ufficiale possa alla fine lasciare ben poco del quadro un tempo così bene definito

    della tirannide fascista.”

    Heinz Höhne, «Gebt mir vier Jahre Zeit», 1996




    Il 3 settembre 1939 la Jewish Agency, la potente Agenzia Ebraica fondata nel 1922 dalla World Zionist Organization per co-amministrare la Palestina, ed il Vaad Leumì, il Consiglio Nazionale degli ebrei in Palestina, aprono a Londra un ufficio di reclutamento per volontari: sui 600.000 ebrei inglesi, rispondono all'appello oltre 130.000 tra uomini e donne, dei quali 62.000 avrebbero combattuto nei vari teatri di guerra. Come avrebbe scritto in una corrispondenza Clara Boote Luce, futura ambasciatrice americana a Roma, se in America ci fosse stato un proporzionale afflusso di volontari gli USA avrebbero schierato un esercito di dodici milioni di uomini. Fenomeno comprensibile, d'altra parte, «perché, dopo tutto, molti ebrei hanno da regolare dei conti personali di sangue con i tedeschi».

    Mentre nei mesi seguenti il governo britannico arruola i volontari ebrei disperdendoli nelle file dell'esercito invece di raggrupparli in unità compatte, nel luglio 1940 Churchill, succeduto a Chamberlain fin dal 7 maggio, autorizza il reclutamento per la formazione di unità a sé stanti; viene stabilito che gli uomini siano per un terzo ebrei palestinesi e per due terzi ebrei americani o provenienti da altri paesi.

    Entro dicembre si costituiscono quindici compagnie di fanteria, cioè 1500 uomini, inquadrate nel reggimento East Kent. Loro obiettivo è la difesa del territorio palestinese in caso di bisogno. All'interno delle compagnie i comandi a voce vengono dati in inglese, gli ordini scritti in ebraico; la lingua di conversazione è l'ebraico. I capitani sono inglesi, tenenti, sottotenenti e graduati, ebrei. Segno distintivo sull'uniforme è il Magen David, la stella a sei punte. Fino al termine del 1942 i volontari restano nei campi di addestramento, mettendo a frutto una preziosa esperienza tecnico-specialistica (trasmissioni, uso di armi speciali, cooperazione con i mezzi corazzati e l'aviazione, genio, organizzazione generale, etc.) la quale, unita all'esperienza di combattimento, si sarebbe rivelata di estrema importanza nella formazione delle unità militari ebraiche prima e dopo la proclamazione dello Stato d'Israele (trentacinque saranno i generali di Zahal - Zva Haganah leIsrael, «Forze di Autodifesa di Israele», l'esercito dell'Entità Ebraica - provenienti dalla Brigata Ebraica).

    Fra il 1942 e il 1943 si apre la seconda fase: le compagnie vengono raggruppate in tre battaglioni a formare il Palestine Regiment. L'unità non riceve tuttavia l'intero equipaggiamento e viene impegnata in servizi di guardia, lontano dal fronte; quei mesi tuttavia, per quanto privi di un'effettiva operatività bellica, servono a creare un saldo spirito di corpo. Ogni militare è inoltre considerato far parte dell'Haganah (o Irgun Haganah, Organizzazione di Difesa), il corpo armato ebraico clandestino in Palestina. Naturalmente la reticenza inglese alla formazione di unità separate non significa reticenza alla partecipazione degli ebrei allo sforzo bellico: nell'agosto 1943 sono 22.600 gli ebrei in uniforme britannica (4800 in fanteria, 3300 nel genio, 4400 nei trasporti, 1900 in artiglieria, 1100 nei servizi, 2000 nella RAF, 1100 nella Royal Navy, 4000 donne nei servizi ausiliari), tra i quali 450 ufficiali e 200 medici.

    Le comunità ebraiche conducono intanto una lotta incessante per la costituzione di una Grande Unità composta interamente da ebrei, al motto, come recita un manifesto di propaganda dello Yishuv in cui una sagoma militare innalza la bandiera con la Stella di Davide e le strisce azzurre, di «Jews want to fight as Jews», (Gli ebrei vogliono combattere in quanto ebrei). Il 20 settembre 1944, nei giorni del capodanno ebraico, Londra dà il consenso alla costituzione di una «brigata rinforzata» completamente ebraica, formata dal vecchio Palestine Regiment ristrutturato, da un reggimento di artiglieria, da servizi e da unità ausiliarie. Il giorno 29, nel corso di una delle periodiche relazioni ai Comuni, Churchill dà l'annuncio: «So benissimo che c'è un gran numero di ebrei nelle nostre Forze Armate ed in quelle americane, ma mi è sembrato opportuno che una unità formata esclusivamente da soldati di questo popolo, che così indescrivibili tormenti ha subito per colpa dei nazisti, fosse presente come formazione a sé stante fra tutte le forze che si sono unite per sconfiggere la Germania». È questo il primo annuncio che faccia prevedere la costituzione di una entità statuale in grado di rivendicare un suo esercito ed un suo territorio.

    La Brigata, che riceve aiuti finanziari dall'intero giudaismo diasporico (a Pasqua 1945, la sola comunità argentina invia 100.000 sterline per l'equipaggiamento e ne stanzia 8000 per le famiglie dei caduti in azione) viene autorizzata ad usare una propria bandiera: azzurra-bianca-azzurra, con la Stella di Davide tra due bande simboleggianti il Nilo e l'Eufrate (Esodo XXIII 31 e Deuteronomio 17; più ristretta è la terra definita sul monte Nebo, Deuteronomio XXXIV 1-4), vessillo del futuro Stato d'Israele. Dal grado di maggiore in avanti, gli ufficiali sono inglesi, tuttavia sottoposti all'ebreo brigadier generale Ernest Frank Benjamin (nato nel 1900 a Toronto). Con l'immissione di distaccati da altre unità, gli effettivi dello Hayl Hativah Lohemet, «unità di combattimento ebraica», raggiungono i previsti 5000 uomini ed iniziano un periodo di addestramento in Egitto. Il 10 novembre la formazione viene trasferita in Italia, inquadrata nell'Ottava Armata, prendendo ad addestrarsi sulle montagne dell'Irpinia fino al febbraio 1945.

    L'8 febbraio Benjamin si porta a Gerusalemme, ove incontra Moshe Sharett - negli anni Trenta il principale interlocutore delle autorità britanniche in Palestina, indi primo ministro degli Esteri di Israele, capo del governo nel 1954-55, creatore della diplomazia israeliana, artefice degli accordi sulle oloriparazioni ed anzi inventore proprio del termine shilumim, «riparazioni» - deus ex machina della Jewish Agency, comunicandogli che alcuni ufficiali hanno ricevuto il battesimo del fuoco. A fine mese la Brigata viene trasferita sul fronte di Alfonsine, a nord-ovest di Ravenna, in un settore relativamente calmo.

    Il primo impegno bellico lo si ha il 19 e il 20 marzo contro i tedeschi della 4ª divisione paracadutisti. Come illustra il Fucci, ricamandoci sopra stati d'animo di comodo: «I tedeschi che, al contrario degli italiani conoscevano molto bene il significato di quella stella a sei punte, cominciarono a tremare come foglie pensando che gli ebrei si sarebbero vendicati su di loro [similmente Beckman: "Ogni sentimento antisemita svanì, quando tedeschi ed austriaci si videro di fronte giovani ben armati dal grilletto facile, sprizzanti dagli occhi odio e ribrezzo"]. Naturalmente non vi fu nessuna vendetta e i soldati nazisti finirono come tutti gli altri in un normale campo di prigionia; ma l'episodio dimostra che anche il più sempliciotto dei tedeschi non ignorava cosa il suo paese aveva fatto agli Juden».

    Subito dopo la Brigata viene trasferita sul Senio, al di là del quale il 9 aprile forma una testa di ponte. Nel maggio viene spostata tra l'Alto Adige, il Tirolo e la Carnia, ove «venute meno le necessità belliche, si occupa dell'assistenza agli ebrei sopravvissuti all'olocausto hitleriano» (e, aggiungiamo, si diletta in opere meno pie). Il 31 maggio reparti della formazione collaborano nella consegna all'URSS dei cosacchi e dei loro familiari che, dopo avere combattuto agli ordini del generale von Pannwitz, si erano arresi agli inglesi; scrive al proposito Frederic Reider: «Restano ancora le famiglie e i cosacchi dello Stan [15.000 uomini, 4000 donne e 2500 bambini], concentrati a Lienz.

    Il 31 maggio gli inglesi interrompono il rifornimento dell'acqua e quattro battaglioni circondano il campo. Le famiglie dei cosacchi si raccolgono allora al centro, attorno all'altare, per celebrare gli uffici dei morti. Mentre s'alza un canto straziante, le porte del campo si aprono per lasciar passare gli uomini della Brigata Ebraica. Infierendo all'impazzata [cognant sans discernelnent] su bambini, mutilati e donne a colpi di bastone, cercano di spingere questa massa verso la ferrovia, ove attendono carri bestiame. Poiché le cose vanno per le lunghe, alcune autoblinde aprono il fuoco a terra per colpire di rimbalzo le prime file. Morti e feriti piombano al suolo. Alcune donne coi figli in braccio si precipitano nella Drava e vengono portate via dalla corrente. Altre si gettano sui soldati per disarmarli e vengono abbattute. La resistenza degli sventurati viene infranta con estrema ferocia [avec la dernière férocité]. Nella notte il carico sui treni è completato. Sbarrati con catene, i vagoni portano i cosacchi nella zona sovietica. Solo i morti e i cavalli restano all'Ovest. I primi saranno gettati in fosse comuni. I secondi, portati in Inghilterra. Nessuno vedrà più gli ufficiali cosacchi. I militari di truppa e i civili, condannati a otto anni di lavori forzati, saranno dispersi in Siberia. Gli ufficiali tedeschi saranno tutti condannati a venticinque anni di lavori forzati. Duecento di loro morranno in prigionia. Il 16 gennaio 1947 l'ADN annuncia la sentenza e l'esecuzione per impiccagione degli atamani e degli antichi capi cosacchi della guerra civile [...] L'SS*Gruppenführer Helmuth von Pannwitz, ultimo Feldataman, subirà la stessa sorte, fedele ai suoi cosacchi fino al supplizio».

    Trasferita in Olanda ed in Belgio nella seconda metà dell'estate, la Brigata Ebraica vi resta un anno, svolgendo «il ruolo duplice di forza di occupazione» (e di cattura ed eliminazione di collaborazionisti) e, contemporaneamente, «di coordinamento e di centro assistenziale per i connazionali, di cui organizza l'avviamento verso il fòyer [focolare] millenario della nazione ebraica, in Eretz Israel».

    La carriera militare di Israel Carmi ha inizio come semplice membro dei commando terroristici antiarabi nel Deserto Occidentale (Negev) nei primi mesi del 1940. Ma, ricorda Benny Morris, «la nostra intervista si focalizzò poi su quegli eventi poco conosciuti e su cui sempre poco si è scritto, racconto di sangue e vendetta conosciuto sotto il nome di Nokinim, i Vendicatori». È infatti Israel Carmi, ammette lui stesso con agghiacciante buona coscienza, a dare inizio all'organizzazione ed a guidare, insieme a Chaim Laskov, futuro capo di Stato Maggiore israeliano, e a Meir «Zaro» Zorea quei gruppi di militari della Brigata Ebraica che segretamente identificano e trucidano centinaia di «criminali di guerra nazisti» in Italia settentrionale, Austria, Germania e Croazia negli ultimi mesi del 1945 e nei primi del 1946.

    «La campagna di vendetta» - scrive Morris - «ebbe nascita e crescita del tutto naturalmente, per Carmi e per gli altri, dopo che ebbero incontrato i sopravvissuti dell'Olocausto. Carmi dice di essere stato tra i primi ad entrare a Mauthausen e a Dachau». Come per gli altri membri dell'Haganah arruolati nella Brigata (tra i quali il «russo» Aharon Rabinowitz, poi meglio noto come Aharon Yariv e capo dei servizi di spionaggio militare israeliani), egli era già stato coinvolto nell'acquisto e nel rifornimento di armi per gli ebrei immigrati in Palestina, nonché nell'organizzazione di reti illegali di trasporto di sempre nuovi immigrati. Queste attività si saldano, del tutto naturalmente, alla vendetta da anni giurata contro tutto ciò che fosse tedesco.

    Il comando della Brigata, di stanza a Treviso, assegna Carmi ad una unità di intelligence, il cui compito è raccogliere informazioni sui crimini «nazisti» e identificare e arrestare i «nazi» che hanno ricoperto cariche di una certa importanza o fatto parte delle organizzazioni di polizia. Il nostro Israel, all'epoca sergente maggiore, insieme ad un altro militare, Dov Gur nato Robert Grossman lavora presto in autonomia, con il massimo di mano libera, nelle zone assegnategli: «Dovevamo catturare nazisti sospetti e raccogliere notizie su altri nazisti».

    Subito dopo l'inizio di queste operazioni ufficialmente autorizzate, egli ed un gruppo selezionato dell'Haganah che conta un centinaio di membri danno inizio ad una campagna clandestina di vendetta. Le esecuzioni si protraggono per oltre sei mesi. Che in tutto ciò ci sia una responsabilità britannica, è sicuro: «Il mio colonnello, non ebreo, può avere sospettato che andavamo al di là dei compiti assegnatici. Sono sicuro che qualcosa seppe certamente. Ma chiuse gli occhi [but he turned a blind eye]». Secondo quanto riferito da Carmi, è lui stesso a suggerire ai compari che i compiti ufficiali di intelligence potrebbero essere usati quale copertura per missioni di punizione ad ampio raggio: «Dozzine di uomini vi furono interessati, tra cui un plotone "tedesco" del Palmach [Plugot Machatz, "Compagnie d'Assalto" dell'Haganah con tendenza ad autonomia operativa, impiegate contro gli italo-tedeschi in Nordafrica], che era stato formato all'interno della Brigata negli ultimi mesi del conflitto e che si era pensato di usare come reparto esplorante nel corso dell'avanzata in Italia». Di fronte ad una domanda precisa, Carmi si rifiuta di dire quanti «nazisti», tedeschi e non tedeschi, siano stati uccisi dal suo gruppo, ma il loro numero, ci lascia capire, ammonta a diverse centinaia (Michael Bar Zohar li valuta tra 50 e 300). In una sola notte vengono «giustiziati» trenta «nazi».

    Come accennato, la campagna di caccia ha inizio nella tarda estate del 1945, originata «casualmente» nel corso di una scorreria investigativa ufficiale. Carmi e Gur raggiungono la casa di una coppia austriaca sospetta di «nazismo». Parecchie ore di interrogatori non riescono, malgrado i persuasivi mezzi impiegati, a portare i coniugi a «confessare», finché, stanco, Carmi non toglie la sicura alla pistola. Di fronte a tale ultima mossa, l'uomo, ex ufficiale della Gestapo, e la moglie, che «aveva ricoperto cariche nella confisca di proprietà ebraiche nel Norditalia», crollano. Il buon Israel offre loro una via di scampo: il non arresto in cambio di un elenco dei «nazisti» nascosti nella zona. «L'uomo lavorò tutta la notte. Al mattino ci diede un elenco preciso e dettagliato di nomi, indirizzi, storie, descrizioni di dozzine di ufficiali nazisti. Per settimane ci aiutò con ulteriori dati caratterizzati da una meticolosità tutta tedesca».

    Forniti degli elenchi - che servono come «lista della morte» e che comunicano a Sharett per 1'approvazione, scrive l'ufficiale della Brigata Ebraica Meir Grabowski, poi deputato knessetiano col nome di Meir Argov - i Vendicatori si scatenano: «Organizzammo gruppi che, in divisa inglese e su jeep inglesi, di notte si lanciarono alla ricerca dei sospetti. I nazisti credevano di essere interrogati dai Servizi inglesi. Gli uomini che interrogavano portavano via i sospetti, apparentemente in campi per prigionieri di guerra, ed essi non tornavano più. Gli interrogatori fornirono ulteriori nominativi. I più colpevoli li giustiziavamo subito; alcuni dei pesci più piccoli li passammo alle autorità inglesi» (torture ed esecuzioni vengono compiute anche in una cantina dell'Ospedale Rothschild a Vienna).

    «Il metodo dei Vendicatori era semplice» - conferma Tom Segev - «Si vestivano da poliziotti militari inglesi e si presentavano all'abitazione della vit*tima con una camionetta dell'esercito, la cui targa era spruzzata di fango e illeggibile. Bussavano alla porta, si assicuravano che ci fosse l'uomo giusto e l'inducevano a seguirli col pretesto di un'indagine di routine. Di solito non incontravano resistenza. Portavano seco la vittima nel luogo prestabilito, si facevano riconoscere e le sparavano. Pressoché sempre accadeva nei pressi del*l'abitazione della vittima. "Il nostro autocarro era coperto da ogni parte da un telone", riferì uno dei partecipanti. "Sul fondo c'erano dei materassi. Uno o due di noi aspettavano al buio. Appena appariva la testa del tedesco, uno di noi gli si gettava sopra, lo costringeva a unire le braccia sotto il mento e lo gettava indietro sul materasso che attutiva ogni rumore, e dove torceva stretta la testa dell'uomo. La caduta toglieva il respiro al tedesco e, all'istante, gli spezzava l'osso del collo"».

    Orgoglioso, ci riporta Morris Beckman, anche Zorea: «Eliminavamo solo chi era stato direttamente coinvolto nel massacro di ebrei. Dapprima gli ficcavamo una pallottola in testa. Poi li strangolavamo. A mani nude [with our bare hands]. Non dicevamo mai niente, prima di ammazzarli. Né perché, né chi eravamo. Li ammazzavamo come si ammazza una cimice [we just killed them like you kilt a bug]».

    Alla fine Carmi ed i suoi eliminano anche la coppia di cui si sono serviti all'inizio, onde evitare che i servizi inglesi possano prima o poi contattarla e, alla ricerca di informazioni sui «nazi» possano scoprire quell'operazione clandestina.

    Mentre sono in corso tali operazioni di «giustizia» - assassinii di prigionieri di guerra, distruzione di proprietà e spari a casaccio da parte di cecchini contro civili (addirittura, Segev riporta il caso di almeno un'oloscampata uccisa per errore!) - una seconda campagna di vendetta viene lanciata da un gruppo di partigiani dell'haShomer haZair, la «giovane guardia», la più antica delle organizzazioni giovanili ebraiche, la cui guida ideologica è il poeta Abba Kovner, ex capo di bande ebraiche in Lituania e Bielorussia e collaboratore della NKVD nella liquidazione dei patrioti antisovietici in Ucraina, Lituania e Polonia. Tale seconda operazione, preparata scientificamente per mesi, inizia sotto la direzione di «Pasha» Reichman (che più tardi riemergerà in Israele come alto boss del Mossad col nuovo nome di Yitzhak Avidov).

    Nel marzo-aprile 1946 giunge in Germania da Dublino il gruppo Nakam («Vendetta») il quale con l'aiuto di Carmi, che procura un ufficiale di collegamento e l'equipaggiamento, si propone di agire contro i 36.000 internati, tra cui molti SS e Waffen-SS, dei campi di Nürnberg-Langwasser e Auerbach. Gli uomini di «Pasha», muniti di falsi documenti e in uniforme inglese, entrano nei campi (agli internati, per sottrarli alla protezione delle leggi di guerra, era stata tolta da Eisenhower, il 10 marzo 1945 e in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, la qualifica di POW Prisoner of War, sostituita dai mortiferi status di DEF Disarmed Enemy Forces e SEP Surrendered Enemy Personal). Per quanto l'impresa naufraghi presto dopo la scoperta degli attentatori da parte dei guardiani notturni di un panificio, gli ebrei riescono a inviare ai detenuti 2000 pagnotte - una tonnellata di pane - impastate con arsenico.

    Le prime notizie del fatto filtrano il 23 aprile, tre giorni dopo, sul quotidiano Stars and Stripes, che annota l'avvelenamento di 300 internati a Nürnberg*Langwasser e di 2283 ad Auerbach, riportando che nessun caso mortale si è al momento verificato (che nessun decesso sia stato provocato lo afferma anche Torri Segev). In realtà dei colpiti - ben 4300 e non 2583 - ne morranno negli ospedali, tra i tormenti, 7-800. Come riferisce l'ex internato H. Trautmann di Landshut, scampato all'avvelenamento: «Ancor oggi inorridisco di notte, e sento ancora nella camerata le grida strazianti dei commilitoni che avevano consumato il pane avvelenato. Dato l'allarme, gli intossicati furono portati via in fretta e furia dagli americani, il pane avvelenato fu raccolto, imbevuto di benzina e bruciato al di fuori del campo».

    Sviluppatasi ormai a livelli semi-ufficiali e a dimensioni tali da comportare il concreto pericolo di venire scoperti a causa dell'ebbrezza del sangue e della mancanza di disciplina che ha afferrato i commilitoni (tale il commento di Michael Ben-Gal, l'ufficiale dell'Haganah responsabile per la Brigata), la campagna di «vendetta» trova un freno nell'intervento di alcuni politici dello Yishuv, che non vogliono peggiorare i già non buoni rapporti con la Potenza mandataria (riferisce l'ex abbakovneriano Josef Harmatz, ardente comunista anche se figlio di facoltoso «lituano» già importatore di merci inglesi, che si era addirittura ventilata un'irruzione nell'aula del Tribunale Militare Internazionale per «giustiziare» a colpi di mitra i major war criminals!).

    Contro il freno tirato da Ben Gurion, Chaim Weizmann non solo approva, però, il progetto di avvelenamento del pane (il cosiddetto Piano B o Due), ma li indirizza allo scienziato Ernst David Bergman, in seguito padre della ricerca nucleare israeliana, per la preparazione del veleno («Bergman sapeva soltanto che la sostanza sarebbe servita per operazioni contro gli ex nazisti, e non chiese nulla sui particolari», riferisce Segev): «Eravamo certi di uccidere almeno 12.000 persone. Avevamo scelto l'arsenico, una sostanza che si solidifica in fretta», rimpiange Harmatz, ora diplomatico israeliano di primo piano, vantandosi col compiacente confratello Willy Molco nell'intervista in prime time su Rauno il 14 giugno 1998 e negando trattarsi, la loro «giustizia», di omicidio: «Soltanto uccidendone sei milioni avremmo pareggiato i conti [...] I nazisti erano estranei al genere umano».

    All'altrettanto compiacente domanda di Guido Chaim, che rileva come dall'ammissione emerga «l'inquietante figura dell'ebreo vendicativo, che avvelena centinaia di nazisti dopo aver assistito agli orrori della guerra. Non è forse questa una figura in contraddizione con i grandi ideali universali che siamo chiamati a rappresentare?», Molco seraficheggia: «Non necessariamente. Nessuno può giudicare le reazioni di coloro che hanno vissuto quegli anni. Per Harmatz si è evidentemente trattato di una vendetta terapeutica [sic!]. Un fatto terribile, certo, ma anche la cura che gli ha salvato la vita, la valvola di salvezza che è mancata alle esistenze tormentate di Primo Levi e di Bruno Bettelheim» (le asserzioni di Harmatz erano state precedute, quasi negli stessi termini, dal suo ex-compagno di terrorismo Arie Leibke Distel nell'intervista trasmessa il 16 agosto 1996 dal confratello Ted Koppel in ABC News Nightline, titolata The Avengers, «I vendicatori»).

    Negli stessi mesi, del resto, erano stati liquidati dai Cercatori di Giustizia-Non-Vendetta numerosi tedeschi già residenti in Palestina e internati dagli inglesi nel settembre 1939, allo scoppio del conflitto.

    Vengono quindi proibite ulteriori azioni, tra le quali i progetti di avvelenare con arsenico gli acquedotti di Berlino, Monaco, Norimberga, Amburgo e Francoforte (il cosiddetto Piano A o Uno, Tochnit Aluf, che a norma jahwistica del dente-per-dente prevede l'eliminazione di almeno sei milioni di tedeschi). Nel frattempo, quali autori degli attentati e degli altri crimini vengono genericamente indicati «ex deportati nei campi e polacchi»; esponenti di punta della banda assassina, che già nel febbraio 1969 saranno denuciati da Gerhard Frey alla Procura bavarese - senza esito alcuno, ça va sans dire (trent'anni dopo, anzi, riferendo delle prodezze, i massmedia televisivi e giornalistici tedeschi traboccheranno della più completa comprensione per gli eletti assassini; a ultima beffa, nel maggio 2000 la Procura di Norimberga, investita da una denuncia contro i vantati assassini Harmatz e Distel, archivia il caso con un non luogo a procedere a causa di «auβerordentliche Umstände, circostanze straordinarie») - sono Emil Brik, Manos Diamant, Alexander «Oleg» Gatmon, Kouba Sheinkmann e Marcel Tobias, quest'ultimo poi divenuto colonnello paracadutista di Zahal; complice illustre è il produttore filmico Artur «Atze» Brauner, che mette a disposizione, benevolo, i propri locali a Berlino quale base operativa del gruppo.

    In ogni caso, alle vittime fatte l) dal gruppo di Carmi e 2) dal Nakain (pur commentando che «il numero esatto non sarà mai conosciuto», Beckman parla di 1500 esecuzioni complessive, compiute da «several dozen revenge squads, diverse dozzine di squadre di vendicatori»), vanno aggiunti:

    3) un migliaio di vittime fatte da gruppi minori nel 1945-46 (Beckman esemplifica, giustificandoli con le motivazioni più varie, con i casi di Obernau, Glachau, Limbach, Auerbach, Hildburghausen «and several other places»),

    4) un numero imprecisato di assassinati a partire dall'estate 1948 da commando israeliani («le "squadre della morte" israeliane iniziarono ad operare nei mesi seguenti la nascita dello Stato per eliminare i nazisti coinvolti nell'Olocausto», si compiace Lorenzo Cremonesi nell'ottobre 1994),

    5) singoli casi di assassinio, protrattisi fino al 1958 (di tale anno, Beckman riporta l'eliminazione dell'ex tenente SS Georg Mussfeld, impiccato nella cucina della sua trattoria ad Oberammergau dai «turisti» mossadici Benno Feld e Hanna Baum, oloscampati quindicenni al cosiddetto «massacro di Lublino»), e

    6) un numero imprecisato di «criminali» eliminati da gruppi inglesi, Churchill beneplacitante, quale «vendetta» per l'esecuzione di spie ed agenti britannici giustiziati durante il conflitto (a gloriarsi di tale ultima perla è, sul Sunday Times del 4 gennaio 1998, l'ex ufficiale «inglese» Peter Mason, uno dei capi di tali gruppi che, col pretesto di interrogatori, prelevavano i prigionieri dai campi e li liquidavano solitamente simulandone il suicidio).

    A prescindere quindi dalle prodezze inglesi, almeno tremila sono quindi le vittime dei «Vendicatori» (e le cifre sono minimali e solo da fonti ebraiche). «Devo purtroppo dire» - concluderà Chaim Laskov, palesandosi ben lontano dalla «satanica efferatezza nazista» - «che non ne abbiamo liquidati poi molti». Di fronte al disgusto che potrebbe provare il lettore per questi sanguinari comportamenti, agli antipodi di ogni norma morale e giuridica, Morris cerca di attenuare la penosa impressione: «Carmi, tuttavia, insiste nel dire che prima che chiunque venisse giustiziato, i vendicatori avevano controllato e ricontrollato le accuse e giustiziato soltanto coloro che erano certi fossero nazisti [only those they were convinced were Nazis]». La maggior parte dei «giustiziati» furono ufficiali di medio grado delle SS e della Gestapo, maggiori e colonnelli. Nessuno dei gradi più alti fu ucciso, perché sarebbe stato più difficile occultare o giustificare la scomparsa di un generale. Problemi di coscienza? «Proprio nessuno [None whatsoever]. Entrai in azione dopo avere visto i campi di concentramento. Comunque non c'era altro modo di agire, riguardo a quella questione». D'altra parte, impone Stefano Jesurum, «chi ha attraversato lo Sterminio, la Shoah, è ingiudicabile».

    L'operazione Vendicatori, conclude Carmi, comincia senza un'approvazione della direzione centrale dell'Haganah a Tel Aviv: «Allo stesso modo dell'immigrazione illegale in Palestina, tutto cominciò sul campo, da condizioni e circostanze locali. Solo alla fine, dopo l'accaduto, ricevetti il benestare per la vendetta». Onde evitare di farlo scoprire, Carmi viene fatto trasferire ad operazioni meno clandestine. Smobilitato verso la fine del 1947, torna in Palestina, dove 1'Haganah lo destina all'organizzazione delle forze corazzate. All'inizio della cosiddetta Guerra d'Indipendenza, vale a dire all'inizio delle reazioni dei paesi arabi corsi in aiuto ai palestinesi massacrati da mesi ed espulsi dalle loro case, Carmi organizza il 1° battaglione corazzato d'assalto.

    Nel maggio 1948 Carmi viene inviato nel Negev, ove guida il 9° battaglione contro Beersheba e la Striscia di Gaza. Dopo il ritiro nella vita civile, nel 1951 rientra nei ranghi e dal 1962 regge la polizia militare. Nel 1973-74 è uno dei cinque membri della Commissione d'Inchiesta Agranat, che indaga sulle ragioni della «sorpresa» subìta dallo Zahal nella Guerra del Kippur. Da allora, si ritira da ogni carica pubblica.

    Buoni imitatori di Carmi sono infine gli assassini (identificati come ebrei da David Irving) che nelle prime ore del 14 luglio 1976 portano a morte l'ex Obersturmbannführer delle Waffen-SS Jochen Peiper, un pluridecorato cui nessuno ha mai potuto imputare alcunché di persecutorio nei confronti degli ebrei.

    Nato a Berlino il 30 gennaio 1915, Peiper, già membro della Hitlerjugend, entra nella SS-Junkerschule di Braunschweig nel 1935 e diviene Untersturmführer, sottotenente, nella primavera seguente. Nel 1938-39 fa parte dello staff di Himmler; allo scoppio della guerra chiede di essere trasferito a un reparto combattente e, dopo avere comandato la decima compagnia della Prima Divisione Waffen-SS Leibstandarte Adolf Hitler in Polonia, nel maggio 1940 guida i suoi uomini nei Paesi Bassi, combatte sull'Yssel, rigetta a Watten gli inglesi e, in Francia, forza la Sioule al Puy-de-Dôme e viene decorato due volte con la Croce di Ferro, di II e di I classe. Nell'estate 1941 Peiper guida il terzo battaglione carri del secondo reggimento Panzergrenadier, penetra per mille chilometri in Russia, rompe l'accerchiamento alla 320ª Divisione di fanteria ponendo in salvo millecinquecento feriti e resiste al contrattacco sovietico dell'inverno. Dopo la caduta di Charkov in mani sovietiche, riprende Bielgorod nel marzo 1943. Nel settembre-ottobre fa fronte alla defezione italiana operando in Piemonte e restando coinvolto in combattimenti contro gruppi partigiani (per l'effettiva dinamica degli eventi vedi l'opera di Ernesto Zucconi). Rientrato in Russia, nel novembre comanda il primo reggimento carri della Leibstandarte e viene aggregato alla 2. Divisione Waffen-SS Das Reich. Combatte nei pressi di Zitomir e viene insignito della Croce di Cavaliere della Croce di Ferro, alla quale si aggiungono le foglie di quercia nel febbraio 1944.

    Trasferito nelle Fiandre nell'aprile, si porta nel giugno a contrastare l'invasione anglo-americana in Normandia e nell'agosto sfugge con i suoi uomini all'accerchiamento, combattendo a novembre a sud di Euskirchen sul Westwall. A partire dal 16 dicembre è uno dei protagonisti dell'offensiva delle Ardenne al comando di un gruppo di combattimento; viene coinvolto nell'oscuro caso di Baugnez-Malmedy, ove trovano la morte una settantina di militari americani. Per le sue azioni nel corso dell'offensiva riceve le Spade sulla Croce di Cavaliere. Dopo aver combattuto contro i sovietici sul Danubio, si arrende agli americani sui contrafforti alpini di Sankt Polten. Ferito otto volte in combattimento, colpito da epato-colangite nel 1944, al termine del conflitto Peiper ha il grado di Obersturmbannführer, tenente colonnello.

    Per quanto non venga portata alcuna prova di una sua responsabilità nei fatti di Malmedy, il processo di Dachau (maggio-luglio 1946), nonostante irregolarità legali di ogni tipo, maltrattamenti, torture e false confessioni (la War Crimes Commission, diretta dal tenente colonnello Burton F. Ellis, ha quattro ebrei tra i sette membri: il capitano Raphael Shumacher; il tenente William R. Perl, nato a Praga, nel 1939 presidente aggiunto a Vienna dei Sionisti Revisionisti, stipulatore del Transfer-Abkommen con Eichmann, onde incentivare l'emigrazione illegale in Palestina per conto dell'Irgun, all'epoca di Dachau psicologo conosciuto come «il giustiziere»; l'avvocato Morris Ellowitz o Elowitz; il «braccio destro» di Ellis, Joseph Kirschbaum - nello smascherare numerose false testimonianze a carico degli imputati gioca però un ruolo l'onesto ebreo Stephen F. Pinter, avvocato militare per l'accusa) porta a: 43 condanne a morte, tra cui Peiper, 22 ergastoli, due condanne a 20, una a 15 e cinque a 10 anni. L'appello riduce a 12 le condanne a morte, riduce la pena in quaranta casi e annulla tredici sentenze. Le 12 condanne a morte vengono mutate in altrettanti ergastoli nel settembre 1948, ma sei vengono riconfermate dal generale Clay, governatore militare della Germania occupata. Nel gennaio 1951, dopo due anni e mezzo di attesa con la spada di Damocle del capestro settimanalmente sulla testa (le esecuzioni vengono praticate il venerdì), anche queste vengono mutate in detenzioni a vita dal generale Handy, suo successore.

    Nel 1954 l'ergastolo di Peiper viene commutato in una detenzione di trentacinque anni, ma la cattiva coscienza dei suoi «giustizieri» lo porta alla liberazione, dalla prigione di Landsberg am Lech, il 22 dicembre 1956. Il primo gennaio 1957 Peiper viene assunto dalla ditta Porsche a Francoforte quale responsabile-vendite per l'America. Nel 1964 una campagna di stampa sui fatti di Boves (23 civili del borgo cuneense caduti il 19 settembre 1943 nella risposta ad un attacco a tradimento partigiano), pur non producendo prove a suo carico, ne provoca, affiancata da agitazioni sindacali, il licenziamento. Dopo un impiego nel servizio commerciale della Volkswagen a Reutlingen, nel febbraio 1972 nuove difficoltà lo inducono a trasferirsi da Stoccarda a Traves, un paesino francese dell'Haute-Saône, ove nel 1959 ha acquistato una casetta in legno fuori dall'abitato, in un bosco sulla riva del fiume. Con un permesso di soggiorno di cinque anni, Peiper vive, con la moglie, della pensione e del lavoro di traduttore. Figli ed amici lo visitano di quando in quando.

    Il «caso Peiper» scoppia nella primavera 1976 ad opera di Paul Cacheux, un commerciante di ferramenta che lo ha riconosciuto nel luglio 1974. Il francese contatta i giornalisti del comunista L'Humanité, che lancia una virulenta campagna di stampa, chiedendo l'allontanamento del «nazi-criminale». Anche se il numero non compare sugli elenchi, Peiper viene subissato di lettere e telefonate minatorie, gli viene distrutta la cassetta della posta, vengono diffusi volantini denigratori e tracciate scritte sui muri e sulle strade che portano a Traves. Nel giugno-luglio escono articoli anche su L'Est Républicain (che il 22 giugno lo ha correttamente intervistato, scattandone le ultime foto). Il 13 luglio mattina la moglie di Peiper, il quale ha rifiutato più volte la protezione degli amici, lascia la casa per un breve soggiorno nella Foresta Nera. M.E. Ketelhut, un vicino, si ferma a discorrere con lui fino a tarda ora.

    Alle due e trenta del 14 luglio un motociclista passa sulla provinciale, vede un mare di fiamme nel bosco e dà l'allarme, ma quando giungono i pompieri la casa è distrutta. Il tetto e il pavimento del primo piano sono crollati su un cadavere semicarbonizzato, accanto una Smith & Wesson 0.38 e scatole di proiettili esplose. I cani vengono trovati poco distanti dalla casa, uno con in corpo un proiettile da 6.35. La polizia accerta che al piano terreno è stata lanciata una bomba incendiaria. Sono stati esplosi diversi colpi di arma da fuoco (nessuno li avrebbe uditi, causa i festeggiamenti per la prise de la Bastille con canti, balli e fuochi d'artificio).

    Crollato il pavimento di legno, il corpo di Peiper cade dal primo piano. Ai piedi di un albero viene rinvenuto un ordigno incendiario inesploso, abbandonato dagli assassini. Un fucile calibro 0.22, prestato a Peiper da Ketelhut e usato contro gli aggressori, viene trovato sul terrazzo. Decine di colpi di piccolo calibro segnano i muri e gli alberi. L'autopsia rivela tracce di cenere nei polmoni di Peiper, il che indica come sia rimasto in vita per qualche tempo durante l'incendio. Nessun proiettile viene rinvenuto nei resti calcinati. Nessun testimone si avanza, nessuno ha visto alcunché. Mentre circolano voci di un coinvolgimento dei servizi della DDR e della banda Baader-Meinhof, nessuno indaga tra i comunisti né tra gli eredi dei Vendicatori. Se l'attacco sia stato intenzionalmente omicida o si sia trattato di un «avvertimento» a sloggiare finito tragicamente, non lo si chiarirà mai. Una terza ipotesi è che qualche alticcio festeggiante bastigliano abbia voluto «dare una lezione al tedesco». Il dossier Peiper, «per calmare le passioni», viene chiuso senza luogo a procedere.




    Gianantonio Valli







    No! Ancora un istante!

    Non ha ancora detto nulla dei capolavori di questi negromanti che

    manipolano tutto quanto è nero per ricavarne bianchezza, latte e innocenza -

    non ha notato a che punto arriva la loro perfezione nel raffinare, il loro artistico tocco arditissimo, finissimo, genialissimo e mendacissimo?

    Faccia attenzione!

    Queste bestie del sottosuolo sature di vendetta e di odio -

    che cosa fanno appunto di questa vendetta e di quest'odio?

    Ha mai sentito queste parole?

    Sempre che si fosse fidato delle loro parole,

    avrebbe mai potuto prevedere di ritrovarsi né più né meno che in mezzo a uomini del ressentiment? "Capisco e ancora una volta apro le orecchie (ahimè, ahimè, ahimè! e chiudo il naso).

    Odo soltanto ora quel che essi già tanto spesso dicevano:

    “Noi buoni, noi siamo i giusti' -

    a quel che pretendono non danno il nome di rivalsa,

    bensì di 'trionfo della giustizia';

    quel che essi odiano non è il loro nemico, no!

    essi odiano l''ingiustizia', 1"empietà';

    quel che credono e sperano non è la speranza della vendetta,

    l'ebbrezza della dolce vendetta ('più dolce del miele', già la chiamava Omero),

    bensì la vittoria di Dio,

    del Dio giusto sugli empi".




    Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, I 14

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    Morte programmata. Lo sterminio dei nazionalsocialisti nei campi della Zona di Occupazione Sovietica

    di G.Valli

    Le numerose fosse comuni venute alla luce nel 1990 nell'ex Repubblica Democratica Tedesca nei luoghi nei quali i sovietici avevano istituito campi di concentramento rappresentano le prime, tangibili testimonianze di una delle maggiori tragedie europee, rimossa e tenuta celata alla coscienza umana per quasi cinquant'anni. In Italia le prime, scarne notizie sono apparse su alcuni quotidiani il 29 marzo 1990, dando atto del ritrovamento di enormi fosse con*tenenti migliaia di scheletri a Oranienburg e Fünfeichen. In seguito quelle poche righe non sono state mai più riprese, ne è mai stato sviluppato un orga*nico, approfondito discorso in servizi o in articoli, né su quotidiani né su rivi*ste, né sono stati pubblicati, in Italia, volumi di ricerca, memorie e testimo*nianze.

    Quando il secondo conflitto mondiale si chiuse in Europa e nella Germania occupata dai sovietici si stabilirono, sotto la supervisione delle autorità di occupazione, le nuove amministrazioni civili e i comunisti fuggiti nell'URSS negli anni Trenta poterono riunirsi ai compagni vissuti clandestina*mente nel Reich per instaurare un nuovo modello sociale, si pose loro il pro*blema di cosa fare dei membri e dei simpatizzanti del partito nazionalsociali*sta.

    Semplicemente, tutti costoro avrebbero dovuto essere annientati, sia fisi*camente, nel senso letterale del termine, sia epurati mediante allontanamento dai posti di responsabilità ed espropriazione dei loro beni per una giusta Rieducazione. Tutti dovevano espiare la colpa dell'essersi opposti all'instaura*zione di quel Mondo Nuovo, la cui edificazione su suolo europeo aveva subito brucianti battute d'arresto nei precedenti vent'anni ad opera del fascismo e del nazionalsocialismo. In medesima guisa dovevano essere trattati tutti quegli «Junker» e quei «borghesi» che avevano fatto potente l'economia tedesca, nonché provveduto all'economia di guerra e al sostentamento della loro nazio*ne, e dei milioni di lavoratori di altre nazioni, nei sei lunghi anni del conflitto.

    Il comportamento da adottare nei confronti del nemico «borghese» - ma, soprattutto del nazionalsocialismo, l'avversario più lucido e determinato del comunismo - era già stato evidenziato, dopo le numerose teorizzazioni di Lenin, da uno dei massimi capi della Ceka, il lettone Martyn Lacis, sul primo numero del periodico Krasny Terror, Terrore Rosso, il 1° ottobre 1918: «Noi non facciamo la guerra agli individui. Noi sterminiamo la borghesia come classe. Il primo passo di un'indagine non deve quindi essere il raggiungimento delle prove che l'accusato si è mosso con la parola o coi fatti contro il potere sovietico. Dobbiamo piuttosto fargli tre domande: A quale classe appartiene? Qual è la sua origine? Quale la sua educazione, la sua formazione, la sua pro*fessione? Soltanto le risposte a queste tre domande devono decidere il suo destino. È questa l'essenza, è questa l'importanza del Terrore Rosso». Ed egualmente il superiore di Lacis, Feliks Dzerzinskij: «Noi diamo inizio al ter*rore organizzato. La Ceka ha il dovere di difendere la rivoluzione e annientare il nemico, anche quando la sua spada tagliasse delle teste incolpevoli». Ed egualmente Uljanov, il Santone Supremo: «I tribunali non devono abolire il terrore; dobbiamo creare il terrore e praticarlo per principio, giuridicamente, in tutta chiarezza, senza falsità né mascheramenti».

    Venti milioni di tedeschi vivevano in quella che era diventata la Zona di Occupazione Sovietica, tra 1'Oder e l'Elba. Nessuno di essi poteva immagina*re che per mezzo secolo sarebbe stato separato dai cinquanta milioni di connazionali rimasti a Occidente. Il più pressante problema era per essi, semplice*mente, cercare di sopravvivere alla brutalità, agli assassini, alle violenze, alla prigionia, alla generale miseria che vedeva vagare, tra le case ridotte a mace*rie, figure spettrali, alla ricerca di qualcosa da bruciare, da barattare, di cui cibarsi.

    Dal quartier generale della polizia segreta sovietica, l'NKVD (che sareb*be stata ribattezzata MVD nel marzo 1946 in seguito al cambio di dizione da Narodni Kommissariat degli Interni, Commissariato del Popolo, a Ministerium, Ministero), nei pressi della stazione della metropolitana berlinese di Prenzlauer Berg, cominciarono presto a diffondersi le voci più terrificanti. Qui venivano quotidianamente trascinati, da appositi commando sovietici, centinaia di tedeschi, uomini, donne, ragazzi, che scomparivano nel nulla. In ogni città, in ogni villaggio, furono imprigionati i più attivi membri del partito nazionalsocialista. Nei segretari di sezione tedesco-comunisti i sovietici trova*rono i servi più zelanti. Da ogni carica pubblica, politica come amministrativa, dalle scuole e dai servizi in genere furono allontanate circa 520.000 persone tra il milione e mezzo di ex membri della NSDAP. Altri aderenti al regime furono posti sotto sorveglianza e, in caso di denuncia, prelevati e tradotti in campi di concentramento (Konzentrationslager, Kazett o KZ) come Sachsenhausen e Buchenwald, riattati alla bisogna, nonché in prigioni e campi provvisori approntati in fretta e furia.

    In tutto, furono oltre 180.000 i civili tedeschi che andarono incontro a questa sorte (data l'attuale carenza di una documentazione precisa ed organi*ca, questa e le cifre che seguiranno anche se da noi verificate con la massima scrupolosità sulle fonti più attendibili, devono essere intese come cifre di massima - alcune fonti occidentali parlano di 160-260.000 persone, mentre il Ministero degli Esteri sovietico ha comunicato nel luglio 1990 la cifra di 122.671 persone). Per lunghi anni quasi duecentomila uomini, donne, adole*scenti, ragazzi e persino bambini finirono in quei campi. Ben oltre la metà di essi, quasi i tre quarti (per il Ministero degli Esteri sovietico «solo» 43.000, oltre a 776 condannati a morte dai TMS, Tribunafi Militari Sovietici, e impic*cati), non ne fece ritorno. Senza dibattimento giuridico di sorta, senza proces*so e, nella quasi totalità dei casi, senza colpa alcuna.

    Taluno scomparve letteralmente nel nulla, come il diciannovenne H.R. di Novawes/Babelsberg che, arrestato il 16 aprile 1947 e, secondo quanto riferì ai parenti un funzionario dello Stasi (Staatssicherheitsdienst, il Servizio di Sicurezza dello Stato) nell'agosto 1954, condannato il 1° maggio 1951 per «atti ostili contro la Potenza occupante», non diede mai notizia di sé. Nessuna notizia diedero inoltre, benché insistentemente sollecitati, il ministro della Giustizia Hilde Benjamin nel 1954, il procuratore capo dottor Melsheimer nel 1956, il dirigente del ministero degli Intemi Jauch nel gennaio 1957, la Croce Rossa Tedesca di Potsdam nel febbraio 1957, l'ambasciatore sovietico nel feb*braio 1957, la Croce Rossa «Mezzaluna» ancora nel febbraio 1957, il consola*to sovietico di Halle nell'aprile 1957. Nulla. Arrestato due anni dopo la fine della guerra e svanito nel nulla.

    Il modo di agire dei Sovietici non costituì peraltro che l'applicazione dei patti di Jalta (3-11 febbraio 1945) e degli accordi di Potsdam (17 luglio - 1° agosto 1945), accordi stipulati e applicati in violazione delle disposizioni dell'articolo 43 della Convenzione dell'Aia del 18 ottobre 1907 (che prescri*veva alle Potenze occupanti l'osservanza delle leggi in vigore nel paese scon*fitto, norma ripresa nel 1949 dall'articolo 64 della Seconda Convenzione di Ginevra), e tesi a criminalizzare e fare tabula rasa per sempre delle idealità e delle concrete esperienze storiche del più determinato tra i fascismi europei. Tra le principali norme applicative di tale politica furono la Direttiva Nr. 10 della Commissione Alleata di Controllo del 20 dicembre 1945 e la Nr. 38 del 12 ottobre 1946, rimasta in vigore fino al 1955 e che al punto I-b si proponeva «il completo e definitivo annientamento del nazionalsocialismo e del militari*smo attraverso l'imprigionamento e la limitazione dell'attività di dirigenti e seguaci di tali dottrine». Sempre in spregio alle convenzioni di guerra furono arrestati e deportati almeno 40.000 soldati che, già combattenti contro gli anglo-americani, imprigionati e rimessi in libertà nel 1946-47, erano tornati presso le loro famiglie nella Zona occupata dai sovietici, contro i quali neppu*re avevano combattuto.

    Quanto ai patti di Jalta, gli articoli specifici recitavano: «Siamo determi*nati [...] a portare in giudizio tutti i criminali di guerra e a impartire loro una rapida punizione [...] ad estirpare il partito nazionalsocialista, le leggi, le organizzazioni e le istituzioni nazionalsocialiste, a cancellare ogni influenza nazio*nalsocialista e militarista dalle cariche pubbliche così come dalla vita culturale ed economica del popolo tedesco e, in coerenza con tali intenzioni, ad adottare in Germania tutte quelle misure che si rendano necessarie per assicurare in futuro la pace e la sicurezza nel mondo».

    Quanto agli accordi di Potsdam tra Occidentali e Sovietici: «Finché lo permettano le circostanze, il trattamento della popolazione tedesca dovrà esse*re il medesimo in tutta la Germania. Gli obbiettivi dell'occupazione della Germania, dai quali la Commissione [alleata] di Controllo si farà guidare, sono: [...] 2° - Il completo disarmo e la smilitarizzazione della Germania e lo smantellamento di tutte le industrie tedesche che possano venire utilizzate per la produzione bellica. 3° - Il partito nazionalsocialista, con tutti i suoi corpi e le organizzazioni ad esso collegate, dev'essere annientato. 4° - Bisogna predi*sporre sia la conformazione definitiva della vita politica tedesca su fondamen*ta democratiche, sia un'eventuale collaborazione pacifica della Germania nella vita internazionale [...]. 6° - I capi del partito nazista, i suoi esponenti, i diri*genti degli uffici e delle organizzazioni naziste, nonché tutti coloro che possa*no costituire un pericolo per le truppe di occupazione ed i loro scopi devono essere imprigionati e internati. Tutti i membri del partito nazista che abbiano preso parte alle sue attività in modo non puramente nominale e tutti coloro che mostrino ostilità verso gli obiettivi alleati devono essere allontanati da ogni carica pubblica e semi-pubblica, come anche dalle loro mansioni in importanti imprese private».

    Costituito in tal modo il pur aberrante fondamento giuridico della repres*sione, i tribunali «alleati» di ogni ordine e grado, assistiti dagli organi della polizia militare e della polizia segreta, si lanciarono nella più vasta opera di «rieducazione» politica, mentale e spirituale che la storia abbia finora visto. Che tale «rieducazione», oltre che attraverso un puro e semplice «lavaggio del cervello» si sia esplicata anche, e soprattutto, attraverso il terrore e la morte, costituiva il necessario passo successivo, un prezzo di sangue che doveva essere pagato, per riportare all'obbedienza democratica un popolo riottoso. Un prezzo che fu pagato.

    Dei 180.000 civili che furono imprigionati per ordine dei TMS (inizial*mente al seguito di ogni Grande Unità, indi costituiti nei nuovi Länder della Zona di Occupazione a Berlino-Lichtenberg (Berlino), Schwerin (Meclemburgo), Dresda (Sassonia), Potsdam (Brandenburgo), Weimar (Turingia) ed Halle (Sachsén-Anhalt), 160.000 tradotti e inquisiti nelle loro centrali passarono per i campi di concentramento. Gli altri 20.000, presumibil*mente i più «compromessi», o quelli che avevano resistito all'arresto, o i più ribelli, furono sbrigativamente fucilati o «giustiziati» nel corso della carcera*zione preventiva, abbattuti nel corso di «tentativi di fuga», «dimenticati» in sordide topaie o semplicemente lasciati morire nelle prigioni provvisorie (can*tine, capannoni, autorimesse, carceri, posti di polizia) per fame, freddo o malattia.

    La prima sentenza capitale fu ufficialmente emessa da un Tribunale Militare Sovietico il 31 maggio 1945; del 27 luglio fu l'istituzione della Deutsche Zentralverwaltung der Justiz, Amministrazione Centrale della Giustizia. L'ordine di servizio numero 00315 con cui la NKVD istituiva il Dipartimento Speciale dei Campi in Territorio Tedesco, con a capo il colon*nello-generale Ivan Serov, era stato emesso il 15 aprile; tre anni dopo il Dipartimento sarebbe stato incluso nella rete permanente del Gulag. Dei 160.000 tra uomini e donne rinchiusi nei campi, ne morirono sicuramente 86.000, in massima parte per lunghe e terribili evenienze (la massima parte di stenti e per fame, a causa sia dello scarsissimo nutrimento concesso, sia di malattie infettive non curate).

    Il quadro mentale e organizzativo in cui è possibile inscrivere tali decessi - la medesima cosa avvenne nei campi di concentramento militari tenuti a Occidente dai francesi e dall'US Army - lo illustrano le ciniche parole rivolte ai detenuti di Landsberg sulla Warthe da un maggiore dell'aviazione sovietica, già abbattuto sopra Berlino poco prima della resa: «Voi tedeschi siete stupidi. Voi mettete al muro i vostri nemici e li fucilate. Noi facciamo di meglio, poi*ché li lasciamo morire lentamente di fame [...] I tedeschi hanno sempre scritto di colpi alla nuca. Noi diamo invece poco nutrimento ai prigionieri e li spo*stiamo da un campo all'altro. Così le gambe divengono gonfie e gonfia la pan*cia, finché crepano. Non c'è bisogno di un colpo alla nuca».

    Rivelatrici anche le considerazioni di un giurista sovietico, l'ebreo Ilja Trajnin, docente universitario esperto in diritto internazionale e consigliere dei capi delle forze di occupazione sovietiche, a proposito della «responsabilità penale degli hitleriani»: «A Versailles le potenze vincitrici dell'Occidente hanno solo tentato [di dominare il cuore dell'Europa], ma hanno poi ceduto di fronte ai tedeschi. Sarà Stalin a mostrare la via da percorrere ai vincitori di oggi, sarà lui a far vedere come questa volta potrà essere raggiunto l'obiettivo della punizione e dell'annientamento dei tedeschi».

    Si stimano poi da un minimo di 18.000 ad un massimo di 45.000 (il ricer*catore tedesco Gerhard Finn ne dà 36.000, altri da 25 a 30.000) gli internati civili dei diciassette campi deportati in Unione Sovietica come «materiale di fatica», dispersi nelle città sovietiche o nei gulag dell'immenso territorio dall'Ucraina all'estrema Siberia. Fino al 1947 si contano inoltre quasi settanta*mila tra bambini e fanciulli egualmente deportati per ordine del baffuto Padre dei Popoli, e un totale generale, militari compresi, di 900.000 tedeschi depor*tati a fini di «riparazione» ricostruttiva nelle distese siberiane e nei campi di lavoro forzato sovietici (secondo Benjamin Pinkus, docente israeliano di sto*ria, alla fine del 1946 già 300.000 non erano più in vita). Come abbiamo detto, nei dieci-undici mesi seguenti la cessazione delle ostilità vennero infine deportati in Unione Sovietica, talora passando per i campi di internamento, almeno 40.000 ex Prisoners Of War liberati dai campi occidentali e rientrati nelle loro case site nella Zona di Occupazione Sovietica.

    I primi passi ufficiali per un'ammorbidimento delle pene e un migliora*mento delle condizioni dei campi furono compiuti il 29 ottobre 1947 dai vescovi cattolici presso la Commissione Alleata di Controllo e il 16 dicembre dalle chiese evangeliche direttamente presso la SMAD, Sowjetische Militär-Administration in Deutschland. I primi «alleggerimenti» delle inumane condi*zioni degli internati vennero comunicati dalla radio di Berlino-Est il 7 aprile 1948.

    Quarantaseimila detenuti dei campi furono rilasciati, in due riprese, nel luglio-agosto 1948 e nel febbraio-marzo 1950; si ignora quanti di loro dece*dettero, in seguito al trattamento subito, nei mesi seguenti il rilascio. Diecimilacinquecentotredici, già giudicati dalle autorità sovietiche, vennero «passati» alla ex DDR nei mesi seguenti al 7 ottobre 1949, giorno della costi*tuzione della Zona di Occupazione in Stato «indipendente», senza che peraltro alle nuove autorità tedesche fossero passati anche gli atti dei processi.

    I campi maggiori e le prigioni quindi non si svuotarono, dopo i rilasci, ma vennero mantenuti ancora in funzione, anche perché ai nazionalsocialisti si aggiunsero ora migliaia di nuovi, democratici oppositori del regime, quali socialdemocratici (definiti «soci altraditori»), liberali, democristiani e tedeschi non aderenti a nessun partito, ma semplicemente considerati ostili dalla SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, il partito di governo della DDR costituito il 22 aprile 1946 dall'unione dei socialdemocratici e del KPD, il par*tito comunista). Era stato del resto Walter Ulbricht a precisare, al primo con*gresso della Kommunistische Partei Deutschlands, il 3 marzo 1946, la conce*zione di un vero regime del popolo: «Siamo dunque dell'opinione che demo*crazia non significa che tutte le forze abbiano le medesime possibilità di ope*rare. Ci chiedono: Volete organizzare elezioni nella Zona di Occupazione Sovietica? Rispondiamo: Certo, ma le organizzeremo sotto garanzia, in modo tale che giunga al potere in ogni città e in ogni villaggio una maggioranza di lavoratori».

    Nulla dunque di strano che migliaia di pubblici funzionari, cittadini e intellettuali delle più varie tendenze abbiano dovuto «visitare» a più riprese i campi di internamento, condannati - come fu per il diciannovenne Wolfgang Strauss - a morte per sabotaggio, attentati e attività politica illegale (il fondamento applicativo per tali «reati» era la Direttiva 160 della SMAD, 3 dicem*bre 1945), indi graziati con venticinque anni di lavoro forzato nel campo sibe*riano di Vorkuta. Nulla di strano che Helmuth G. di Sielow, classe 1901, mem*bro della SPD fin dal 1920 e iscritto alla SED, venisse arrestato nell'ottobre 1948 con l'accusa di wirtschaftlich-politische Hetze, «sobillazione economi*co-politica», rinchiuso a Cottbus per due anni, indi a Bautzen, ove fu condan*nato ai soliti venticinque anni (verrà liberato nel 1953 dopo la revisione del processo). Nulla di strano che il ventunenne pacifista liberaldemocratico Arno Esch e sei suoi compagni del Meclemburgo e della Pomerania occidentale fossero fucilati il 24 luglio 1951 nel carcere della MVD di Brest Litovsk.

    Dopo l'insurrezione popolare del 17 giugno 1953 venne inoltre giustiziato un numero imprecisato di «agenti nemici» e «traditori del socialismo». Il numero esatto non è noto ancor oggi, anche se 92 persone vennero sicuramen te fucilate. Dei 5143 incarcerati, 14 furono condannati a morte e 1067 a 6321 anni di carcere. Tra i poliziotti e i militari che si rifiutarono di sparare sulla folla ne furono fucilati almeno 52, mentre 1756 vennero condannati, per rifiu*to di obbedienza, a 2000 anni di carcere. Consegnati ai sovietici per essere da loro giudicati furono 131 membri delle forze dell'ordine, dei quali non si conosce il destino. Ancora, all'interno dei campi e delle prigioni, regnarono la sofferenza, il terrore, la morte.

    Dei 10.513 giudicati dai TMS per «crimini di guerra e crimini contro le Potenze di occupazione», 6143 («la maggior parte delle persone ancora dete*nute») vennero rilasciati il 17 gennaio 1954. Dei rimanenti, che avevano «compiuto crimini particolarmente gravi e costituito un pericolo per lo svilup*po pacifico e democratico della società», 290 furono rilasciati il 7 aprile 1955, 681 all'inizio di maggio e 2.616 nel dicembre (tale cifra comprende anche centinaia dei «criminali di guerra» del penitenziario di Waldheim, dei quali parleremo più avanti, non computati nei 10.513).

    Il 1956 - undici anni dopo la fine del conflitto! - vide il rilascio di altri 983 condannati (sia dai TMS, sia di Waldheim). Nel giugno-settembre furono rilasciati altri 6.000 prigionieri, per la maggior parte non più «nazisti» né «cri minali di guerra», ma oppositori del regime appartenenti ad ogni settore politi*co.

    Una pubblicazione ufficiale del Ministero per la Sicurezza dello Stato, celebrativa del quindicesimo «compleanno» della DDR, dà infine nel 1965, quali cifre della benemerita attività dello Stasi, a partire dal 1950, 423.76, i tedeschi inquisiti e 177.320 incarcerati per periodi più o meno lunghi.

    Così come la caccia ai ventimila scienziati poi deportati nell'URSS, anche la caccia ai civili tedeschi ebbe inizio durante i combattimenti, per dive*nire sistematica dopo la fine del conflitto. Subito dopo l'arrivo a Berlino del gruppo di Ulbricht il 30 aprile, del gruppo di Anton Ackerman (nato Eugen Hanisch) il giorno seguente, del gruppo Sobottka il 6 maggio e del Comitato Nazionale Germania Libera (formato dai sovietici nel luglio 1943 con prigio*nieri di guerra «antinazisti»), si cominciò a rintracciare i nazionalsocialisti e ad allontanarli dai loro posti di lavoro.

    Ciò avvenne con il minimo di inchiesta giudiziaria, quasi sempre sulla base del capriccio dei delatori comunisti. Dopo le prigioni di primo passaggio, la situazione peggiore fu quella dei campi di concentramento di Sachsenhausen e di Buchenwald, dati in gestione spicciola dalle autorità di occupazione a criminali comuni, ora nominati capi-baracca e responsabili del buon andamento della Rieducazione dei riottosi. A causa del progressivo incremento dell'afflusso di vittime, nuovi campi vennero istituiti ancor prima del termine del conflitto nel Wartheland, a Posen, e nell'Alta Slesia, a Oppeln e a Tost, come anche nelle altre regioni via via occupate dall'Armata Rossa, e cioè nelle provincie del Brandeburgo centrale e della Sassonia orientale (Ketschendorf, Francoforte sull'Oder, Weesow e Bautzen), nel Meclemburgo (Fünfeichen presso Neubrandenburg) e nel circondario di Berlino (Hohenschönhausen). Altri campi, dei quali alcuni dopo pochi mesi vennero smantellati, sorsero a Landsberg sulla Warthe, a Graudenz, a Schwiebus, a Torgau, a Mühlberg sull'Elba e a Jamlitz, cosicché già nell'inverno 1945-46 era sorto, sia nella Zona di Occupazione Sovietica, sia in quei territori che sarebbero di lì a poco passati sotto l'amministrazione polacca, un vero e pro*prio «sistema» concentrazionario con direzione centrale a Berlino Est.

    La decimazione dei prigionieri dovuta alle decine di migliaia di morti, il loro calo dovuto alla deportazione nell'URSS, il rilascio di molti internati (generalmente di quelli condannati a pene minori) permisero all'MVD di con*centrare la massima parte dei superstiti, dall'ottobre 1948, nei tre grandi campi di~Bautzen, Buchenwald e Sachsenhausen. Nella primavera 1950 anch'essi vennero chiusi e i detenuti vennero smistati in decine di luoghi di pena: carce*ri (Gef~ngnisse), penitenziari (Zuchthäuser), ospedali di detenzione (Haftkrankenhàuser), campi di lavoro (Arbeitslager) e altri campi minori, isti*tuti di prigionia preventiva (Untersuchungs-Haftanstalte) e case di correzione giovanile (Jugendhäuser).

    Fino alla primavera 1950 decedettero complessivamente, come detto, nei campi nominati, sicuramente 86.000 persone. Di tutti gli internati, dei trasferi*menti da un campo all'altro, dei decessi, non risulta si siano tenuti registri. I morti, i «giustiziati» - gli assassinati - dovevano essere ignorati per sempre, fantasmi la cui esistenza era svanita nel nulla (i campi, per via dell'impossibi*lità di comunicare con i familiari, erano conosciuti come Schweigelager, «campi del silenzio»), «colpe» per sempre imponderabili, sentenze ingiudica*bili, volti e sofferenze mai esistiti. Gli unici testimoni di queste morti furono, oltre ovviamente ai carnefici, i reparti addetti alle sepolture (spesso eliminati dopo l'ingrato lavoro); qualche spezzone di verità lo si poté cogliere in seguito anche dai sopravvissuti ancora in possesso di una forza, di una indignazione - e della possibilità - di testimoniare quegli orrori.

    Oltre ai boss tedesco-comunisti summenzionati, i principali responsabili del massacro furono due. Il primo: l'ebreo bielorusso Vladimir Vladimirovic Semjonov (futuro ambasciatore sovietico a Bonn, dal 1978 al 1986), consigliere politico delle truppe di occupazione e braccio destro dei vari plenipoten*ziari sovietici in Germania, i capi della SMAD (Maresciallo Georgij Zhukov dal 9 giugno 1945 al 10 aprile 1946, Maresciallo Vasilij Sokolovskij fino al 29 marzo 1949 e generale Vasilij Ciuikov fino al 10 ottobre 1949). La seconda: la tedesca-comunista Hilde Benjamin nata Lange, funzionaria dello Stasi (poi ministro della Giustizia dal 1953 al 1967; le si devono direttamente 146 con*danne a morte e 116.476 anni di carcere elargiti ad «agenti nemici»). Nota come «Hilde la Rossa» e «ghigliottina rossa», era stata la moglie dell'ebreo comunista Georg Benjamin (fratello del saggista Walter Benjamin) e l'amante interbellica di Paul Wenzel Rosbaud (nato a Graz nel 1896, il famoso «Grifone», il principale agente a Berlino del Secret Intelligence Service, infor*matore sulla ricerca atomica tedesca).

    Riportiamo di seguito, in ordine alfabetico, una lista dei campi conosciuti, la loro ubicazione, nonché, quando possibile, il presumibile ammontare della «forza» e dei decessi in ognuno di essi.

    1

    Al campo di concentramento di Bautzen, ufficialmente costituito il 13 giugno 1945 sull'area del penitenziario regionale, fu presto assegnato il titolo, assai eloquente, di Gelbes Elend, «Miseria Gialla». Esso costituì lo Speziallager Nr4, «campo speciale numero 4», dell'NKVD e fu popolato di prigionieri, pressoché tutti politici, condannati dai Tribunali Militari Sovietici. Gli alloggi erano ricavati negli edifici 2 e 3 del penitenziario e nelle baracche «interne». Centinaia di persone furono imprigionate anche in un gruppo di baracche «esterne». Nel 1948 furono rilasciati i primi 4.000 prigionieri. Per la massima parte gravemente ammalati e sull'orlo della fine, non si voleva più aver nulla a che fare con loro. Anche dopo questo primo rilascio, tuttavia, il numero degli internati rimase costante per mesi sugli ottomila (in tutto il tempo del funzionamento sarebbero passate per il campo 28.000 persone). Tra gli internati condannati, almeno 4.000 furono inviati in Unione Sovietica in campi di lavoro forzato.

    In «Miseria Gialla» fu detenuto nel settembre 1948 anche Walter Kempowski, condannato a venticinque anni di carcere duro. Nella sua testi*monianza, «I1 blocco», apparsa nel 1969, egli ha descritto in maniera sconvolgente i suoi otto anni di prigionia in questo campo del terrore. In un servizio sul quotidiano Die Welt del 24 febbraio del 1990, sotto il titolo «La ronda gira in Miseria Gialla», un brano illustra un momento dell'allucinante condizione degli internati: «Salii sul panchetto della mia cella e guardai fuori dalla fine*stra, nel cortile della prigione c'era la cosiddetta zona d'aria. Là barcollavano, senza mai fermarsi, in fila uno dietro l'altro, in tondo, quattrocento prigionieri. Dopo mezz'ora rientravano, ed altri uscivano nel cortile, quattrocento, anch'essi uno dietro l'altro. Ogni mezz'ora venivano fatti rientrare, e così con*tinuamente per tutto il giorno. Rinchiusi a Miseria Gialla c'erano ottomila pri*gionieri».

    A Bautzen nel 1948 fu detenuto, a fini rieducativi, anche il giovane Horst Anker. Arrestato nel 1945, quindicenne, sotto l'accusa di aver fatto parte del Werwolf - i «lupi mannari», i combattenti tedeschi della resistenza nei territori invasi - era stato condannato a morte. Per i nove mesi successivi era rimasto chiuso in isolamento in una piccola «cella della morte», quotidianamente immerso nel terrore di venire chiamato a ricevere un colpo di pistola alla nuca, quotidianamente ripreso dall'ansia di vita. I carcerieri gli si avvicinavano spesso di notte, strusciando le scarpe fuori dalla cella, fermandosi bruscamen*te, aprendo e sbattendo le porte di altre celle nel corridoio, poi qualche parola storpiata, talora un singhiozzo, passi strascicati, ancora uno struscio di scarpe, poi più nulla. E così per giorni, per settimane, per tutti i nove mesi della deten*zione. Due volte aveva udito degli spari nel cortile del carcere, senza sapere alcunché degli assassinati. Le celle vicine erano state nuovamente occupate. Le uniche parole scambiate in nove mesi erano state - per un ragazzo di quin*dici anni - quelle gutturalmente rivoltegli dagli ufficiali sovietici e dall'inter*prete. La tortura dei nervi era continuata con minacce di fucilazione, con inter*rogatori monotoni e vani, scosso da allucinazioni sempre più frequenti, da disturbi oculari ed articolari, mentre i piedi e le gambe gli si gonfiavano per gli edemi da denutrizione. Dopo nove mesi era stato tirato fuori dalla cella. Nel buio corridoio gli avevano comunicato che era stato graziato dalla magna*nimità del compagno Stalin. Nel frattempo i capelli gli erano divenuti total*mente bianchi.

    Ancora nel 1949 - quattro anni dopo il termine del conflitto! - vennero incarcerati trentotto adolescenti, come Anker accusati di Werwolftätigkeit, «attività di Werwolf». Nel 1950 ne sopravvivevano otto, sette dei quali affetti da tubercolosi.

    Dal gennaio 1950 il governo della DDR prese in carico dalle autorità sovietiche anche il complesso di Bautzen (la data ufficiale del trapasso fu il 15 febbraio), nel quale risultarono qualcosa come 14.000 detenuti contro i 7000 comunicati dai sovietici. Furono rilasciati 650 dei 1350 semplici internati che vi rimanevano, mentre dei 7700 giudicati e condannati dai TMS al carcere duro rividero la libertà in 2300, nella stragrande maggioranza i meno «colpe*voli». I 700 internati rimasti furono trasferiti per essere processati a Waldheim. Nel febbraio i 5400 prigionieri politici che ancora rimanevano furono dati in consegna alla Volkspolizei, che in parte li smistò in altri luoghi di detenzione.

    Il 13 marzo ebbe luogo la prima protesta per la mancanza di cibo e di cure e per reclamare la propria innocenza: ore e ore di grida da locale a locale, da edificio a edificio, migliaia di detenuti che, appesi alle inferriate, agitavano le misere lenzuola come bandiere. Prese di sorpresa, le autorità per il momento cedettero ma, quando il 31 marzo si rinnovò la protesta, fecero intervenire apposite squadre appoggiate da militari sovietici armati di mitragliatori, scate*nando i Volkspolizisten. Centinaia di internati colpiti da sfollagenti e bastoni - fratture, ferite agli occhi, commozioni cerebrali - dovettero venire ricoverati nell'infermeria del campo e nell'ospedale cittadino. Le violenze proseguirono senza eccezione anche contro i malati gravi e meno gravi degli edifici III e II, bastonati nonostante fossero rimasti nei loro letti. In alcuni locali ove erano degenti i sofferenti di TBC furono innaffiati i letti con gli idranti, in misura tale che restò un palmo d'acqua sui pavimenti. Un medico che aveva tentato di opporsi venne brutalmente percosso. Dopo le «rivolte della fame» la situazio*ne migliorò però lentamente e dal giugno fu concesso ricevere dall'esterno pacchi con generi alimentari.

    Il passare implacabile del tempo trova riscontro in due poesie della nazio*nalsocialista Lotte Laumer, la prima scritta nel settembre 1951, la seconda un anno più tardi:




    Seduta per tutta l'estate

    allo stesso posto sulla panca di legno,

    fisso fuori dall'inferriata,

    la mia nostalgia fiorisce come i fiori di campo.

    L'estate trapassa, l'autunno giunge veloce,

    un tiglio è il bosco frusciante,

    lo stagno il mio mare infinito,

    ho visto un letto di fiori, cosa voglio di più!




    Siedo qui proprio come l'altr'anno,

    solo più vecchia, più grigi i capelli.

    C'è ancora lo stagno, il tiglio è verde,

    in fila come le oche ci trasciniamo sul letto di fiori.

    È tutto come l'anno passato,

    solo più vecchia, più grigi i capelli.




    A «Miseria Gialla» il numero dei decessi fu particolarmente elevato. Si stimano morte, nei quasi cinque anni di amministrazione sovietica, 18.000 persone (altre fonti parlano di 12.000 e di 16.700). I cadaveri, denudati e cosparsi di calce viva, furono sotterrati in fosse comuni nella brughiera del cosiddetto Karnickelberg, a nord del campo, e nelle vecchie trincee di prote*zione antiaerea, sia all'interno che all'esterno del campo.

    2

    Il KZ di Buchenwald, istituito nel luglio 1937 sulle pendici settentrionali dell'Ettersberg presso Weimar, aveva raccolto detenuti politici e deportati da parecchi paesi europei ed era rimasto aperto al pubblico fino al luglio 1945 allo scopo di illustrare a fini rieducativi, mediante ispezioni coatte di massa della popolazione tedesca, la «barbarie» della «tirannide» nazionalsocialista. Gli antichi «nazisti» e coloro che li avevano in qualche modo sostenuti, appoggiati o giustificati, dovevano vedere coi loro occhi di quali nefandezze si fossero macchiati gli «sgherri» del passato.

    È in una di queste «esposizioni» che vennero mostrati, ai nauseati visita*tori obbligati, i «paralumi» di pelle umana «ordinati» a qualche volonteroso da Ilse Koch (la «strega di Buchenwald»), alcune «saponette» fabbricate col grasso dei cadaveri e le due famose teste mummificate che, spacciate come opera di un qualche sadico «nazi», al processo di Norimberga erano state fatte furti*vamente sparire allorché un etnologo aveva scoperto sul loro basamento i numeri di inventario del museo di storia naturale dal quale erano state sottratte al fine di costruire le «prove» dell'orrore «nazista».

    Dopo aver svolto questa nobile funzione rieducativa, una notte, improvvi*samente, il campo venne sbarrato agli estranei. Il 12 agosto esso fu «rimesso a nuovo» e battezzato Speziallager Nr. 2; nove giorni più tardi fu riaperto alla nuova popolazione di internati, accogliendo fino alla primavera del 1950 pri*gionieri anticomunisti. Mentre i vecchi guardiani venivano sottoposti a giudi*zio per crimini in parte commessi (ricordiamo che già nel 1943-44 i tribunali delle SS avevano condannato a morte, per atti di arbitrio compiuti contro gli internati, duecento addetti tra il personale di centinaia di campi, tra cui due comandanti di Buchenwald) e in gran parte inventati o non vagliati con suffi*ciente serenità di giudizio, e impiccati o condannati a pene dure, a Buchenwald continuavano, decuplicate, le sofferenze, le percosse, le angherie, gli assassinii. Fu soprattutto nei luoghi di detenzione in Turingia che risultò chiaramente il criminale comportamento dell'NKVD-MVD. Se, come rico*nobbero vittime ed osservatori neutrali, durante la guerra Buchenwald era stato, per quanto duro, un semplice campo di concentramento, «ora era l'infer*no».

    Perfino l'ebreo Eugen Kogon, acerrimo anti-«nazista» autore del libro Der SS-Staat, conferma indirettamente tale giudizio, riportando una tabella del vitto per gli internati nei campi «nazisti», che numerosi tra i detenuti passati sia per questi che per quelli della Zona Sovietica giudicarono, nel marzo 1950, di gran lunga più sopportabile: «Non solo l'igiene e la possibilità di lavarsi erano migliori nei campi amministrati dalle SS, ma era più nutriente e variato anche il vitto».

    Un detenuto che ci lasciò la sua testimonianza sull'estrema disumanità della nuova «gestione» fu il professor Otto von Kursell, rettore dell'Accademia d'Arte di Berlino fino al maggio 1945 e pittore stimato da Hitler. Imprigionato nelle carceri di Blanckenburg e di Halle e nei campi di Mühlberg (ove fu il pittore personale del comandante sovietico) e Buchenwald fino al 1950, in tale anno venne liberato senza «foglio di rilascio» e senza essere stato sottoposto a processo di sorta: «Una delle questioni sui campi di concentramento concerne il confronto tra i campi nazionalsocialisti e quelli sovietici. Per giudicare io mi baso sulle testimonianze di quegli ex prigionieri delle SS a Mühlberg, che, una volta liberati, furono semplicemente prelevati dall'NKVD e continuarono per più anni la loro detenzione in quello stesso campo. Mi baso anche sui rilievi fatti a Buchenwald dal 1948 al 1950 coi miei occhi. Tutto ciò è certo una questione ancora scottante, dato che dovetti con*statare come il campo di Mühlberg fosse, sia dal punto di vista organizzativo che come struttura abitativa, molto più inumano sotto i sovietici che sotto la direzione tedesca e che a Buchenwald vennero compiute modifiche dai russi per motivi puramente propagandistici, onde accusare in seguito i tedeschi. Le mie conclusioni contraddicono certo il quadro che la pubblica opinione si è formato, ed affermando quello che affermo io mi espongo all'accusa di volere attenuare il comportamento inumano della Gestapo o delle SS o difendere gli assassini di massa o le terribili offese contro la giustizia. No: il crimine resta crimine. Ma mi offende il fatto che la verità venga sacrificata alla propaganda e che la pubblica opinione venga formata in modo tanto tendenzioso. Mi offende il fatto che i tedeschi debbano essere considerati sempre i più malvagi di tutti i popoli - tutti i tedeschi - e che debba essere creduto soltanto ciò che parla contro di noi».

    Arrestata nel giugno 1946, indi passata per i penitenziari di Halle e Torgau, alla fine del dicembre giunse a Buchenwald anche la Mädelführerin Hedwig Kahle: «Una cosa ancora mi sono scordata di raccontare: le veglie di notte. Nella baracca qualcuno doveva sempre star sveglia dall'inizio alla fine della notte. Era un compito terribile, in quell'inverno che faceva spesso regi*strare temperature di venti-trenta gradi sotto zero. Il fuoco nella stufa rimane*va acceso dalle 19 alla una di notte. Alle 22 iniziava il primo turno, della dura*ta di due ore. Chi dunque si fosse felicemente addormentata e stesse appena vincendo il freddo veniva svegliata: giù dal letto, e due ore a camminare avan*ti e indietro nel freddo della baracca. Allora capii come possano essere lunghe due ore. Quando poi potevamo tornare sotto le coperte, restavamo per lo più sveglie fino al mattino, poiché era impossibile recuperare il caldo perduto. La nostra toilette serale consisteva per lo più nello spogliarci completamente, nel lavarci dalla testa ai piedi con acqua gelida e nel rivestirci con tutto ciò che avevamo, biancheria intima, vestiti, cappotto, berrette e guanti. Quasi tutte noi abbiamo portato addosso tutte le nostre cose giorno e notte, per tre mesi di fila. Ci voleva una volontà di ferro per abbandonarsi una volta al giorno a quel gelido lavaggio. Ma questa era anche l'unica possibilità di riscaldarci per qualche tempo. Le notizie che ci arrivavano sulla situazione degli uomini erano spaventose. Essi dormivano ancora senza pagliericcio, in due o tre per tavolaccio; il loro tempo di caldo era molto più breve del nostro, ancora più bassa la percentuale di quelli che erano in grado di lavorare. A migliaia mori*rono, da settantacinque a cento per giorno, fra i primi quelli che erano giunti con noi a Torgau».

    Nei mesi seguenti vennero trasportati a Buchenwald i sopravvissuti dei campi di Jamlitz, Ketschendorf, Landsberg, Mühlberg, Fünfeichen e Torgau. Il campo giunse così ad alloggiare mediamente da 10 a 12.000 prigionieri, dei quali 7-8000 donne. Anche se sono state avanzate cifre di 50.000 internati, il passaggio complessivo, fino alla chiusura nel febbraio 1950, viene solitamente valutato in 32.000 persone.

    Dopo il rilascio di 8000 condannati a pene minori, nell'estate 1948, e dopo il rilascio nel gennaio 1950 di altri 7000, 2154 prigionieri furono trasfe*riti nel penitenziario di Waldheim per esservi processati insieme ai 700 di Bautzen e ad altri.

    Edizione «tascabile» dei processi di Norimberga, la serie dei processi di Waldheim ebbe inizio il 21 aprile 1950. Vi furono giudicate, da trentasette giudici e diciotto procuratori, 3432 persone; ogni processo durò in media dieci minuti. Vennero comminati complessivamente 40.000 anni di carcere e pro*nunciate trentasei condanne a morte. A sei dei condannati (tra cui due donne) la pena capitale venne commutata, per grazia del presidente della DDR, in detenzione all'ergastolo. Due morirono prima dell'impiccagione. Quattro altri vennero graziati col carcere a vita la sera precedente l'esecuzione. Le rima*nenti ventiquattro impiccagioni vennero eseguite nella notte tra il 3 ed il 4 novembre. Delle ventiquattro vittime: sette erano magistrati, tre ufficiali di polizia, tre funzionari civili, uno medico, quattro commercianti, sei operai o artigiani. Quanto ai sopravvissuti, emblematico resta il caso di Herbert Röder, classe 1912, imprigionato nel 1945 a Ketschendorf, passato per Francoforte, Fünfeichen e Buchenwald e condannato a venticinque anni di carcere senza altra imputazione che di avere fatto parte della NSDAP dal dicembre 1932 e di avere portato il grado di Sturmführer a partire dal 1936 (sarà liberato, dopo essere stato trasferito nel carcere di Brandenburg-Görden, nel 1956).

    Vana fu l'isolata protesta, vano l'appello ad una revisione dei processi lanciato ad Ulbricht nel luglio precedente dallo scrittore antifascista Thomas Mann, esule in America negli anni del Terzo Reich: «In rapporto a ciò, Signor Presidente, vorrei porre questa questione, di cui mi permetto di parlarLe. Si tratta dei processi - se si può usare questo termine - che nell'aprile-maggio scorso si sono tenuti a Waldheim contro tremila e più persone da anni - alcune anche da cinque - detenute nei campi di concentramento della Zona di Occupazione Sovietica. Per giudicarle vennero istituiti dalla Corte Regionale di Chemnitz dodici grandi ed otto minori collegi - Tribunali Speciali (sebbene a quanto mi consta la re-istituzione di Tribunali Speciali sia proibita da una dichiarazione del Consiglio Alleato di Controllo) in ogni caso carenti di dignità giuridica. "Tribunali del Popolo" dunque, i cui metodi sono quanto di più sommario possa esserci. Questi infelici relitti umani, già calpestati, spiri*tualmente a pezzi, che sputavano sangue, destinati a morte rapida o lenta, sono accusati, e con ciò anche già giudicati, di collaborazione con il sistema di potere nazionalsocialista. Cosa io pensi in generale del nazionalsocialismo e del fascismo, non ho certo bisogno di ripeterLe. Ma io le chiedo, Signor Presidente, non retoricamente "davanti al mondo", ma da uomo a uomo: ha qualche senso il far giudicare questi poveri esseri, questi deboli uomini da rie*ducare che non hanno saputo far altro che navigare secondo come tirava il vento... ha senso farli giudicare nello stile del più selvaggio nazismo e dei suoi "Tribunali del Popolo", e offrire con ciò uno spettacolo sanguinario al mondo non comunista, uno spettacolo che vale come incitamento all'odio, alla paura, alla propaganda per l`”inevitabilità” della guerra, una sconfitta morale per tutti coloro che considerano questa guerra la più grande delle disgrazie che potreb*be accadere? Signor Presidente, Lei forse non sa quale orrore e quale indigna*zione, spesso simulati, ma spesso profondamente sinceri, abbiano fatto nasce*re in questa parte del mondo quei processi con le loro condanne a morte - poi*ché quelle pene sono tutte condanne a morte - come essi abbiano servito la mala volontà e nociuto alla buona. Un atto di grazia generoso e sommario, come sommarie sono state quasi tutte le sentenze di Waldheim, un tal atto sarebbe un gesto benedetto e propizievole alla speranza di una distensione e di una riconciliazione, un atto di pace».

    I primi atti di clemenza saranno costituiti dalla grazia concessa dal Presidente della DDR Wilhelm Pieck il 21 marzo 1951 e dal rilascio anzitem*po, nell'ottobre 1952, di un migliaio di condannati di Waldheim.

    Degli internati a Buchenwald, almeno 2100 furono deportati in Unione Sovietica. Tra gli ultimi ad essere deportati in URSS, i superstiti da Waldheim furono rimpatriati alla fine del 1955. A Buchenwald morì nel 1947 anche il conte Joachim Ernst von Anhalt, già oppositore del nazionalsocialismo e internato, in tempo di guerra, a Dachau.

    In pochi anni, in tempo di pace, in un campo non sconvolto dalla penuria né dalle epidemie scoppiate negli ultimi mesi di guerra, né dai bombardamenti aerei - come era invece stato per il campo retto dalle SS - morirono a Buchenwald 13.000 persone (secondo altre fonti 18.000). I loro cadaveri ven*nero gettati in fosse comuni nel settore orientale del campo, dove un boschetto sottraeva alla vista il «lavoro», o rovesciati in una gola presso Hotteistedt.

    Quando nel settembre 1958 il governo della ex DDR consacrò a Buchenwald un monumento commemorativo alle vittime del «nazismo» e quando nel 1970 il socialista Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale, vi prolungò la visita di stato da Erfurt onde deporvi una corona, nes*suno espresse la minima parola di commemorazione per le migliaia di vittime della ferocia comunista. Esse non erano altro, secondo la terminologia stali*niana, che «bestie fasciste».

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    A Sachsenhausen presso Oranienburg il vecchio campo di concentramen*to, uno dei primi istituiti dal regime nazionalsocialista, fu rimesso in funzione il 10 agosto 1945. Sorse così lo Speziallager Nr.7, uno dei principali, nel quale per anni 1'NKVD-MVD inviò i suoi prigionieri. I primi 150 furono presi in forza come reparto di lavoro dal campo di Weesow, onde approntare il nuovo «campo speciale». Vi vennero rinchiusi sia semplici internati non processati, sia carcerati passati attraverso i tribunali sovietici. Fin dall'inizio vennero for*mati trasporti per l'Unione Sovietica (tra internati e condannati, i deportati sono stimati in 5-7000). La forza media del campo oscillò tra gli 11.000 ed i 16.700 detenuti, dei quali 1000-1200 donne. Nell'estate 1948 vennero regi*strate punte di quasi 25.000 presenti.

    Del complesso dei campi di Sachsenhausen fece parte, fin dai primi giorni e fino all'autunno 1947, anche un «campo ufficiali» (Oflag). A centinaia gli ufficiali della Wehrmacht vi furono raccolti, umiliati, percossi, assassinati.

    Nella sezione femminile si trovarono talora anche una trentina di neonati e lattanti, la cui mortalità restò sempre alta. Vi vennero anche alloggiate, soprattutto nei primi anni, numerose donne incinte, per la maggior parte in conseguenza delle violenze subite durante il periodo di attesa del processo. Molti furono i casi di depressione e suicidio. Nei primi anni la cifra dei deces*si quotidiani, per le più varie ragioni, oscillò dai 15 ai 20.

    Un capitolo particolare concerne le punizioni impartite dalle autorità. Il vitto veniva in tali casi somministrato soltanto ogni due giorni. Le notti tra*scorrevano su tavolacci di pietra senza coperte né pagliericci o su pavimenti di legno fradici e marciti. Fino a metà 1948 nei casi più duri il detenuto, tra per*cosse e bastonate, veniva calato in una cantina scavata nel terreno, due metri per uno e mezzo di lato, coperta da una lastra di ferra con qualche buco per l'aerazione. Per accrescere il disagio della punizione, sul pavimento veniva spesso lasciata una spanna d'acqua. Il tormento poteva protrarsi anche due set*timane, e spesso comportava la morte a breve scadenza del detenuto.

    Nel marzo 1945 il quindicenne Eckhard W. di Senftenberg si trovava in un campo di addestramento militare per l'estrema resistenza contro i sovietici. Il crollo lo vide prigioniero in un campo presso Golzen, dal quale fu rilasciato dopo una settimana in virtù della sua giovane età. Tornato al paese e denuncia*to in dicembre ai russi quale Werwolf, Eckhard fu arrestato dall'NKVD, imprigionato dapprima a Calau ed in seguito a Cottbus e qui condannato a dieci anni di carcere. Trasportato a Sachsenhausen, vi rimase tre anni, poi fu trasfe*rito ad Alt-Strelitz per lavorare in un'azienda orticola. Coinvolto nella fuga di alcuni prigionieri, fu portato a Waldheim ove fu messo in officina a produrre parti di trebbiatrici. In conseguenza di voci di rivolta, dopo un isolamento in cella singola fu trasferito a Torgau, ove rimase, lavorando quale tornitore, fino al 4 gennaio 1956.

    Considerata Werwolf, la diciassettenne Rosi T. di Dessau, arrestata nel febbraio 1947, venne condannata nel giugno con altri venti giovani a dieci anni di lavoro forzato da un Tribunale Militare Sovietico. Da Dessau ad Halle, nel carcere «Roter Ochse» («Bue Rosso»), indi, pochi giorni dopo, a Sachsenhausen. Dopo la chiusura del campo, fu trasferita nel carcere di Hoheneck, ove rimase fino al gennaio 1954.

    Nel luglio-agosto 1948 e nel gennaio-febbraio 1950, furono rilasciate, rispettivamente, 3800 e 5000 persone. Alla chiusura del campo, il 10 marzo, 1200 donne furono trasferite nel penitenziario di Hoheneck, 4000 uomini in quelli di Torgau, Untermasfeld e Luckau. I restanti, ultimi 500 internati furono portati a Waldheim per esservi processati. Complessivamente passarono per Sachsenhausen 60.000 persone di ambo i sessi, delle quali tra 20 e 30.000 per*sero la vita (per altre stime: 13.000 e 14-16.000). Furono sepolte in un vivaio forestale lungo la strada Sachsenhausen-Schmachtenhagen, al di là dell'Havel, ottocento metri all'intemo del bosco.

    Tra i deceduti ricordiamo Heinrich George, uno dei più grandi attori tede*schi, morto il 25 settembre 1946 tra atroci sofferenze, dopo essere stato per un anno interrogato, bastonato, torturato e affamato. La sua colpa: avere recitato in film di gradimento del ministro dell'Educazione Nazionale e Propaganda dottor Joseph Goebbels ed essere stato da lui appoggiato nella carriera. Uomo un tempo bonario ed affabile, George, il cui peso abituale si aggirava intorno al quintale, era giunto a pesare poco più di quaranta chili. Il suo cadavere non andò incontro al destino comune, denudato e gettato in sepolture di massa, coperto da calce viva. Quattro suoi compagni di sventura lo seppellirono in una cassa d'abete nel cimitero del campo. Negli ultimi mesi riuscì a comporre, tra stenti e sofferenze, alcune poesie, due delle quali concludono il presente saggio.

    Nel 1949 decedette anche il professor Otto Nerz, già allenatore della squadra nazionale di calcio, del quale si è soliti sì riportare il decesso a Sachsenhausen, ma facendolo credere avvenuto nel vecchio campo «nazi» e per mano dei «nazi» (identico giochetto si è soliti compierlo per lo scrittore ebreo Ernst Wachler, «assassinato per motivi razziali nel campo di Theresienstadt nel settembre 1944», e in effetti chiuso sì nel campo boemo, ma dai ceco-comunisti e morto nel settembre 1945).

    Passato il campo, nel novembre 1949, in amministrazione alla DDR, parte dello Speziallager Nr.7 fu mantenuta in funzione, per decenni. Non solo «nazi*sti» o «simpatizzanti» vi vennero rinchiusi, ma anche numerosi socialdemo cratici, tra i quali molti che vi avevano soggiornato «ospiti» del nazionalsocia*lismo. Il bello - o il brutto - della vicenda è che molti, i quali erano sopravvis*suti anche a nove anni di internamento «nazista», vi persero ora la vita dopo tempi di gran lunga minori. Quale tragico esempio di queste centinaia di inter*nati ricordiamo Karl Heinrich. Imprigionato nel 1936 e inviato in questo campo, allora da poco approntato, doveva rimanervi fino al 1945, in condizio*ni peraltro discrete. Quale provato antifascista, alla «liberazione» Heinrich divenne vice-prefetto della polizia di Berlino, prima che la città venisse divisa nei due settori. Venuto però presto in urto con i sovietici, che volevano costringerlo a far parte della SED, fu imprigionato e, cinque mesi dopo la liberazione dalla «tirannide nazista», ri-internato a Sachsenhausen, nella medesi*ma baracca. Unici cambiamenti: le guardie vestivano ora l'uniforme sovietica e le condizioni di vita, pur in tempo di pace, non erano neppure lontanamente paragonabili a quella della vecchia prigionia. A tal punto che Heinrich morì nel 1948 di stenti e di malattie.

    Degli altri socialdemocratici vittime dei campi di concentramento o delle carceri sovietico-tedesco-comuniste, ricordiamo: Hermann Meise, dirigente sindacale di Görlitz, e Fritz Descher di Merseburg, imprigionati nel 1948; Max Frank di Stralsunda, ex dirigente del partito socialdemocratico tedesco durante la Repubblica di Weimar, imprigionato nel 1949; Paul Szillat, sindaco di Brandenburg, imprigionato nel 1950. Un oppositore del «nazismo» che decedette nel 1946 nel campo della Sachsenhausen comunista fu anche Horst von Einsiedel, membro del «Kreisauer Kreis». Erich Ollenhauer, il successore di Kurt Schumacher alla guida dell'SPD - Sozialdemokratische Partei Deutschlands, il partito socialista tedesco della Repubblica Federale - valutò a ventimila i socialdemocratici arrestati all'Est nei soli cinque mesi che vanno dal dicembre 1945 all'aprile 1946.

    Il 23 aprile 1961 il Comitato dei Resistenti Antifascisti inaugurò tra le baracche un monumento commemorativo alle vittime del «nazismo».

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    Il campo di Berlino-Hohenschönhausen venne istituito provvisoriamente sull'area di una grande mensa collettiva dell'amministrazione nazionalsociali*sta nell'omonimo sobborgo berlinese, lungo la strada che conduce al Freiwald. Alle baracche di un precedente campo di internamento furono aggiunti nell'agosto 1945 gli edifici e le baracche di una fabbrica di macchinari, cosic*ché il nuovo campo venne alla fine a comprendere due settori, chiamati I e II. Dopo la sua chiusura, già nell'ottobre 1946, il vecchio settore I venne utilizza*to dalla polizia sovietica come carcere principale di detenzione preventiva, finché nel marzo 1951 fu «passato», con le medesime funzioni, al Ministero per la Sicurezza dello Stato della DDR. Il settore II servì per qualche tempo anche come campo di lavoro forzato. Responsabile del campo di Hohenschönhausen fu, nei diciotto mesi della sua esistenza, il capitano sovie*tico Kumpan. Tutti gli arrestati politici di Berlino transitarono preliminarmen*te per questo campo, che dopo le trasformazioni assunse il nome di Speziallager Nr.3. Già nel luglio 1945, a due soli mesi dall'inizio dell'infuria*re dei delatori e degli inquisitori comunisti, giunse a contare 5000 prigionieri. Dodicimila arrestati vi transitarono complessivamente, venendo via via trasfe*riti nei campi di Ketschendorf, Weesow e soprattutto Sachsenhausen. Nell'agosto 1946 vennero rilasciati un centinaio di prigionieri.

    A Berlino-Hohenschönhausen decedettero almeno 3100 persone, nella massima parte per la terribile, lenta morte per fame. Tra gli internati si conta*vano molti Blockleiter, capi-fabbricato, nonché tutti coloro che avevano svolto una qualche parte attiva in organizzazioni assistenziali quali la Volkswohlfahrt, Assistenza Popolare, e il Winterhilfswerk, Soccorso Invernale. Particolarmente colpiti furono i Kreisleiter, capi di circoscrizione, del Partito. Vennero impri*gionati anche tutti quei semplici membri che, in virtù della loro professione (insegnanti, impiegati statali, etc.), erano stati in qualche maniera «nazisti atti*vi». Il medesimo destino calò su coloro che nelle organizzazioni giovanili ave*vano ricoperto le cariche di Gefolgschaftsführer (corrispondente nella Hitlerjugend al grado di sottotenente) e di Fähnleinführer (nel Deutsches Jungvolk) e quelle superiori. Egualmente la repressione calò su migliaia di ragazzi sospettati di aver fatto parte del Werwolf (qualche esempio: i 134 ado*lescenti del circondario di Calau, in Bassa Lusazia, sequestrati nell'estate 1945; i 40 di Schönebeck sull'Elba, arrestati dal 19 dicembre 1945 al 13 gennaio 1946; i 20 di Schildow, scomparsi ad opera dell'MVD nella notte del 14 luglio 1947; i 30 di Francoforte sull'Oder, arrestati all'inizio dell'agosto seguente).

    Egualmente divennero, secondo un'espressione allora corrente, «mangi*me per le prigioni e per i campi» coloro che avevano ricoperto le cariche da Mädelgruppeführerin in avanti nel Bund Deutscher Mädel, l'organizzazione giovanile femminile tedesca, migliaia di associate della Nationalsozialistische Frauenschaft, l'organizzazione che raccoglieva le donne nazionalsocialiste, moltissime ausiliarie della Wehrmacht (Wehrmachtshelferinnen) e ausiliarie ed infermiere della Croce Rossa Tedesca (DRK-Helferinnen e DRK-*Schwesterhelferinnen), nonché i membri dell'Organizzazione Todt e quelli del Reichsarbeitsdienst, il Servizio del Lavoro.

    Anche parenti di numerosi politici di primo piano della Repubblica Federale furono rinchiusi ad Hohenschönhausen. Uno di questi fu il suocero di Hans Klein, portavoce democristiano del governo federale (sua madre fu inve ce una delle 250.000 vittime tedesche durante l'espulsione dei tre milioni di tedeschi dai Sudeti). Il colonnello Ernest von Kretschmann, decorato della Pour le mérite nella prima Guerra Mondiale e zio della moglie dell'attuale Presidente Richard von Weizsäcker, fu assassinato in tale campo il 13 novem*bre 1945 (Hellmuth von Graevenitz, altro suo parente, fu torturato a morte il 17 gennaio 1947 nel campo di Buchenwald).

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    Il campo di Francoforte sull'Oder funzionò soprattutto come campo prin*cipale di smistamento (Hauptdurchgangslager) per i prigionieri di guerra tedeschi che dovevano essere - contro ogni norma della Convenzione di Ginevra, che prescriveva il rilascio, al termine delle ostilità, dei prigionieri (convenzione che peraltro i sovietici non avevano mai sottoscritto) - deportati in URSS. Tra costoro si trovarono anche prigionieri politici, ristretti in un campo a parte. I due campi erano situati nel sobborgo «Diga», ad est dell'Oder, in un blocco di caseggiati nei pressi della cosiddetta Waschbleiche, «edificio del candeggio». Un terzo luogo di raccolta fu allestito presso la caserma Horn; prigionieri e deportati vivevano sotto le stelle.

    Nell'estate 1945 si contavano complessivamente nel campo, tra prigionie*ri di guerra e internati politici, 7000 uomini, dei quali da 3 a 4000 politici del Brandenburgo e della Sassonia. Poiché Francoforte fu uno tra i principali cen tri di smistamento per i nuovi schiavi, l'ammontare dei detenuti subì nel tempo diverse oscillazioni, fino alla sua chiusura nel settembre 1947. Nessuna stima precisa si può fare dei decessi. I dati vanno in ogni caso da 4000 a 6000 persone (i decessi dei «politici» si valutano da 1000 a 2000). I loro corpi furo*no sepolti in aperta campagna, a sud del campo, in fosse comuni che si trova*no oggi in territorio polacco.

    Fu in questo campo che perse la vita, il 7 agosto 1947, all'età di 59 anni, la del tutto incolpevole - ma «nemica di classe» - imperatrice Hermine, spo*sata in seconde nozze nel 1922 dall'ex Kaiser Guglielmo II.

    Per Francoforte transitò anche Marianne Arndt, di Jüteborg nel Brandenburgo. Impiegata nel 1943-44 presso il Quartier Generale tedesco di Vinniza in Ucraina quale ausiliaria addetta alle comunicazioni (Nachrichtenhelferin), la giovane, rientrata presso la sua abitazione all'inizio del 1945, venne arrestata dai sovietici nel maggio. Condannata a morte «per spionaggio, possesso non autorizzato di armi e per avere preso parte alla guer*ra di aggressione contro l'Unione Sovietica», venne imprigionata per tre mesi nella cantina di una casa di Jüteborg. Nella tarda estate le fu comunicata la commutazione della pena capitale in dieci anni di lavoro forzato.

    Deportata a Francoforte, perse ogni possibilità di comunicare coi genitori e col marito. Nell'ottobre, insieme ad altre cinquantasette giovani donne, fu rinchiusa in un vagone merci che fu trascinato ad Oriente per quasi due mesi. Per tutto il tempo imperversarono il tifo e la febbre petecchiale, per cui quan*do il convoglio si arrestò, nel campo siberiano di Inta presso Vorkuta, nelle vicinanze del circolo polare artico, delle cinquantotto donne ne restavano in vita dodici.

    Inverno da settembre a maggio, temperature medie tra meno 35 e 40, con punte di 57 gradi sotto zero, terreno gelato fino a due metri di profondità, due o tre metri di neve in altezza, pioggia, fango, pochi giorni caldi solo in luglio e in agosto, accompagnati da nugoli di zanzare e di mosche, paludi. E lavoro in miniere di carbone, nove ore al giorno a rompere la vena nera con attrezzi pri*mitivi, riempire i vagoncini con pesanti badili. Il giaciglio, su un pancaccio a due piani, un sacco riempito di trucioli; il rancio, zuppa di cavoli con teste di pesce, qualche tozzo di pane, la sera una qualche zuppa, talora un cucchiaio di zucchero.

    Come la massima parte delle ausiliarie deportate e delle prigioniere fem*minili, Marianne venne considerata «internata civile» e non prigioniera di guerra. Per esse, come per i civili nazionalsocialisti imprigionati, non valeva norma giuridica alcuna, sottoscritta o non sottoscritta. Nessuna possibilità di comunicare, inviare o ricevere posta, non visite della Croce Rossa Internazionale. Per lei, come per migliaia di altre sventurate, ebbero valore per anni le desolate conclusioni della Commissione Scientifica del Governo Federale per le Vicende dei Prigionieri di Guerra: «All'Est si perdono le tracce delle ausiliarie della Wehrmacht, disperse nel destino comune dei deportati civili» (delle 20.000 ausiliarie e infermiere della Croce Rossa Tedesca depor*tate, ne scomparvero 7000).

    Il lavoro pesante, la fame, le malattie, fiaccarono i corpi e gli animi. Prima del rilascio, a metà degli anni Cinquanta, i sovietici, volendo cancellare le tracce più vistose della loro barbarie, vietarono il rientro in patria di donne così provate nel fisico, ricoverando le più gravi in campi di cura, onde render*le «presentabili». Alcune vi passarono persino un anno, prima di essere consi*derate nelle condizioni di sopportare il viaggio di ritorno.

    Liberata nell'ottobre del 1955, Marianne giunse nel campo di raccolta di Friedland presso Gottinga, dopo dieci anni di Siberia. Mentre le compagne si allontanavano, affiancate da qualche parente, amico o conoscente, restò sola sull'ampio piazzale. Data per morta, nessuno più l'attendeva; il marito si era risposato. Non appena ebbe notizia del suo ritorno, fece però annullare il secondo matrimonio e tornò con lei.

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    Il campo per prigionieri di guerra di Fünfeichen presso Neubrandenburg fu, insieme a quello di Ketschendorf, il primo a venire costituito. Utilizzato come Speziallager Nr.6, rimase in funzione dall'aprile 1945 all'ottobre 1948. La sua forza di 8000 prigionieri salì, dopo gli arrivi dai campi di Graudenz, Weesow, Hohenschönhausen e Ketschendorf nel febbraio 1946, a una cifra da 12 a 14.000 detenuti, uomini e donne. Almeno mille, in grado di lavorare, furono deportati in Unione Sovietica. Nel luglio-agosto 1948 vennero rilascia*ti 4000 prigionieri. Nel settembre i rimanenti 2600 furono trasferiti a Buchenwald. Un ultimo contingente di 160 internati, rimasto indietro per smantellare il campo, fu trasferito a Sachsenhausen nel novembre.

    Nel grande cortile retrostante le costruzioni e in una radura di pini nelle vicinanze del cosiddetto Sandberg, lungo la ferrovia Neubrandenburg-Burg Stargard, prigionieri di guerra e detenuti politici dovettero scavare quelle fosse comuni nelle quali sarebbero stati sepolti 6500 cadaveri (secondo altre stime 4800 o 8700 o più di 10.000). È da tale campo che giunsero al mondo nel marzo 1990, ad opera dello storico Dieter Krüger, le prime notizie sui ritrova*menti dei resti di duemila deceduti nei gulag della DDR.

    7

    A Graudenz sulla Vistola, nella Prussia occidentale, fu istituito nel novembre 1945 un campo di raccolta (Sammellager) per profughi, che servì anche come campo di concentramento per prigionieri di guerra e internati politici. Essi furono raccolti nel locale carcere, dal quale a più riprese vennero deportati in URSS. Dal novembre i russi istituirono un campo di concentra*mento vero e proprio, nel quale furono rinchiusi i deportati da Oppeln, Ratibor, Tost e da diversi centri di detenzione del circondario. Ben presto il campo fu saturo. Le misure sanitarie, il vettovagliamento e le cure mediche erano pressoché nulle. Cinquemila persone tra uomini e donne vi transitarono fino alla chiusura, nel febbraio 1946.

    Nel gennaio precedente erano stati rilasciati 500 prigionieri. Alla chiusura del campo 2500 furono trasferiti a Fünfeichen. A Graudenz persero la vita almeno 2000 persone (altri dati parlano di «più di 5000»).

    8

    Il campo di concentramento di Jamlitz, presso Lieberose, lungo la ferro*via dei Francoforte-Cottbus, fu istituito nel settembre 1945, sul posto di un vecchio campo di esercitazione delle SS. Diretto dal brutale Gerhard Bennewitz, era formato da baracche senza vetri alle finestre, chiuse da qual*siasi cosa atta si potesse trovare.

    In poche settimane fu occupato da 5000 prigionieri, giunti da Cottbus, Guben, Francoforte, Posen e Ketschendorf. Da quest'ultimo campo giunse nel gennaio 1946 anche il tredicenne Helmut L. di Zechin; arrestato su delazione quale «pericoloso» nazionalsocialista, dopo interminabili interrogatori e per*cosse aveva passato sei giorni a Müncheberg, otto a Seelow e sei mesi a Ketschendorf; da Jamlitz venne poi trasferito a Buchenwald, ove fu detenuto fino al 28 luglio 1948.

    Per il sedicenne Richard B. di Dammersdorf - arrestato il 2 dicembre 1945 con l'accusa di essere un Werwolf e di avere ucciso un soldato sovietico, portato a Lieberose presso la sede dell'NKVD e in seguito nelle prigioni di Lübben e Cottbus - Jamlitz fu, dal 19 dicembre, il primo di cinque campi e di quattro prigioni che avrebbe conosciuto in un decennio. Sopravvissuto ad una conta di tre ore, sull'attenti, all'aperto e nel freddo della notte di Natale, il gio*vane trascinò la vita a Jamlitz fino al marzo 1947, indi a Mühlberg sull'Elba fino alla chiusura del campo l'anno successivo, indi a Buchenwald fino al gennaio 1950, indi nelle carceri di Weimar, indi in quelle di Halle fino all'ago*sto 1950, indi nel carcere di Berlino-Lichtenberg, ove i carcerieri gli comuni*carono la sentenza emessa da un tribunale moscovita. Il 31 agosto, rinchiuso nella cella di un vagone postale, partì per Brest Litovsk. Di qui, per Orscha, Mosca e Sverdlovsk, giunse nell'autunno al campo di lavoro 31 presso Teischet. L'ultima tappa fu il campo di lavoro 22. Nell'agosto 1954 potè scri*vere in patria per la prima volta e venire assistito dalla Croce Rossa. Dopo la visita a Mosca di Adenauer, nel giugno 1955, le condizioni del campo miglio*rarono, finché all'inizio di ottobre i seicento uomini e le venti donne soprav*vissute vennero caricati su carri merci. Il 29 ottobre, dieci anni dopo l'arresto, Richard potè toccare il suolo della patria.

    Negli anni 1949-50 caddero su 26.833 prigionieri di guerra tedeschi in URSS (il 36 per cento dei quali appartenenti alle Waffen-SS, che a fine 1944 rappresentavano il 5 per cento delle forze combattenti) i fulmini dei famigerati articoli 58 e 59 del Codice Penale sovietico, l'applicazione del quale a carico di veri e soprattutto presunti oppositori dello stalinismo negli anni delle grandi purghe aveva portato a milioni di morti e internati nei gulag. Il 5 maggio 1950 Mosca rese nota la liberazione di 17.358 prigionieri di guerra (ne restavano detenuti ancora 13.000).

    L'applicazione dell'articolo 58, paragrafi 8, 9 e 11 (terrorismo contro fun*zionari, attività controrivoluzionarie e possesso illegale di armi) cadde però nel primo dopoguerra anche fuori dai confini sovietici, ad esempio sul diciottenne Gottfried F. di Guben. Arrestato, del tutto innocente, con altri otto ado*lescenti tra il 6 e il 14 dicembre 1945, venne portato a Reichenbach e, dopo pesanti interrogatori, trasferito a Cottbus, ove il 1° febbraio 1946 fu giudicato. Uno del gruppo fu condannato a morte, Gottfried e altri due a dieci anni di carcere, quattro a sette ed uno venne «assolto». Mentre quest'ultimo non fu però rilasciato ma internato a Jamlitz, Gottfried venne trasferito ad Alt*-Strelitz, nel settembre, a Sachsenhausen e, dopo la chiusura del campo nel marzo 1950, a Luckau, dal quale carcere fu liberato nell'ottobre. Dei nove, uno fu impiccato e due morirono di stenti e malattie a Sachsenhausen.

    Un quarto giovane imprigionato a Jamlitz come «pericoloso criminale nazista e Werwolf» fu il quindicenne Pimpf, tamburino della Hitlerjugend, Kurt Noack. Arrivatovi da Ketschendorf nel febbraio 1947, sarebbe stato poi ospite di Buchenwald, ove, prigioniero matricola 18.383, vi sarebbe rimasto fino al 29 luglio 1948. Arrestato a Gro Kölzig, Bassa Lusazia, il 30 luglio 1945 - suo padre, agricoltore, era scomparso dal 16 aprile combattendo nel Volkssturm - era stato trasferito in diverse prigioni, ove tra percosse di ogni tipo polacchi e sovietici avevano cercato di fargli confessare crimini inesisten*ti.

    Suoi sono due tra i racconti più raccapriccianti del sistema concentrazio*nario comunista: nella primavera 1947 Heinz Becker, di Reichersdorf presso Guben, apprendista macellaio e figlio unico, viene dato per deceduto per polmonite e portato all'obitorio del campo. Poco prima che la squadra di seppelli*mento arrivi per denudarlo e gettarlo nelle fosse, il sedicenne apre gli occhi: indietro, si torna nel lazzaretto. Dopo pochi giorni, nuovo decesso, nuovo tra*sporto all'obitorio e nuovo ritorno al lazaretto. Ancora pochi giorni e soprag*giunge il vero decesso: la terza volta Becker non rischia di essere sepolto vivo. La seconda vicenda concerne Gerhard Zegler di Freienhufen presso Senftenberg: nel delirio provocato dalla febbre il quindicenne salta da una finestra ai piani superiori e si fracassa la testa al suolo. Seriamente ferito, viene trasportato nella baracca degli ammalati. Rantolando nell'incoscienza, sbatte in continuazione il capo contro la parete, finché la morte giunge, misericordiosa, qualche giorno dopo.

    Altri «ospiti» del campo furono il regista, attore e direttore teatrale Gustaf Gründgens, liberato nel 1946, e l'attrice Marianne Simson (che aveva ricoper*to un ruolo nella pellicola G.P.U. di Karl Ritter, 1942), la quale, già passata per Ketschendorf con i genitori, dovette conoscere anche Mühlberg e Buchenwald. Nel campo morirono invece Justus Delbrück e il conte Ulrich von Sell, già imprigionati dai nazionalsocialisti quali complici degli attentatori del 20 luglio (per inciso, l'inchiesta aveva coinvolto 4980 sospetti fra civili e militari, la massima parte dei quali era stata riconosciuta non colpevole, 136 erano stati giustiziati per alto tradimento e 14 si erano suicidati prima dell'arresto).

    La forza media del campo di Jamlitz fino all'aprile 1947, data della chiu*sura, fu di 6000 internati. Per esso passarono da 10 a 12.000 persone, mille delle quali vennero deportate in Unione Sovietica. I pochi alberi del cortile del campo si presentavano, nell'invemo 1945-46, spellati fino all'altezza di due metri, poiché gli internati, per placare la fame, si erano cibati della corteccia. Nel corso della sua esistenza (diciannove mesi) persero la vita 5000 persone (secondo altre stime 4000). 14400 sopravvissuti furono trasferiti a Mühlberg e Buchenwald in condizioni penose. I 5000 cadaveri furono gettati in fosse comuni in un vivaio forestale ad oriente della ferrovia, in un campo di mano*vra dell'Armata Rossa, nella direzione di Guben. Attualmente sulla zona del vecchio campo sorgono numerosi villini.

    9

    Ketschendorf presso Fürstenwalde fu uno dei primi campi in cui furono rinchiusi i «nazi». Già nell'aprile 1945 l'Amministrazione Militare Sovietica vi inviò prigionieri fino a raggiungere la forza media di 6000 detenuti, con punte di 10.000. Vi transitarono, fino alla chiusura, da 18.000 a 20.000 prigio*nieri, tra cui 1800-2000 bambini e adolescenti accusati di attività partigiana antisovietica (in maggior parte dodici-diciassettenni Pimpfe e Hitlerjungen, morti di fame per oltre il cinquanta per cento) e 300 donne. Al 17 febbraio 1947, quando venne chiuso, sopravvivevano 1400 persone, che vennero tra*sferite in diversi campi o deportate all'interno dell'Unione Sovietica. Un con*tingente di cinquanta fu deportato a Buchenwald, dal quale campo tornarono in pochissimi. Sulla base delle testimonianze, la mortalità a Ketschendorf, per fame e malattie infettive, fu sempre altissima. Non meno di 6000 cadaveri (altre stime ne danno 5300) giacciono in fosse comuni nella terra di nessuno fra lo Speziallager Nr.5 e l'autostrada Magdeburgo-Francoforte sull'Oder.

    Insieme a 500 donne di tutte le età fu «ospite» del campo, dietro il filo spinato, la Reichsfrauenführerin, dirigente in capo delle donne nazionalsocia*liste, Gertrud Scholtz-Klink.

    Per Ketschendorf passarono anche il quattordicenne Walter J. di Groräschen e il sedicenne Joachim K. di Berlino. Il primo fu fatto arrestare dal nuovo sindaco del villaggio nel settembre 1945 e transitò prima per le car*ceri NKVD di Senftenberg, Calau e Cottbus. Chiuso il campo, fu trasferito a Jamlitz, Buchenwald e Waldheim, ove fu condannato a vent'anni di peniten*ziario per «avere sostenuto il sistema di violenza nazionalsocialista quale iscritto della Hitlerjugend e membro del Werwolf ed aver minacciato la pace del popolo tedesco dopo l'8 maggio 1945». «Passato» a Bautzen, sarebbe stato liberato nel luglio 1954. Il secondo, arrestato con la sorella ventenne nell'agosto 1945, venne dapprima incarcerato presso il tribunale di Cottbus, ove la sorella mori nell'ottobre, indi trasferito a Ketschendorf e Fünfeichen, donde fu rimesso in libertà il 24 luglio 1948 dopo aver visto morire numerosi compagni di scuola.

    10

    Il campo di Landsberg sulla Warthe, diretto dal maggiore Nikitin, fu isti*tuito nel giugno 1945, ma venne chiuso già il 5 gennaio 1946. I prigionieri erano ristretti nelle stanze affollatissime della caserma «Walter Flex» sul Krähenberg. Si trattava di un campo di raccolta e di transito (Sammel- and Durchgangslager), nel quale erano stati trasferiti quei 1800 prigionieri che non avevano potuto trovar posto nelle sovraffollate prigioni di Berlino. A loro si aggiunsero presto 3000 prigionieri del campo di Weesow, come anche altri 2000 di Posen e di Francoforte. Nel novembre fu assemblato un trasporto di 2000 uomini, destinazione Breslavia. Il viaggio, di duecentocinquanta chilo*metri, fu compiuto in sei giorni; nel corso di esso non furono distribuiti generi alimentari. Almeno cento prigionieri morirono nei vagoni merci. Poiché a Breslavia non c'era possibilità di sistemazione, i sopravvissuti vennero rispe*diti a Landsberg per la stessa via.

    Il vitto quotidiano, nel campo, consisteva solitamente in centosessanta grammi di pane e pochi grammi di carne conservata. Dei duemila della «mar*cia della morte» verso Breslavia erano rimasti in vita, nel luglio 1948, cento trentotto persone. Almeno 4000 persone furono deportate in URSS. Alla chiu*sura, 3000 internati vennero trasferiti a Buchenwald. Il numero complessivo dei morti di Landsberg si aggira sulle 3000 persone (altre stime ne riportano 2500).

    11

    Nel campo di Mühlberg sull'Elba, ufficialmente costituito 1'8 settembre 1945 riattando le baracche di un vecchio campo per prigionieri di guerra e cin*tando con filo spinato un tratto di brughiera deserta, vegetarono complessivamente 22.000 internati nell'arco di tre anni. Fu a questo campo che toccò l'ambiguo onore di venire promosso Speziallager Nr.l. Da esso, rifornito com'era dalle prigioni sassoni, da Magdeburgo e Halle, come anche dai campi di Bautzen, Jamlitz, Ketschendorf e Torgau con sempre nuovo «materiale» umano, furono deportati in più riprese in Unione Sovietica tremila fra uomini e donne.

    La forza media salì presto a 12.000 detenuti. Un primo, esiguo rilascio, avvenne nel settembre 1946. Con la chiusura nel novembre 1948 furono rila*sciati 7000 prigionieri. I rimanenti 3000-3500 vennero inviati a Bautzen e Buchenwald.

    A Mühlberg morirono in tre anni 7000 persone (altre stime parlano di «oltre 10.000» e di «tra 8000 e 12.000») nelle condizioni più spaventose. Tutte furono sepolte in fosse comuni nella brughiera intorno al poligono di tiro, a nord del campo e nelle vicinanze del cimitero ai piedi del cosiddetto Fuchsberg, il «monte delle volpi». La massima parte dei prigionieri morì di fame.

    Letteralmente sparito nel nulla fu il padre di Gunther F., di Rochlitz, arre*stato nella sua abitazione la sera del 9 gennaio 1946, le cui tracce si persero nel campo, senza che fosse mai stato comunicato ai familiari né il decesso né un trasferimento ad altri campi; la sua unica colpa: essere stato redattore del Peniger Tageblatt, il quotidiano di Penig.

    Alla vita del campo sopravvisse invece la sedicenne Inga P di Forst in Lusazia, arrestata il 4 luglio 1945 per «attività Werwolf» con l'accusa di avere versato dalla finestra del tè bollente su alcuni ufficiali sovietici, provocandone la morte. Giunta a Mühlberg dopo essere transitata per Ketschendorf e Jamlitz, fu liberata il 20 agosto 1948 (il padre, sopravvissuto a Ketschendorf, era nel frattempo morto a Jamlitz).

    Una delle testimonianze più toccanti delle condizioni di vita in questo campo è quella di Gertrud Waldschütz, Frauenschaftsleiterin, dirigente dell'Associazione delle Donne nazionalsocialiste. Strappata ai figli di quattro, sei e quattordici anni (un quarto figlio prestava servizio in marina, il marito era caduto combattendo nel Volkssturm), dopo avere peregrinato per diversi campi era giunta a Mühlberg: «Qui mi presi cura dei malati di tubercolosi, nella baracca dei malati più gravi. Stavo volentieri con "i miei giovani". Giacevano là ragazzi di età dai quattordici ai vent'anni, la "primavera della nazione", e si andavano spegnendo per fame. La TBC aveva preso per primi i più grandi, ma ora vi stavano soggiacendo anche tenere, esili figure ancora fanciulli, sospettati per lo più di avere fatto parte del Werwolf. A Jamlitz ave*vamo un ragazzo di dodici anni il quale [prima di essere arrestato] si era costruito in un bosco una capannuccia che ostentava orgogliosa la scritta “Werwolf”. Il suo gioco infantile e sciocco non era stato chiaramente creduto ed era stato imprigionato. Ancora lo vedo - un puntino che a tratti scompariva - avanzare all'appello sul vasto piazzale; ancora risento l'aspro sarcasmo del medico del campo, un vero antifascista: "Piccolo Fritz, terrore della gloriosa Armata Rossa, davanti a te trema l'Europa". Il piccolo Fritz, che fu deportato in Russia, è ora divenuto certamente un giovane russo, vestito dai russi e ben nutrito. Ma molti adolescenti che non avevano avuto la fortuna di avvicinarsi ad un qualche posto dove trovare da mangiare furono sopraffatti dalla tisi, se pure la dissenteria o il tifo non li avevano già portati via. I farmaci mancavano quasi del tutto e soprattutto mancava un'alimentazione più sostanziosa [...] Il comportamento di questi giovani malati incurabili - studenti liceali, alunni delle elementari, apprendisti, e non tutti capi della Hitleijugend - ci impres*sionò grandemente. Giacevano e sedevano senza fare rumore; i più in forze si davano volentieri da fare, lavoravano a maglia usando i vecchi indumenti di lana dei morti o intagliavano con primitivi strumenti piccoli oggetti di legno o di osso. Libri non ce ne erano, così rimaneva solo da raccontare. Quelli che li assistevano, per lo più anziani padri di famiglia, taluni dotati di un senso dell'humour particolarmente felice, tiravano fuori dalla loro memoria tutto ciò che un tempo avevano imparato, letto e vissuto, poiché i giovani non dispone*vano ancora di una grande miniera di ricordi... una miniera che anche noi abbiamo imparato ad apprezzare per la prima volta in prigionia».

    Ma la solidarietà che traspare dalle parole di Gertrud Waldschütz non s'accese in taluni casi, soprattutto nei campi e nelle situazioni più disperanti. Come conferma Kurt Noack: «Avevamo appena ancora un minimo sentimento di gruppo, poiché in quella situazione senza via d'uscita ognuno pensava a se stesso». Dopo la fame e l'apatia dovuta alle malattie, e prima dell'assoluta assenza di contatti col mondo esterno, un aspetto della tattica disumanizzante dei sovietici era la noia, l'inattività forzata voluta dalle autorità, il puro e sem*plice vegetare senza far niente, privati di orologi, specchi, immagini, fotogra*fie, matite, penne e carta per scrivere, costretti a non parlare di argomenti poli*tici o a non commentare la vita dei campi. «Il principio del lavoro forzato fu sostituito dal principio dell'inattività forzata», scrive Karl Wilhelm Fricke, autore di Politik und Justiz in der DDR. «La cosa più terribile» - continua Noack, l'ex giovane Pimpf - «era essere condannati a far nulla. La giornata diventava lunga, senza fine. Penso ancora che una simile pena sia peggiore che il venire assegnati a una squadra di lavoro. In questo caso si può parlare tutto il giorno coi compagni di sventura. Solo parlare. Fa piacere parlare di tutti i problemi possibili. Alla peggio c'erano i discorsi che vertevano sul mangiare. L'argomento numero uno era questo».

    12

    Il giugno 1945 vide anche l'istituzione del campo di Oppeln. Tutti gli imprigionati del circondario passarono per questo campo.

    Da esso furono presto tolti i prigionieri della disciolta Werhrmacht e della polizia che fossero in grado di lavorare, i quali furono trasferiti in uno Speziallager a Bolko presso Oppein, dal quale campo partirono numerose tra*dotte per l'URSS. Complessivamente, passarono dietro il filo spinato 1400 persone. Come tutti gli altri campi sovietici sul suolo «polacco» venne chiuso nell'inverno, quando venne ufficialmente consegnato alla nuova Amministrazione di Varsavia, che continuò ad utilizzarlo per proseguire la politica di espulsione dei tedeschi e «pulizia etnica» (almeno 1255 risultano tali campi di sterminio). Quali risultati comportasse la «gestione» polacca lo possiamo dedurre per confronto dai dati del campo di Lamsdorf: degli 8000 internati in questo campo persero la vita in 6488 (tra i quali 628 bambini), per*cossi, affamati, fucilati e persino sepolti vivi.

    13

    Nel campo di Posen, istituito dall'Armata Rossa nel sobborgo di Sankt Lazarus già nell'aprile 1945 e rimasto in funzione fino al dicembre, regnò per nove mesi la brutalità del colonnello Orlov. Dopo i prigionieri di guerra vi giunsero numerosi i trasportati dai sovraffollati campi di Ketschendorf e Schwiebus, per cui Posen giunse in breve a contare 7000 internati. Un piccolo numero, soprattutto donne, fu rilasciato nell'agosto. Nel settembre ebbe inizio l'evacuazione: 1000 uomini a Jamlitz e 2000 a Landsberg. Nell'ottobre venne*ro deportati in URSS 3000 internati, tra i quali 2000 Ostarbeiter («lavoratori dei paesi del'Est»), soprattutto russi, che avevano volontariamente affiancato lo sforzo bellico tedesco, e vecchi combattenti di Vlasov. Erano «rimpatrianti» che si difesero con le unghie e coi denti, tentando disperatamente di opporsi all'annuncio di una morte certa e mostrando quanto poco avessero a cuore la «patria» sovietica. Molti si uccisero quando vennero a conoscenza del «rimpa*trio». Il 31 dicembre il campo venne chiuso. Ammontano a 2000, o a «oltre 1000», i deceduti.

    14

    Dal campo di Schwiebus è nota praticamente soltanto l'ubicazione. Parte degli internati furono smistati a Posen nell'estate 1945. Venne chiuso prima dell'inverno.

    15

    Quando 1'8 settembre 1945 i primi prigionieri fecero il loro ingresso nel campo di Torgau sull'Elba - la cittadina che il 25 aprile aveva visto il primo abbraccio fraterno tra Occidentali e Sovietici, congiuntisi sull'Europa distrutta - non immaginavano che cosa li aspettasse.

    A Fort Zinna, antica prigione militare, furono rinchiuse fino al gennaio 1946, in ambienti affollatissimi e malsani, 7000 persone. Nel giugno vi giunse anche il sedicenne Manfred F. di Groräschen, arrestato il 5 novembre prece dente per appartenenza alla Hitlerjugend e la consueta «attività Werwolf», condannato a morte (poi graziato con venticinque anni di carcere) alla fine di gennaio da un tribunale sovietico di Potsdam. Nel luglio 1200 condannati ven*nero trasferiti a Sachsenhausen. Nel maggio-giugno gli internati avevano peraltro cominciato ad essere trasferiti dal forte alla vicina caserma Seydlitz, dopo che un trasporto di 4000 prigionieri era partito per l'URSS. Il numero degli internati alla Seydlitz salì presto a dismisura (seimila), sicché anche il nuovo luogo di detenzione non potè contenerli tutti. Dal dicembre 1946 al gennaio 1947 ottomila detenuti delle due prigioni furono trasferiti a Mühlberg e Buchenwald. Un contingente di 135 internati rimase indietro per seppellire gli ultimi morti, nel febbraio-marzo, mascherando le fosse comuni, e raggiun*se Mühlberg il 24 marzo. Quanto a Manfred, nell'inverno 1947-48 fu trasferi*to a Bautzen con altri mille compagni di sventura; vi sopravvisse fino alla liberazione nell'aprile 1951.

    A Bautzen fu trasferito nell'aprile 1947 anche il diciannovenne Benno Prie. Nella primavera di due anni prima aveva preso parte, inquadrato in una regolare unità dell'esercito, all'estrema resistenza opposta ai sovietici intorno a Görlitz. Catturato il 27 aprile, gli era riuscita la fuga e il rientro presso la famiglia a Bützow nel Meclemburgo. Qui era stato arrestato il 5 maggio 1946; portato a Güstrow, aveva «soggiornato» in un carcere della MVD per quattro mesi, al termine dei quali era stato condannato a dieci anni di campo di lavoro per una inesistente attività Werwolf. Trasferito a Torgau il 24 novembre, nel febbraio era stato portato a Brest Litovsk in attesa del «grande balzo» in Siberia, ma nell'aprile era stato fatto rientrare in Germania, precisamente a Bautzen, dove era rimasto fino all'agosto 1948. I successivi soggiorni erano stati il campo di Sachsenhausen e, alla sua chiusura, il penitenziario di Waldheim. La liberazione sarebbe avvenuta il 13 gennaio 1954.

    Il numero complessivo dei transitati per Torgau nel corso dell'esistenza dei due settori del campo, è stimato a 12.000. I morti, a 2000 (a 600 secondo altre stime). I tribunali sovietici giunsero a Fort Zinna per la prima volta all'inizio del 1950. Qui si trovavano ancora 4000 prigionieri, che in due ripre*se, il 27 e il 30 gennaio, vennero trasferiti a Torgau-città e presi in consegna dalla Volkspolizei.

    Nell'istituto di pena di Torgau si distinse per crudeltà, nel corso di quell'anno, il comandante del carcere, maresciallo capo Gustav Werner, der Eiserne Gustav, «il Gustavo di Ferro». Già detenuto in campo di concentra mento nazionalsocialista in quanto criminale comune, costui, guardia campe*stre nel 1947 e Volkspolizist nel 1948, aveva bastonato a Neundorf alcuni gio*vani nel corso di un controllo di documenti. Trasferito per punizione a Torgau, si distinse ben presto quale capo di un gruppo di sadici poliziotti. Il 15 giugno il prigioniero politico Horst Göllnitz di Bautzen, classe 1894, già maggiore della Wehrmacht, fu da lui percosso in modo tale da riportare la frattura della base cranica e la morte. Egualmente, tre giorni dopo fu bastonato Hermann Priester, insegnante di Rostock, che riportò la frattura di un femore. Poiché non poteva reggersi in piedi, l'aguzzino lo trattò da simulatore e riprese a per*cuoterlo, fratturandogli in aggiunta il bacino. Pochi giorni dopo lo sventurato decedeva per le lesioni. Ancora da Werner, alla fine dell'anno, fu condotto a morte per percosse - calci e colpi di sfollagente - Otto Gebhardt, che aveva osato sottrarre dalla cucina tre o quattro patate. Trasferito in infermeria dopo l'aggressione, Gebhardt decedette tra atroci sofferenze qualche giorno dopo.

    Fort Zinna rimase in funzione come Strafvollzuganstalt, istituto di pena, per detenuti politici fino agli ultimi mesi di esistenza della DDR.

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    A Tost presso Gro-Strelitz, Alta Slesia, furono rinchiusi, dall'aprile al 27 novembre 1945, 4500 prigionieri (uomini e donne) nella locale casa di cura psichiatrica, giunti in due riprese da Breslavia e Bautzen. Nell'agosto 1945 vi furono trasferiti anche 300 Volksdeutsche dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia. Donde precisamente vennero deportati non si sa tuttora, poi*ché nessuno di essi riapparve più in qualsiasi luogo.

    Dopo la chiusura del campo (diretto per i nove mesi della sua esistenza dal colonnello Pylajev), gli ultimi 1000 detenuti raggiunsero Graudenz, men*tre altri 700, i più infermi, vennero rilasciati. A Tost, dove passarono comples sivamente 7000 persone, la cifra dei decessi fu la più alta tra tutti i campi, avvicinandosi al cinquanta per cento. Non meno di 3000 cadaveri furono sepolti in una cava di ghiaia, a un chilometro dal campo.

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    L'ultimo dei grandi campi conosciuti è Weesow, presso Werneuchen, nel Brandenburgo. Colà, in sei fattorie del villaggio, 1'NKVD istituì il primo KZ già nel maggio 1945, subito dopo l'ingresso delle truppe sovietiche. Vi venne ro raccolti, da Berlino-Hohenschönhausen, quei prigionieri che poco dopo sarebbero stati trasferiti con autocarri, per ferrovia o a marce forzate, nei campi di concentramento di Francoforte sull'Oder, Landsberg, Fünfeichen e Sachsenhausen. Quando il campo fu chiuso, già il 16 agosto, gli ultimi 200 prigionieri furono messi in marcia verso Sachsenhausen. Gli uomini che non potevano proseguire per lo sfinimento furono abbattuti con un colpo di pistola alla nuca. Nei boschi circostanti furono seppelliti 1500 cadaveri, opera dei cento giorni di funzionamento del campo, che era stato «visitato» da 9-10.000 sventurati.

    Un ultimo campo di transito che concerne, per quanto tangenzialmente, l'argomento del presente saggio fu quello di Auschwitz, campo di raccolta per centinaia di migliaia di tedeschi deportati in Unione Sovietica. Già il 28-29 maggio 1945 partirono da esso per Karaganda, Kazakistan, 1200 prigionieri di guerra e 800 civili; pochi giorni dopo altri 1800 militari e 200 civili vennero caricati in carri bestiame per Prokopovesk, Siberia occidentale. Seguono, in soli quattro mesi: 12 giugno (Kujbisev, Siberia, 2000 e 1150), pochi giorni dopo (Kiselevsk-Bajdaevka, Siberia, 1800 e 200), 16 giugno (Kemerovo, Siberia, 1800 e 200), 11 luglio (Stalinogorsk, 2700 e 150), 17 luglio (Sambor, 2000 e 500), 18 luglio (Beslan-Mozdok, Caucaso, 800 e 200), 30 luglio (Murmansk, 2000 e 400), 11 settembre (Vysnij Volocek, 1200 e 900; dei 2100 ne morirono 600 durante il viaggio), fine settembre (Molotovo, Transcaucasia, 1000 e 100). La storia continuò poi tragicamente, ospitando nelle ex olo*baracche anche ungheresi, cechi, rumeni e polacchi anticomunisti, fino al 23 giugno 1947.

    Fino al 14 gennaio 1950 i campi furono amministrati dai sovietici, venen*do, dopo la fondazione della DDR il 7 ottobre 1949, via via presi in carico dalle nuove autorità, che rimasero peraltro sotto la tutela di una «Commissione Sovietica di Controllo in Germania». Tutti i campi erano stati sottoposti ad un ferreo regime di sorveglianza, cosicché praticamente nulle erano state le fughe - anche perché pressoché nulli erano stati i tentativi di evasione, dato lo stato di prostrazione in cui gli internati, uomini e donne, venivano tenuti.

    Nella massima parte i luoghi di detenzione sovietici svolsero la funzione di veri e propri campi di sterminio, anche se di sterminio «dolce», lavorando sulla base di quel «principio di autoannientamento» caldeggiato dal maggiore sovietico citato. La pena di morte fu abolita anche nella Zona con decreto del Presidium del Soviet Supremo il 26 maggio 1947, ma reintrodotta, per i soli crimini politici, il 12 gennaio 1950; l'ultima condanna capitale fu pronunciata da un Tribunale Militare Sovietico contro un cittadino della DDR nel settem*bre 1954, l'ultima sentenza a detenzione nel settembre 1955. I detenuti mori*rono massimamente per fame, malattie (polmonite, dissenteria, tifo, tubercolo*si, flemmoni, erisipela, setticemie, deperimento con distrofia, etc.) e per gli stenti patiti nei trasferimenti da un campo all'altro. Solo in piccola parte ven*nero direttamente assassinati o «giustiziati» - ad esclusione di quei 20.000 che nei campi neppure arrivarono e giunsero a morte in fase «istruttoria».

    Non tutti vennero sottoposti a processo da parte dei Tribunali Militari Sovietici; una percentuale che possiamo valutare sul trenta-quaranta per cento fu trasferita direttamente nei campi, senza giudizio. Nessuna documentazione processuale è comunque finora nota. Poiché al momento del trasferimento dei detenuti all'amministrazione della DDR non vennero trasmessi i relativi fasci*coli, è verosimile che essi siano stati distrutti, così come non risulta si siano tenuti i registri nominativi dei trasferimenti né dei deceduti. Difficilmente in ogni caso, a meno dell'apertura degli archivi più custoditi - quelli tenuti dal KGB, erede dell'NKVD-MVD - potremo mai ricostruire con la puntualità e il rigore metodologico necessari ad ogni indagine storica, le sofferenze di centi*naia di migliaia di uomini e donne nel cuore storico, geopolitico e spirituale dell'Europa.

    Nota è invece, sulla base di un dettagliato rapporto del 1° ottobre 1949 - pochi mesi prima della chiusura dei campi rimanenti di Bautzen, Buchenwald e Sachsenhausen - la consistenza degli internati e dei detenuti, sia nei campi che nella quarantina di prigioni principali. I prigionieri (internati e condannati dai TMS), per la massima parte nazionalsocialisti ma anche veri o supposti oppositori del regime comunista, assommavano nei tre campi a 29.610: 9260 a Bautzen, 9460 a Buchenwald (637 donne) e 10.890 a Sachsenhausen (almeno 1200 donne). I ristretti in altri luoghi (penitenziari, carceri preventive, ospedali di detenzione, campi di lavoro, campi minori d'internamento, istituti di pena e case di correzione giovanili raffigurate nella seconda cartina) erano 14.824, dei quali 2696 donne. Nel campo di Heidekrug, ad esempio, su 3500 detenuti (politici per il novanta per cento) i condannati all'ergastolo erano 1000 e 1700 quelli ad una pena da venticinque a dieci anni. In totale, ancora detenute risul*tavano quindi 45.000 persone. Se a queste si aggiungono i detenuti in altre pri*gioni dell'MVD (Berlino-Lichtenberg, Halle/«Roter Ochse», Magdeburgo-*Sudenburg, Dresda, Chemnitz, Potsdam, Schwerin) e quelli in attesa di giudi*zio da parte delle autorità della DDR, la cifra può essere fatta salire a 50.000 tra uomini e donne imprigionati all'aprirsi del 1950, per la quasi totalità nazio*nalsocialisti.

    Uno spaccato delle condizioni di vita dei detenuti ci è offerto da un rap*porto stilato dall'Oberrat della Volkspolizei Gustav Schulz (soprannominato «Hundeschulz», «cane di un Schulz»), concernente sette istituti di pena, Strafvollzuganstalte (StVA) nell'agosto 1950, da poco passati sotto la giurisdi*zione della DDR.

    1) A Bautzen, ove sono presenti, quale personale sanitario, un medico della polizia, sei infermieri e quattro medici detenuti; sui 4400 prigionieri ben 1200 sono affetti da TBC chiusa e 440 da TBC aperta.

    2) A Waldheim (nessun medico, nessuna latrina, uso di bugliolo, rasati i capelli le donne, «nelle celle regna un puzzo insostenibile») i numeri portano, rispettivamente, 2000, 300 e 300.

    3) Ad Hoheneck, prigione esclusivamente femminile nella quale sono alloggiate anche 55 detenute in celle costruite per 15, regna la sifilide: risulta*no contagiate cinquanta donne, già violentate dai sovietici. Al luglio 1950 sono segnalati trenta parti, «padri» in massima parte militari sovietici. Su 1400 prigioniere, 80 presentano TBC chiusa e 20 una forma aperta.

    4) Ad Untermafeld (nessun medico della polizia, due infermieri e tre medici detenuti, nessuna latrina, bugliolo) i numeri sono 1500, 400 e 200.

    5) A Torgau (nessun medico, quattro infermieri) sono detenute 4000 per*sone: 500 presentano TBC chiusa, 300 TBC aperta.

    6) I numeri per Brandenburg, il primo penitenziario ad essere stato passa*to alla DDR il 16 giugno -1949 (presenti un medico della polizia e tre infermie*ri), sono 3500 (il penitenziario è progettato per 1500), 400 e 200.

    7) A Luckau, infine, ove è presente un medico detenuto coadiuvato da due infermieri, si usa unicamente il bugliolo e manca l'acqua per lavarsi. La prigione, costruita per 490 prigionieri, ne contiene 1200, dei quali risultano affetti da TBC, rispettivamente, in 225 e 75.

    Le sette carceri visitate dall'Oberrat Schulz racchiudono 17.600 detenuti;4600 di loro, vale a dire il ventisei per cento, sono affetti da tubercolosi. Il rapporto annota poi una generale carenza di farmaci, soprattutto analgesici ed oppiacei, il che comporta, per gran parte dei malati - rilievi di Schulz - un'agonia dolorosa. Gli interventi chirurgici, anche quelli d'urgenza, non pos*sono essere eseguiti negli ospedali civili. Nel solo mese di luglio Waldheim conta oltre cento morti, che vengono seppelliti in fossa comune. Le notifiche dei decessi vengono fatte ai parenti in minima parte; quelle delle malattie, quasi per niente. I farmaci inviati dai parenti non vengono distribuiti, ma per la massima parte rispediti al mittente. In risposta a tali rilievi pressoché nulla fu fatto dalla autorità della Volkspolizei onde alleviare lo stato di cose. La ven*detta dei Liberatori doveva compiere il suo corso.

    A tale vendetta rispondono le emozioni della nazionalsocialista Suse von Hoerner in una poesia intitolata «Noi» e composta durante la lunga, dolorosa prigionia, nata dalla fedeltà alla sua Weltanschauung, alla fede nella Nazione:




    Noi ci pieghiamo

    alla nostra coscienza e a Dio,

    non all'aberrante violenza degli altri.

    Non questioniamo

    dell'ingiustizia degli altri popoli,

    la loro coscienza li possa giudicare.

    Soffriamo invece

    dell'ingiustizia del nostro essere

    e ne siamo trascinati, come l'ape al trifoglio,

    frutti maturi del sapere e del mutamento.

    Di questo ai saggi del nostro popolo

    siamo debitori, al Divino e a noi stessi.




    Il numero complessivo dei civili nazionalsocialisti imprigionati dai Tribunali Militari Sovietici fu, come detto, di 160.000. Ad essi vanno aggiunti quegli altri 20.000 arrestati o scomparsi per opera di altri gruppi sovietici o tedesco-comunisti, soprattutto nei primi due mesi dopo la resa, dei quali è ancora più arduo ricostruire il tormentato cammino di sofferenza e di morte.

    Dei 180.000 risultano sicuramente deceduti (cifre di minima valutazione che non tiene conto dei decessi, seguiti dopo il rilascio, di tutte quelle persone troppo deboli o malate per sopravvivere, né dei decessi avvenuti tra i quaran tamila civili deportati nell'URSS e che si devono fare ammontare a percentua*li elevatissime, né dei decessi tra gli internati presi a carico dalla DDR a parti*re dagli ultimi mesi del 1949) i 20.000 liquidati nel corso della carcerazione preventiva, e gli 86.000 lasciati morire nei campi, vale a dire 106.000 tra uomini e donne, e cioè il 55 per cento degli arrestati.

    Tali cifre, con qualche estrapolazione più che legittima, possono essere fatte peraltro prudentemente salire, tenendo conto dei rilievi testé formulati sugli ulteriori decessi, almeno di un altro quindici per cento (ricordiamo come i detenuti affetti da TBC all'agosto 1950 fossero, secondo il rapporto Schulz, il ventisei per cento e come il luglio 1950 avesse visto, solo a Waldheim, oltre cento morti).

    A prescindere dall'enorme carico di sofferenza fisica e spirituale abbattu*tosi anche sui sopravvissuti e tenendoci fermi unicamente al dato dei decessi, possiamo quindi valutare che la repressione sovietica e tedesco-comunista abbia pesato, sui 180.000 civili nazionalsocialisti della Zona di Occupazione Sovietica, nella misura del 70 per cento, vale a dire quasi 140.000 deceduti - sette persone su dieci.

    Il tutto, su una popolazione stimata di una ventina di milioni di persone. Per avere un quadro ancora più espressivo delle proporzioni di tale repressio*ne, ricordiamo che nel paese europeo dove massima infuriò l'epurazione anti fascista, la Francia, si contano a 105.000 gli assassinati, su una popolazione di quaranta milioni di anime. Nell'Italia della RSI la repressione «liberatoria» infuriò invece su poco più di venti milioni di persone, con l'eliminazione fisi*ca di 50.000 di esse. Sia in Francia che in Italia, per compiere fino in fondo un corretto confronto con la Zona di Occupazione Sovietica, sono comprese nelle cifre dei caduti consistenti aliquote di militari o comunque di militanti armati di partito.

    Per quanto concerne la Germania (gli stessi rilievi restano validi per gli italiani della RSI e per il composito mondo «collaborazionista» francese) si tratta, in ogni caso, di cifre spaventose, che pongono idealmente questi civili, che passarono per l'orribile esperienza della vendetta dei vincitori, al fianco dei tre milioni e mezzo di connazionali caduti con le armi in pugno contro la barbarie dei Liberatori. Li pongono al fianco degli undici milioni di prigionieri di guerra, due e mezzo dei quali deceduti dietro il filo spinato (quasi un milio*ne nei campi americani e francesi dopo la resa). Li pongono al fianco dei set*tecentomila civili sventrati, schiacciati, asfissiati, mitragliati, polverizzati, arsi vivi, disidratati, carbonizzati, volatilizzati dal terrorismo dei bombardamenti strategici anglo-americani (senza contare i deceduti tra gli ottocentomila feriti a seguito dei medesimi bombardamenti). Li pongono al fianco dei due milioni e mezzo di profughi scomparsi fra le sofferenze più atroci nel corso della fuga dall'Est e dell'espulsione di sedici milioni di connazionali dai territori coltivati e fecondati dal sudore e dal sangue loro e dei loro avi. Li pongono al fianco dei duecentocinquantamila Volksdeutsche assassinati in tutti i Balcani.

    Sei delle diciassette località dove sorgevano i maggiori campi di concen*tramento si trovano oggi in territorio soggetto alla dominazione polacca. Undici sono situati sul territorio di quella DDR assorbita nel novembre 1990 dalla Repubblica Federale, il secondo dei tronconi in cui il Reich nazionalso*cialista - in cui la Germania - è stato frantumato. Il recupero delle altre terre perse, si trovino sotto dominazione straniera (russa, polacca, ceca, francese, belga, slovena) o siano costituite in entità statali (Austria e Lussemburgo) è oggi al di là di ogni previsione, illusione o discorso.

    Sotto il suolo dell'ex DDR e dell'intera Europa giacciono, in mostruose fosse comuni, centinaia di migliaia, milioni di cadaveri che attendono ricordo e giustizia. Se i 4500 cadaveri di Katyn sono stati esumati nel corso di tre lun ghi mesi da otto grandi fosse, da quante migliaia di fosse e in quanti decenni dovranno essere esumate le testimonianze - dal grande pubblico sempre igno*rate, dai mass media sempre taciute - dell'estrema resistenza europea contro l'annientamento dello spirito umano?

    Il campo di Mühlberg ospitò anche un gruppo particolare di tedeschi. Questa è, in breve la loro storia.

    Quando le truppe americane il 2 luglio 1945 abbandonarono Lipsia, che avevano occupato fin da metà aprile, per cederla secondo i patti all'Armata Rossa, le truppe sovietiche dilagarono per la città. Uno dei loro compiti fu l'arresto dei trentanove giudici del Tribunale del Reich. La polizia segreta irruppe di notte nelle loro abitazioni, che vennero saccheggiate, li trasse dai letti e li deportò nel campo di Mühlberg, mentre le loro famiglie venivano, let*teralmente, gettate sulla strada.

    Quei giudici non erano mai stati membri del Volksgerichtshof, il Tribunale del Popolo istituito nel 1934 dal governo del Reich per giudicare gli avversari del nazionalsocialismo (la Commissione Alleata di Controllo, per inciso, lo sciolse il 20 ottobre 1945; il suo ultimo presidente, il dottor Georg Thierack, si suicidò il 26 ottobre 1946 a Bad Nenndorf, prigioniero dei britannici, dopo brutali interrogatori che avevano sollevato proteste perfino in Inghilterra e portato, nella primavera 1948, all'incriminazione dei responsabili militari del campo), bensì magistrati del Reich in servizio da anni, alcuni da decenni, cioè fin dalla repubblica di Weimar, né si erano mai interessati di processi politici.

    Uno dei trentanove, che avrebbe poi fatto parte dei quattro sopravvissuti, aveva denunciato i colleghi. Provvisto di un Persilschein ottenuto dall'NKVD - il certificato che dichiarava che un ex «nazista» non era stato un militante attivo della NSDAP, ma un iscritto senza responsabilità di rilievo - egli fu lasciato a piede libero.

    Gli altri trentotto, rinchiusi a Mühlberg, furono maltrattati in modo tale che trentaquattro perirono in poche settimane per cause «ignote». I sopravvis*suti furono trasferiti a Buchenwald e là, in occasione dei processi di Waldheim, condannati a 25 anni di reclusione. Uno morì dopo la sentenza, i tre rimasti furono rimessi in libertà dopo quindici anni.

    Il decesso dei trentaquattro nel corso della carcerazione preventiva non fu mai chiarito. Nessuno si arrischiò a muovere le acque. Neppure, e tantomeno, oggi.

    A dire il vero ci fu uno strascico della vicenda, che vale come esempio per ricordare queste trentacinque vittime della brutalità comunista, assassinate una seconda volta dall'indifferenza del Libero Occidente. Il 24 ottobre 1957 fu scoperta una lapide commemorativa nella nuova Corte di Giustizia Federale di Karlsruhe. L'allora presidente della Corte Hermann Weinkauff tenne un discorso che la stampa del Libero Occidente si guardò bene dal pubblicare: «Dopo il crollo del 1945 il Tribunale di Lipsia e la Procura del Reich vennero in un primo tempo occupati da truppe americane. Quando due mesi più tardi si ritirarono, subentrarono loro le truppe russe. Dopo alcune settimane trentacinque membri del Tribunale e della Procura del Reich vennero improvvisamente arrestati nello stesso giorno dalla polizia segreta sovietica e trasferiti dapprima in una prigione, indi nel campo di concentramento di Mühlberg sull'Elba. Tra gli arrestati si trovavano, a mo' di esempio, la maggior parte dei non iscritti al Partito tra i membri del Tribunale e diversi noti ed ardenti avversari del regi*me nazionalsocialista. Perché questi uomini giunsero a morte così rapidamen*te? Dispensatemi dal narrare i ripugnanti particolari del loro trattamento. In breve, diciamo che essi furono maltrattati in modo atroce, costretti a lavori tali che quelli di loro che non possedevano particolari riserve di energia materiali e spirituali dovettero soccombere a quel tremendo regime di vita. Dovevano soccombere, e soccombettero. La colpa maggiore grava sul comandante comunista tedesco del campo, il quale, spinto da odio infernale contro il Tribunale del Reich, aveva proclamato in continuazione, apertamente, che tutti i giudici del Reich avrebbero dovuto morire. Una parola ancora sulle consorti di questi martiri. Mai fu data notizia di dove si trovassero i loro cari, che sape*vano del tutto innocenti, mentre essi giacevano invece sepolti da tempo in un qualche campo, in modo infame. Perché ricordiamo oggi queste cose? Perché scopriamo nel Tribunale Federale questa semplice lapide che deve conservare vivo il ricordo delle vittime di un regime assassino? Perché anche per una sola volta devono tornare a vincere la verità e il diritto, sia pure solo nel cuore degli uomini! Proprio ai cultori del diritto, nel riconoscimento di questa fede, si addice pensare alle vittime innocenti e ai martiri dell'ingiustizia che, rappre*sentandoci, hanno sofferto per tutti noi, onorare la loro memoria, inchinarci con venerazione davanti al loro destino. Soprattutto alla Corte di Giustizia e alla Procura Federali si addice il farlo, poiché la Corte Federale ha l'onore di essere il prosecutore della Corte di Giustizia del Reich e perché la Procura Federale ha l'onore di essere il successore della Procura del Reich».

    L'uomo che si espresse in tal modo era un noto antifascista, autore di opere come "Il diritto alla resistenza". Fu il primo, e rimase l'unico, che tentò di rompere il muro di silenzio eretto intorno ai campi di annientamento comu nisti. Tutte le altre autorità della Repubblica Federale non si occuparono mai del destino di questi, e di altre centinaia di migliaia di morti. Quelle opere che furono pubblicate dal governo di Bonn su tali crimini sono ancor oggi sotto chiave, lontane da indiscrete curiosità e da inopportuni ricercatori del vero. Solo nel caso dei giudici di Lipsia, e per poco, venne infranto il muro del silenzio.

    Terminiamo con due liriche composte da Heinrich George nei mesi prece*denti la morte.




    Libertà l'avverti soltanto

    quando sei prigioniero,

    l'ami santamente

    solo quando gli ardenti pensieri,

    un tempo preda del mondo,

    si legano a questo pezzetto di terra,

    avvinti al passo eguale del prigioniero.

    Eviti allora la soglia della coscienza

    e ti abbandoni al sogno.

    Così nella quiete ho dormito
    i mattini della mia prigionia

    e solo m'ha destato

    la mite frescura della sera.

    Ho guardato

    il cielo stellato sul mio capo,

    che nessuna inferriata può nascondere,

    avvertito l'Infinito nel Finito

    portato dal soffio dell'Eterno

    così libero non sono stato mai!




    Ma la nostalgia e il rispetto del Cosmo - così come la sacralità della Vita - si possono inverare unicamente nell'amore per il proprio Popolo, nella con*tinuità generazionale della Nazione, nella Terra dei Padri.




    Se un giorno tornerò libero

    io mi chiedo, come sarà?

    Affondo nella Tua terra,

    profonde, mia Patria, le mani.

    Solo, vado per le strade,

    silente come in sogno;

    non posso afferrare la libertà,

    stanco il mio capo s'appoggia a un albero.

    Se qualcuno mi chiederà

    dove ho passato tutto quel tempo,

    lentamente risponderò:

    Tra le macine di Dio.

    Ho visto imprimere le orme del mugnaio
    profonde sul volto dell'uomo;

    ho dovuto pagarle col sangue,

    come mai nella mia vita.

    Se un giorno tornerò libero,

    io mi chiedo, cosa mi resta?

    Te, mia Patria, terra tedesca,

    Te ho nel profondo del cuore.

  6. #6
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    Crimini di guerra degli Alleati nel 1945
    di Marco Respinti



    1. Lo scenario

    Dalla resa di fronte a Stalingrado, il 2 febbraio 1943, cioè da quando l’Operazione Barbarossa — scatenata dalla Wehrmacht il 22 giugno 1941 contro l’Unione Sovietica — comincia a volgersi in ritirata, preludio della sconfitta finale del Terzo Reich, circa 5.000.000 di cittadini sovietici guadagnano l’Occidente per sfuggire al totalitarismo comunista o perché, in qualche modo, legati ai tedeschi. Si tratta di unità militari — che hanno approfittato della guerra tedesco-sovietica per combattere una lotta patriottica e anticomunista e si sono arruolati nella Wehrmacht come la ROA — Russkaja Osvoboditel’naja Armija, l’Esercito di Liberazione Russo del generale Andrej Andreevic Vlasov (1900-1946) —, di prigionieri di guerra, di mano d’opera schiava impiegata nei battaglioni di lavoro che costruiscono il Vallo Atlantico per fermare l’avanzata degli Alleati, e di profughi. I primi cittadini sovietici sono catturati dagli Alleati in Africa Settentrionale nel 1943, quindi, in numero maggiore, in Italia nell’estate del 1944, ma soprattutto — a decine di migliaia — dopo il D-Day, il 6 giugno 1944, giorno dello sbarco alleato in Normandia. Nei campi di prigionia in Gran Bretagna alle prime voci di rimpatri forzati si verificano i primi suicidi: meglio la morte che Josif Visarionovic Dzugasvili detto Stalin (1879-1953).



    2. Vittime di Jalta

    Nel 1944, il ministro degli Esteri britannico Sir Robert Anthony Eden (1897-1977) — poi Lord Avon e primo ministro dal 1955 al 1957 —, circondato da un entourage "di sinistra", riesce, dopo ripetuti sforzi, a convincere il capo del governo di coalizione del tempo di guerra, fra 1940 e 1945, — Winston Leonard Spenser Churchill (1874-1965), più tardi insignito del titolo Sir e di nuovo primo ministro dal 1951 al 1955 — dell’opportunità di rimpatriare tutti i cittadini sovietici stanziati in Occidente. Dal mese di settembre, la politica dei rimpatri diviene una linea ufficiale. In ottobre, Churchill, Eden, Stalin e il ministro degli Esteri sovietico Vyaceslav Mihajlovic Skrjabin detto Molotov (1890-1986) s’incontrano a Mosca e definiscono l’accordo sui rimpatri, anche forzati, dei prigionieri ben prima degli incontri di Jalta, in Crimea, svoltisi fra il 4 e l’11 febbraio 1945, che risultano dunque essere solo una ratifica di quanto già stabilito: verranno riconsegnate circa 2.750.000 persone, in gran parte riluttanti, contro una vaga promessa di restituzione, da parte sovietica, di prigionieri di guerra alleati. L’ultima operazione di rimpatrio forzato di cittadini sovietici messa in atto dagli Alleati — preparata dal trasferimento dei prigionieri in territorio italiano — è denominata Eastwind e ha inizio il 2 aprile 1947, mentre con l’Operazione Highjump sono riconsegnati a Josip Broz detto Tito (1892-1980) slavi meridionali anticomunisti, pure prigionieri.



    3. L’olocausto dei cosacchi anticomunisti

    In questo quadro s’inserisce la vicenda dei cosacchi e dei caucasici — militari e civili — arresisi in Austria all’esercito britannico il 9 maggio 1945, dopo aver soggiornato qualche mese in Carnia, lì mandati dai capi del Terzo Reich a costituire un "territorio cosacco nell’Italia Settentrionale", nell’ambito di un "territorio costiero adriatico" comprendente terre italiche, austriache e slave. I combattenti sono inquadrati soprattutto nel 15° Corpo di Cavalleria del generale tedesco Helmut von Pannwitz — anche se i sovietici lo definiranno falsamente "ufficiale delle SS", si trattava di persona ben poco legata all’ideologia nazionalsocialista — e impiegati militarmente dall’alto comando tedesco nei territori slavi meridionali contro i partigiani titini, ma sostanzialmente mai nella guerra antisovietica sul suolo patrio come invece essi avrebbero desiderato. Dopo la sconfitta del Terzo Reich, costoro si aspettano, da parte alleata, una continuazione della guerra in senso anticomunista. Forti dell’amicizia con Londra, che data sin dai tempi della Guerra Civile russa, i cosacchi si fidano dei vincitori. Fra loro vi sono anche numerosi membri dell’emigrazione bianca, ossia soggetti estranei all’accordo di rimpatrio perché non cittadini sovietici: vecchi combattenti della Guerra Civile e ataman famosi come il generale Pëtr Nikolaevic Krasnov (1869-1947) dei cosacchi del Don, tutti tornati per combattere la grande guerra patriottica. Mentre il 12 maggio, in Boemia, i sovietici catturano Vlasov, in Austria, a partire dal 1° giugno tutti i prigionieri — combattenti, uomini, donne, vecchi e bambini spinti come animali su carri-bestiame — sono consegnati ai sovietici con la forza e con l’inganno: decine gli episodi raccapriccianti nei campi nei dintorni di Lienz, Oberdrauburg, Feldkirchen, Althofen e Neumarkt, e i suicidi collettivi nelle acque del fiume Drava. Gli ufficiali precedono di qualche giorno: il 29 maggio li si convince di un’inesistente conferenza sul loro futuro e li si offre ai sovietici nella cittadina austriaca di Judenburg. Chi non viene fucilato o impiccato sul posto è internato nel GULag, perché — secondo Stalin — il prigioniero di guerra è un traditore, pericoloso perché "ha visto l’Occidente" anche se solo da dentro un lager nazionalsocialista. Fra gli ufficiali troverà la morte anche il generale von Pannwitz, che vuole condividere il destino dei suoi uomini e degli altri ufficiali superiori cosacchi, mentre gli sarebbe stato facile sfuggire tale sorte dichiarandosi tedesco e così restare con gli Alleati e godere del trattamento riservato dalla Convenzione di Ginevra ai prigionieri di guerra, che peraltro, mai sottoscritta da Stalin, non valeva per i cittadini sovietici caduti in mano nemica. La Pravda annuncia processo ed esecuzione degli ufficiali cosacchi il 17 gennaio 1947, anno che viene assunto come quello della loro morte.

    Aleksandr I. Solzenicyn, in Arcipelago GULag. Saggio di inchiesta narrativa, del 1973, ha definito la vicenda l’"ultimo segreto" della seconda guerra mondiale; da qui ha preso spunto lo storico ed europarlamentare conservatore inglese Lord Nicholas William Bethell per The Last Secret: Forcible Repatriation to Russia 1944-1947, del 1974.



    4. Il destino degli slavi meridionali anticomunisti

    Sempre fra fine maggio e inizio giugno del 1945, e sempre con l’illusione di un ridislocamento in territori sicuri, i britannici consegnano a Tito migliaia di slavi meridionali anticomunisti — ancora uomini estranei agli accordi fra Stalin e Alleati —, in maggioranza domobranci, le guardie nazionali slovene e croate, riparati in Austria. Costoro — il loro tradimento da parte britannica è parallelo a quello consumato ai danni dei cetnici monarchici serbi, anticomunisti e contrari alle potenze dell’Asse, del generale Draza Mihajlovic (1893-1946), sacrificati sull’altare della nuova alleanza fra Churchill e Tito — sono massacrati dai partigiani comunisti e gettati in fosse comuni come quella — non unica, scrive l’ex ufficiale britannico del SOE, Special Operations Executive, Michael Lees, in The Rape of Serbia: The British Role in Tito’s Grab for Power 1943-1944, del 1990 — della foresta di Kocevje, in Slovenia, dove sono state rinvenute le ossa di circa 10.000 vittime. Fra cosacchi e slavi meridionali riconsegnati ai rispettivi despoti comunisti, la cifra più cauta è di circa 70.000 persone, anche se ne sono state avanzate di maggiori.



    5. L’orrendo segreto di MacMillan

    La doppia operazione è tenuta segreta e in Occidente al tempo nota solo agli inglesi direttamente implicati: gli americani, dal canto loro, non avevano alcuna intenzione di rimpatriare a forza cosacchi e slavi meridionali d’Austria, così come non l’ebbe il comandante supremo degli Alleati, di stanza a Napoli, Lord Harold Rupert Leofric George Alexander (1891-1969). La responsabilità del crimine è, dunque, un tassello importante dell’"ultimo segreto" che oggi inizia a svelarsi. Lo spostamento in Germania dei prigionieri d’Austria, ideato dal generale statunitense George Smith Patton (1885-1945) in vista di scontri armati con le bande di Tito per salvare i prigionieri, viene fermato con una menzogna del comandante di brigata Toby Low — poi Lord Aldington —, capo di stato maggiore del 5° Corpo d’Armata britannico, agli ordini del tenente generale Charles Keightley, comandante in capo del medesimo corpo, deceduto nel 1974, al quale Maurice Harold MacMillan (1894-1987) — plenipotenziario britannico nel Mediterraneo all’epoca dei fatti, poi Lord Stockton e primo ministro dal 1957 al 1963 — ordina di operare a ogni costo i rimpatri forzati. Secondo i dettagliatissimi studi dello storico anglo-russo Nikolai Dmitrevic Tolstoy Miloslavsky — raccolti dal discendente del noto romanziere russo conte Lev Nikolaevic Tolstoj (1828-1910) nei volumi Victims of Yalta, del 1978, e The Minister and the Massacres, del 1986 — e stando alla documentazione fin qui raccolta, Low — oggi vicepresidente del Partito Conservatore britannico —, Keightley e MacMillan — all’insaputa dell’alto comando alleato, degli americani, del Foreign Office e di Churchill — hanno intessuto una trama segreta e sanguinosa, le cui motivazioni specifiche sono ancora per molti versi avvolte nell’oscurità anche se si è parlato di debolezze, di ricatti e di complicità ideologiche, nonché di macchinazioni di tipo massonico. Del resto, MacMillan ha sempre rifiutato qualsiasi spiegazione dei propri atti, né ha mai protestato pubblicamente per la ricostruzione dei fatti e per le accuse rivoltegli da Tolstoy. Solo Low lo ha fatto, quantunque originariamente per via indiretta, denunciando un volantino diffuso da un privato che — per ragioni personali — aveva deciso di colpire l’eminente uomo politico britannico traendo spunto dal volume The Minister and the Massacres. Ne è scaturito un colossale caso giudiziario dai mille risvolti, nonché ricco di colpi di scena e di scorrettezze da parte dei diversi livelli della giustizia inglese che, nel 1989, ha ritenuto lo storico anglo-russo colpevole di diffamazione — sentenza confermata in appello — e gli ha comminato la più grande multa della storia giuridica britannica: 1,5 milioni di sterline. Con un’azione privata e illegittima dei difensori di Low si è poi spinto l’editore londinese Century Hutchinson a ritirare dal mercato inglese e gallese lo studio — peraltro oggi disponibile in lingua croata e in lingua russa — e a distruggerne le copie restanti. Al posto dell’importantissima opera di Tolstoy è stato dunque prodotto un rapporto ufficiale dalle conclusioni del tutto differenti, redatto da Anthony Cowgill, da Lord Thomas Brimelow e da Christopher Booker.

    La vicenda è stata accompagnata da clamorosi voltafaccia di ex sostenitori di Tolstoy — quello di Booker, per esempio, scrittore e co-autore del rapporto ufficiale — a fronte dell’appoggio testimoniato allo storico dall’opinione pubblica, da molti media e da personalità della politica e della cultura, fra i quali il parlamentare conservatore inglese Lord Bernard Braine di Wheatley, Hans Adam II del Liechtenstein e Solzenicyn.

    Il 13 luglio 1995, la Corte dei Diritti Umani di Strasburgo ha riconosciuto che la pena pecuniaria inflitta a Tolstoy, e le altre misure restrittive di cui è stato fatto oggetto — come il divieto di parlare pubblicamente e di scrivere della vicenda dei rimpatri forzati dall’Austria —, violano la libertà d’espressione dello studioso e rappresentano una condanna esagerata.

    A Londra intanto, il 6 marzo 1982, per iniziativa di un comitato costituito da parlamentari e da esponenti di tutti i partiti politici britannici, veniva eretto un monumento alla memoria delle vittime di Jalta, il quale — come ha scritto Lord Bethell — anche per volontà di Margaret Thatcher poggiava "su terreno della Corona". Il memento è poi stato fatto esplodere da ignoti.



    --------------------------------------------------------------------------------
    Per approfondire: vedi Pier Arrigo Carnier, L’armata cosacca in Italia. 1944-1945, 2a ed. ampliata, Mursia, Milano 1990; Idem, Lo sterminio mancato. La dominazione nazista nel Veneto orientale 1943-1945, 2a ed., Mursia, Milano 1988; Alessandro Ivanov, Cosacchi perduti. Dal Friuli all’URSS, 1944-45, Aviani, Tricesimo (Udine) s.d. [ma 1997]; Piero Buscaroli, La vista, l’udito, la memoria. Scritti d’arte, di musica, di storia, Fogola, Torino, 1987, pp. 448-477; Roberto de Mattei, Schiavi di Mosca e vittime di Yalta, in Cristianità, anno VIII, n. 60, aprile 1980, pp. 9-12; e i miei Maggio-giugno 1945: il rimpatrio forzato dei cosacchi e altri crimini di guerra "eccellenti", ibid., anno XXIII, n. 245, settembre 1995, pp. 13-20, e Anche gli Alleati deportavano, in La nuova Europa, anno V, n. 6 (270), novembre-dicembre 1996, pp. 86-104.

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    I CAMPI DEGLI ALLEATI


    TEDESCHI NEI CAMPI CECOSLOVACCHI.


    Il ministro e deputato britannico R.R. Stokes, in una lettera al "Manchester Guardian" dell'ottobre 1945, riferisce quanto egli vide e accertò: "Ho tentato di trovare alcuni di questi campi di concentramento (della cui esistenza ho saputo qualche mese fa) e ho avuto la fortuna di scoprirne uno a Hagibor, presso Praga... Le baracche erano tipiche di un Lager, con tre letti disposti a castello, senza la più primitiva comodità e con servizi sanitari orrendi. Vi trovai ogni sorta di persone: alcune erano là solo da pochi giorni, altre da mesi e nessuno con cui parlai aveva la benché minima idea del motivo per cui era stato internato.
    Una signora settantaduenne, da 55 anni residente a Praga, vi si trovava da due settimane per il solo motivo di essere austriaca. C'era pure un settantenne professore d'arte drammatica di Belgrado, con la moglie, quasi del tutto cieco. Aveva lasciato la Russia nel 1911 e da allora viveva in Yugoslavia. Recatosi a Vienna per consultare uno specialista, era stato arrestato dai nazisti perché jugoslavo. Il giorno della Liberazione i cechi lo incarcerarono, probabilmente perché russo "bianco". Poi vidi una signora settantacinquenne, vedova di un ammiraglio zarista, il cui solo desiderio era di raggiungere la figlia nel Tirolo. Si trovava lì da alcuni mesi e veniva nutrita a pane e acqua...
    In Cecoslovacchia si trovano 51 Lager del genere, nei quali migliaia di persone vegetano e fanno fame: e se dico fanno fame lo intendo letteralmente! Ho davanti a me la razione settimanale di questo Lager; ogni giorno é la medesima: colazione - caffè nero e pane; pranzo - zuppa di verdure; cena - caffè nero e pane. La razione giornaliera di pane é di 250 g. a persona... 250 g. di pane e caffè nero non possono tenere assieme corpo e anima e neppure consentire di muoversi. Secondo la mia valutazione le loro razioni forniscono giornalmente 750 calorie, inferiori dunque a quelle di Bergen-Belsen [il Lager nazista liberato dagli inglesi, N.d.A.]". (Dokumente zur Austreibung der Sudeten Deutschen, cit.). (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.213)

    inizio

    TEDESCHI NEI CAMPI POLACCHI.


    Il 3 maggio, quando la regione di Teschen fu abbandonata dall'esercito tedesco, i coniugi Faricek convennero che il loro soggiorno nella città, dove erano sfollati nel febbraio, era divenuto del tutto superfluo e che il meglio che potessero fare era di tornarsene a Pless, loro città natale. [...] Non andarono oltre. Sulla strada incapparono in un posto di blocco della milizia polacca e dovettero presentare i documenti e poiché da questi risultava che erano cittadini tedeschi, due guardie intimarono loro di seguirli e li portarono alla sede del loro comando. [...] Non era escluso che fossero anche dei "criminali nazionalsocialisti".
    Li arrestò e l'indomani li consegnò alla Bespieka di Bielitz. [...] Pensava a suo marito e quasi non lo riconobbe quando se lo vide davanti, tant'era paonazzo in viso per le percosse ricevute. Ebbe il tempo di dirle che così l'avevano conciato perché volevano che dichiarasse di essere stato membro del partito nazionalsocialista e scomparve con gli altri uomini diretto al fabbricato vicino, dove lo rinchiusero nel sotterraneo lì adibito a prigione. [...] Tutto quanto poté apprendere era che nel sotterraneo c'erano uomini che per i maltrattamenti subiti non erano più in grado di muoversi. Trascorsero mesi e, un giorno, lei non era più prigioniera, un soldato tedesco d'origine polacca, miracolosamente riabilitato e rimesso in libertà, le fece sapere che, al terzo giorno di prigionia, a suo marito, per non aver voluto ammettere di essere nazionalsocialista gli avevano spaccato tutti i denti e poi lo avevano strozzato. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.180-181)



    Fatale tutta la faccenda lo fu invece per Max Haller, il quarantacinquenne gestore dell'albergo della stazione di Tillowitz. L'avevano già accusato di essere stato nelle SS e ora gli ribadivano l'accusa che lui respingeva come aveva fatto a Tillowitz. Un colloquio tra sordi che si trascinò per un po' finché l'oste fu spinto in un camerino accanto all'ufficio, assieme al Proll di Schurgast, e otto miliziani li seguirono e riempirono tutti e due di botte. Ma più quelli picchiavano e più loro negavano di essere stati nelle SS, finché Haller, non sapendo più a cosa votarsi, li pregò di andare a informarsi presso tutti i suoi compaesani e le guardie, consenzienti, li portarono fuori. Avevano i vestiti strappati e in alcune parti si poteva vedere il corpo nudo e tutte queste parti nude sanguinavano.
    Haller s'illuse: non lo fecero passare davanti ai suoi compaesani, ma piegarono dietro l'angolo dell'ufficio e lì lo fucilarono. A controllo ultimato i vecchi furono raggruppati in una baracca dove avrebbero ricevuto così poco da mangiare da poter morire in pochi giorni, le donne ed i bambini in altre e così pure le ragazze. Si avviò ognuno al posto assegnato con in mano un pezzo di stoffa con una grande "W", che voleva dire Wiezien, prigioniero, da cucire sulla giacca e con questo si chiuse il primo giorno d'internamento. [...] Fece bene, perché i miliziani il numero lo dicevano una sola volta e la seconda e tutte le successive volte picchiavano senza pietà tutti quelli che sbagliavano nel ripeterlo. Quel mattino tre suoi compagni per questo persero la vita: stramazzarono al suolo ed i guardiani li trascinarono per i piedi sin dietro le baracche delle donne. Toccò a lui, assegnato con altri sei alla squadra becchini, andare a raccoglierli.
    Giacevano nell'erba, il primo con la testa così spaccata che di essa restava solo la mascella inferiore, mentre cervello ed ossa erano sparsi di qua e di là, il secondo ed il terzo non erano che resti carbonizzati, bruciati nei vestiti che indossavano. Da quel giorno Johann Thill divenne l'involontario cronista dell'anno di esistenza del Lager. Vide i suoi connazionali crollare per le estenuanti fatiche e per le scarse razioni che nelle festività non venivano neppure distribuite; seppellì i vecchi e gli invalidi ed i bimbi spesso divorati dai pidocchi e dalle cimici, raccolse i corpi dei fucilati e dei torturati. Anche quello di Johann Lein, il suo conoscente di Bauerngrund. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.182-183)



    Si formò in tal modo, dopo i colpiti dalle deportazioni e dal lavoro coatto sovietici e dopo i colpiti per nazionalsocialismo o per tradimento, una terza serie, la serie dei depauperati, una sorta di sottoproletariato disponibile per ogni incombenza. La Milizia la mobilitò in massa, prelevandola a seconda delle necessità e dove capitava: nei quartieri che abitava, per le strade dove passava, nei villaggi dove viveva, agli ingressi delle chiese, nei giorni di funzione, quando urgeva. La portava a demolire fabbricati, a sgombrare macerie, a riesumare e seppellire cadaveri; se ne serviva per riattivare settori industriali e fornire braccia all'agricoltura e, a lavori ultimati, lasciava che se ne tornasse ai propri luoghi, indebolita e malata per l'insufficiente vettovagliamento ricevuto e senza mezzi per poter procurarsi qualcosa per sostentarsi.
    [...] Finirono, in altri termini, dietro il filo spinato, in Lager che di cambiato non avevano che il nome e la nazionalità dei sorveglianti e dove, per il resto, sembrava che il tempo si fosse fermato ad un recente passato, cosicché chi vi capitò, rivisse quello che altri vi avevano vissuto: appelli, maltrattamenti, lavoro, fame, malattie, morte. [...] Renate Schulze arrivò al Lager di Potulice il 30 marzo 1946. Portava con sé i segni e le esperienze di un anno di prigionia e l'immagine ed il ricordo dei luoghi da dove era dovuta passare. Prigioniera l'avevano fatta i sovietici durante la fuga nel gennaio del 1945 e l'avevano rinchiusa a Crone sulla Brahe, nel circondario di Bromberg, a spidocchiare e ripulire, per tutto l'inverno, stracci e coperte e a liberare degli escrementi i luoghi che quelli, poco usi ai gabinetti o scientemente, imbrattavano. [...] Due miliziani l'afferrarono e la condussero nel sotterraneo della prigione, in una delle cellette, senza finestre ed aerazione, un tempo adibite per i peggiori criminali, e le ordinarono di spogliarsi.
    Sorpresa ed imbarazzata, quel giorno aveva le sue regole e perdeva sangue, cercò di tergiversare, ma un paio di sonori schiaffi le fecero capire che bisognava obbedire. Lo fece tra pianti e colpi di manganello e di calcio di fucile e quando restò nuda perdette pure i sensi: i miliziani le gettarono addosso un secchio d'acqua e se ne andarono e quando lei rinvenne si accorse che le mancavano alcuni denti. Al terzo giorno tornarono, non per darle da mangiare, ma per bastonarla ancora. [...] La tirarono fuori cinque giorni dopo con il divieto di riferire cosa era stato di lei e la rimisero a lavorare, fino a quando, ridotta inabile alle fatiche, la spedirono nel Lager di Langenau. Langenau sembrava un porto di mare. La Schulze vi trovò internati civili e prigionieri di guerra tedeschi e prigionieri di guerra stranieri che avevano servito nelle forze armate del Reich e perfino polacchi dell'armata di Anders venuti dall'Occidente in licenza al loro pese. Incontrò tedeschi nati e vissuti in quei luoghi in comunità coi polacchi e tedeschi nati, come lei, all'estero e ancora tedeschi del Reich, bloccati da quelle parti dagli eventi bellici.
    Vide pure arrivare gli internati di Kaltwasser e poi quelli di Hohensalza, questi ultimi ancora traumatizzati dai metodi di Wladislaw Dopierala, il "terrore del Lager", che usava far distendere i colpevoli di mancanze o persone scelte a caso in bare disposte in fila e, lì, fulminarle con un proiettile alla testa. [...] Un saggio di questa lo ebbe già poco dopo il suo arrivo, il giorno in cui Heinrich Fischer e Willy Kalle, tenuti lì come prigionieri di guerra, avevano tentato la fuga. Lontano i due non erano riusciti ad andare; ad alcuni chilometri dal Lager la Milizia li aveva catturati e ricondotti indietro giusto al momento in cui gli internati erano schierati in cortile. Arrivarono trascinati come sacchi e i radunati si videro davanti due esseri che più nulla avevano dei due robusti giovanotti che tutti conoscevano, ma non ebbero il tempo di commuoversi perché furono sopraffatti da quello che seguì.
    Uno dei due miliziani estrasse la baionetta e colpì Fischer alla nuca e poi sommersero lui e Kalle di manganellate e di colpi di fucile e per ultimo li trascinarono ai cessi e li costrinsero a vuotarli con dei recipienti piccolissimi. Il sangue colava a Fischer e a Kalle ed il loro corpo era irrigidito dalle bastonate, per cui facevano fatica a portar via, con quegli aggeggi, il luridume senza versarlo e poiché facilmente sporcavano, ogni volta erano costretti a leccarlo o a distendervisi sopra, finché i miliziani si stancarono e i due rimasero inanimati per terra. Fischer morì qualche settimana dopo, Kalle fu portato via con un trasporto e di lui né la Schulze né altri ebbero più notizia. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.184-186)



    In un rapporto al Foreign Office R.W.F. Bashford, nell'estate 1945, comunicava da Berlino: "I campi di concentramento non sono stati aboliti, ma sono stati presi in consegna dai nuovi padroni e vengono per lo più diretti dalla Milizia polacca. In Swietnochlowice (Alta Slesia) i prigionieri che non muoiono di fame o non vengono bastonati a morte son costretti a stare notte dopo notte nell'acqua gelida finché periscono. A Breslavia ci sono sotterranei da dove provengono di giorno e di notte le urla delle vittime". L'argomento é pure trattato in un rapporto al Senato americano (28 agosto 1945). In esso vengono citati diversi casi di violenza e viene confermato pure che a Breslavia la Milizia polacca infierisce sui detenuti nelle proprie carceri sotterranee, tanto che gli abitanti delle case circostanti vogliono traslocare, non potendo più sopportare le grida delle vittime (cfr. Zayas, Alfred M. De, Die Anglo-Americaner und die Vertreibung der Deutschen, Monaco, dtv, 1980). (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.187)



    L'internata suor Maria Saroviz fece un giro attraverso il complesso di baracche destinate alle mamme nuove arrivate coi loro bimbi e, giunta alla baracca d'angolo, sentì, provenire dall'interno, sommesse grida accompagnate da pianti e da gemiti. Sorpresa, e allo stesso tempo curiosa, spinse la porta; il tanfo che la investì la fece retrocedere istintivamente, riuscì però a vincere il senso di repulsione che provava ed entrò. Sepolte nella paglia e nella sporcizia giacevano una quarantina di vecchiette pelle e ossa, irriconoscibili, quasi senza più sembianze umane che, al vederla, accentuarono i loro lamenti. Le guardò con aria inebetita e non seppe che dire e che fare; richiuse adagio la porta e si allontanò in fretta. Ci ritornò l'indomani, dopo il giro di distribuzione alle mamme dei buoni per la razione di brodaglia, per stabilire quante porzioni potevano occorrere per quelle poverette; trovò la porta spalancata e l'interno vuoto, salvo, sparsi qua e là, qualche straccio d'indumento e oggetti insignificanti.
    Fuggì inseguita dall'orribile sospetto che le era balenato a quella vista e arrivò, pallida e ansante, nella cucina del Lager. La videro le donne indaffarate ai paioli entrare e accasciarsi su una sedia e, spaventate e allarmate, le si fecero attorno, ma lei non ebbe il tempo di spiegare perché la miliziana di servizio, intuendo che cose le era capitato, la prevenne commentando seccamente: "Che cosa c'è di male se si liquidano questi vecchi tedeschi puzzolenti. Non c'è posto disponibile e non c'è da mangiare, meglio dunque farli sparire. Tutte quelle persone sono state fucilate stanotte". (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.188)



    Accadeva dopo mezzanotte: le donne, che nulla sospettavano, venivano svegliate e fatte uscire dalla baracca e condotte nel bosco che si trovava subito dietro il Lager. Là c'erano ancora molte trincee di approccio ai bordi delle quali le donne dovevano schierarsi e spogliarsi completamente e, quando erano pronte, ad un ordine partivano le raffiche delle mitragliatrici piazzate ai lati e quelle cadevano nei camminamenti. Era quindi la volta di farsi avanti della squadra spalatori, essa pure prelevata dalle baracche per riempire le fosse di terra. Il lavoro andava rapido senza badare a gemiti che da quelle fosse provenivano, ché non tutte erano morte, ed al mattino ogni traccia dell'accaduto notturno era scomparsa.
    [...] Nel Lager dunque non doveva esserci posto per i vecchi e nemmeno per i bambini ed i fanciulli, dato che quelli dai quattro ai quattordici anni erano quasi ovunque assenti. [...] A Potulice si erano accontentati del rombo dei motori in avviamento; i camion erano partiti e da quel momento i fanciulli erano entrati nell'avventura che da piccoli tedeschi avrebbero dovuto trasformarli in adulti polacchi. Le madri li videro allontanarsi senza sapere dove andavano e perché andavano; non necessitava che lo sapessero poiché anche i loro figli, come ogni cosa tedesca, animata ed inanimata, apparteneva allo Stato polacco. Alcune, tuttavia, sarebbero riuscite a rintracciarli, altre, invece, ne persero le tracce. [...] Il tempo trascorse, i Lager si sfollavano, gli internati venivano espulsi dal paese. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.189)



    Nel 1950 e nel 1951 gli ultimi prigionieri lasciarono i campi ancora aperti. August Rosner poteva essere considerato la sintesi delle sofferenze dei suoi connazionali in quella parte d'Europa. La sua storia iniziò il giorno della grande offensiva sovietica e si concluse nell'anno 1950 in una cittadina dell'Assia. "... In quel giorno del 19 gennaio 1945, dunque, i sovietici mi arrestarono e mentre mia moglie e mia figlia, senza più i miei nipotini, si allontanavano sulla strada per Penczniew, mi condussero nel carcere di Schroda. [...] Dopo cinque settimane fummo trasferiti a Kalisch e aggregati ad altri tedeschi, molti dei quali versavano in condizioni assai pietose, e in circa 2.000 finimmo al Lager di Posen.
    Eravamo ora in 4.000, amministrati dai sovietici, ma strettamente sorvegliati da polacchi e per molti il destino si concluse qui davanti al plotone d'esecuzione. La nostra prossima destinazione doveva essere l'Unione Sovietica per cui, motivi ne avevo, mi diedi ammalato e la dottoressa della Commissione sanitaria che mi visitò mi dichiarò, con altre 174 persone, inidoneo ad essere trasportato e così mi fu risparmiata la deportazione. [...] Ci impacchettarono e ci portarono a Schroda per farci vivere, ci dissero, per la prima volta "una accoglienza tedesca"; la provammo quando ci costrinsero a salire le scale della prigione sotto una gragnuola di colpi di bastone. [...]
    Ci davano poco da mangiare e moltissime botte. Soprattutto il polacco Darlinski, che ci odiava, ci maltrattava volentieri e, quando a tre prigionieri riuscì di fuggire, impose a tutti la divisa del galeotto e la rapatura dei capelli anche alle donne e alle ragazze. Non mancavano del resto le occasioni per tormentarci e anche da noi, come in altri luoghi, i prigionieri dovettero riesumare morti (qui erano partigiani polacchi fucilati nel 1939 e seppelliti nel terrapieno della ferrovia) e baciarne le ossa per la gioia dei fotografi di Schroda. Era ormai il giugno del 1949 quando fui trasferito nel grande Lager di Lissa, dove ancora si trovavano un 4.000 prigionieri in attesa di essere rilasciati". (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.228-229)

    inizio

    TEDESCHI NEI CAMPI SOVIETICI.


    Il comportamento sovietico con i prigionieri di guerra, dopo la fine del conflitto ha corrisposto ad una logica che occorreva lungo due binari; il primo riguardante i militari più qualificati, specialmente sul piano della tecnologia trattenendo il più possibile queste forze intelligenti e, quindi, utili alla ricostruzione di un paese ridotto allo stremo. Il regime sovietico fece questo soprattutto con i prigionieri tedeschi utilizzandone per oltre un decennio le loro capacità tecniche per cercare di mettere in piedi un po' di industria di pace, essendo stata tutta convertita per scopi bellici. Nei primi contatti fra i tedeschi di Bonn e i padroni del Cremlino, questi dissero che le decine di migliaia di soldati, specialmente quelli specializzati, erano morti: ci vollero l'organizzazione della appena nata Germania Federale e la fermezza del cancelliere Adenauer per fare cambiare opinione ai dirigenti sovietici [...] Adenauer fece un viaggio rischiosissimo a Mosca; litigò con Kruscev che continuava a negare l'esistenza di queste migliaia di prigionieri ed alfine ebbe partita vinta. Il cancelliere di ferro portò a casa nel giro di pochi mesi tutti i prigionieri. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.10-11)



    Tesi nello sforzo disperato per non morire sulla strada sarebbero crollati appena giunti al campo. Coloro che sopravvivevano vi rimanevano per poco tempo: ne usciranno cadaveri a mucchi [...] Nel periodo di un anno, trascorso fra le mura di Oranki, vidi entrare migliaia di prigionieri ed uscire migliaia di cadaveri che vennero sepolti alla rinfusa, in fosse comuni, nei dintorni dell'ex convento. Ad Oranki la moria infieriva. La privazione, la scarsa alimentazione, il clima, la carenza di misure igieniche, la promiscuità, la penuria di medicinali, favorivano lo sviluppo delle malattie consuntive [...] Gli orrori del campo di Oranki cominciarono con l'arrivo dei prigionieri rumeni.
    Il 18 dicembre 1942, una giornata rigidissima, durante la quale il termometro segnò oltre trenta gradi sotto zero, affluì al campo una colonna di tremila uomini [...] In poche ore decine e decine di soldati si spensero [...] Quando si levò il pallido sole, i primi raggi illuminarono nel cortile una catasta di oltre quattrocento morti [...] Ogni cinque, ogni sei, o al massimo ogni sette giorni si era obbligati a fare il bagno. Fu in uno di questi che mi trovai con un gruppo di ufficiali tedeschi superstiti della battaglia di Stalingrado. Non mi rendevo conto come potessero esser vivi. Erano scheletri ambulanti ed alcuni camminavano perdendo escrementi dal retto. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.134-139)



    I Gulag che accoglievano i deportati non si conciliavano col minimo di aspettativa che essi vi riponevano, dopo il lungo e debilitante viaggio, di un luogo che disponesse almeno delle più modeste necessità dell'esistenza. Erano complessi costruiti coi materiali forniti dall'ambiente ove erano stati impiantati, dall'incancellabile aspetto d'improvvisazione e di provvisorietà: baracche d'argilla mezzo sprofondate nel terreno, baracche in legno nelle zone boscose, riparo dalle intemperie, ma non dal clima, buone come dormitorio e infermeria o per i servizi, distribuite in un vasto piazzale delimitato da filo spinato e agli angoli le torri di guardia coi loro riflettori per la notte. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.165)



    Non ci furono giorni di riposo. Inquadrate in brigate furono assegnate alla cava di pietra e alla costruzione di case e di strade ferrate. Käthe Hildebrandt imparò presto a spaccar pietre, a tirare su muri e a stendere binari. All'alba partivano e a sera tornavano, sfinite dalla fatica e dal clima. [...] Come sempre c'erano le adunanze e l'immancabile appello che, specie per le donne anziane, erano una vera sofferenza, e le solite angherie delle guardie e dei sorveglianti. Non mostravano pietà, pretendevano rispettosa obbedienza e per un nonnulla rinchiudevano, a rischio di farla morire per infezione, la malcapitata, nel locale adibito ad obitorio assieme alla trentina di salme, segnate dalle malattie più diverse, che regolarmente vi si trovavano in attesa di essere, ogni notte, calate nude in fosse comuni e ricoperte di sabbia. Sei mesi dopo, stroncate dalle fatiche e dalle epidemie, i due terzi delle deportate non esistevano più. Al loro posto arrivarono 2.000 deportati dall'Alta Slesia e da quel momento Krasnovodsk finì nel bagaglio dei ricordi delle sopravvissute. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.166)



    In Lamsdorf le 8.460 persone chi vi furono internate vennero letteralmente decimate dalla fame, dalle malattie, dal duro lavoro e dai maltrattamenti. Secondo il medico del Lager, Heinz Esser, morirono 5.800 adulti e 628 bambini (Cfr. Esser, Heinz, Die Hölle von Lamsdorf, Münster, s.e., 1971). (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.182)



    Affidati a questi personaggi gli internati si trovarono a subire i metodi ginnico-educativi del dottor Cedrowsky, che li costringevano a tenersi in piedi a lungo con le braccia dietro la nuca o a saltellare o a star fermi per ore a dorso nudo al freddo ed impararono a temere il "Bunker", il complesso di celle ricavate nell'ex deposito di carne sotto la cucina, piccole, buie, gelide. Ce li mandava il dottore, senza fondati motivi, nudi e ve li lasciava, dopo averli fatti bastonare e irrorare d'acqua, per settimane a guazzare nel bagnato, spesso arricchito di cloruro di calcio. Uscivano, quando non morivano, piagati e denutriti, tenuti in piedi solo dalla volontà di sopravvivere, una determinazione che in coloro che finivano nelle squadre di Isidor Kujawski era invece ridotta a zero. Renate Schulze calcolò che due settimane di lavoro nelle squadre di Kujawski significavano morte certa.
    Non si sbagliava perché Kujawski accoglieva i destinati a lui, di preferenza donne non più tanto giovani, con cinquanta nerbate sulle natiche e solo ad operazione ultimata li assegnava ai lavori. Partivano allora le squadre verso i posti prestabiliti e le donne, sofferenti ed abuliche, seguivano Kujawski che di solito se le portava nelle torbiere dove, oltre a farle faticare, le costringeva, per suo spasso, a impastarsi, danzando e cantando, la testa di sterco di mucca o a mangiare rane crude e ad accoppiarsi con i prigionieri presenti. (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.187)



    Polacchi e cechi seguirono l'esempio dei sovietici che, fin dal loro ingresso nel territorio del Reich, rimisero in efficienza Lager nazisti dove rinchiusero nazionalsocialisti, sospetti e civili da deportare. Nella zona d'occupazione sovietica tornarono in efficienza Buchenwald e Sachsenhausen, dove furono rinchiusi, fra gli altri, socialdemocratici e appartenenti ai partiti conservatori. Tra le vittime il socialdemocratico Karl Heinrich. Internato dai nazisti nel 1936 a Sachsenhausen, ne uscì nel 1945, divenne vice-capo della polizia di Berlino. Quindi, nell'autunno, arrestato dai sovietici e di nuovo rinchiuso a Sachsenhausen, vi morì nel 1948. Secondo i calcoli del deputato socialdemocratico di Berlino Hermann Kreutzer (che con la moglie ed il padre fu internato a Sachsenhausen), in quel Lager, dal 1945 al 1950, anno della chiusura, morirono circa 20.000 persone e almeno 13.000 a Buchenwald. ("Welt am Sonntag", 5 maggio 1985). (da "E malediranno l'ora in cui partorirono", pag.205)



    II metodo staliniano di trattare i prigionieri assomigliava molto a quello hitleriano. Su 3,1 milioni di soldati tedeschi catturati dai sovietici, ben 1,1 non sopravvisse al freddo, alla fame, alle fatiche e ai maltrattamenti. (da "In nome della resa", pag.252)

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    ITALIANI NEI CAMPI ANGLOAMERICANI.


    Il fatto é che il campo R era considerato dagli inglesi il loro campo modello: quello cioè da mostrare alle commissioni della Croce Rossa che, di tanto in tanto, venivano a visitarlo riportando, ovviamente, un'ottima impressione nel vederci così bene organizzati, nutriti, lavati, anche profumati per via delle buone saponette che ci venivano distribuite. Il campo R, in altre parole, costituiva l'alibi grazie al quale inglesi e americani coprivano tutte le mascalzonate alle quali si abbandonavano invece negli altri campi di concentramento: Coltano, Afragola, Scadicci, Taranto, Laterina, Aversa e così via, autentici inferni neri, come vennero denominati, dove i prigionieri fascisti, ammassati come bestie, privi del necessario, sotto nutriti, costituivano spesso e volentieri il bersaglio preferito delle sentinelle ubriache che si alternavano sulle torrette. (da "La generazione che non si é arresa", pag.237-238)

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    ITALIANI NEI CAMPI SOVIETICI.


    Per gli italiani, e questo è il secondo binario, i sovietici adottarono un'altra tecnica. Durante la guerra ci fu un continuo martellamento per fare disertare i nostri soldati. I risultati furono modestissimi [...] Nel dopoguerra invece i capi del Cremlino inviarono i nostri soldati nei campi di concentramento più duri, dove migliaia morirono di stenti. Non c'era bisogno di tante repressioni violente, che pure ci furono in alcuni campi; era sufficiente affidarsi alle sofferenze del rigido inverno per sopprimere una buona parte dei nostri poveri prigionieri. Questa inutile crudeltà era attenuata per chi accettava di seguire i corsi di antifascismo e di marxismo.
    Togliatti ed i suoi collaboratori come il cognato Robotti avevano cominciato questa opera durante la guerra: opera che fu intensificata finito il conflitto [...] cercarono di convincere i nostri prigionieri privi di qualsiasi altra informazione che anche nel nostro paese ormai il sistema politico vincente era quello comunista. Fu questa un'impostazione sbagliata, perché se in Italia si poteva dare ad intendere alle masse che il comunismo era la dottrina e la prassi più adatta per il riscatto dei poveri, invece per uomini che anche nei contatti con la gente si erano resi conto di quale era la drammatica condizione dell'uomo e della donna sovietici, quella propaganda degli attivisti italiani appariva una beffa inflitta a persone che stavano provando sulla loro pelle la disumanità del sistema comunista. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.11)



    [...] sono il comportamento dei fuoriusciti italiani che da Mosca e dai campi di prigionia di Stalin aggiunsero sangue a sangue, pena alle pene e morte alla morte. Sono i campi di Tambov, Susdal, Oranki, con la mortalità del novanta per cento e quello famigerato di Krinowaja, dove si praticava lo sterminio, le cui atrocità avrebbero fatto impallidire i lager hitleriani e l'incredibile ritardo e i lunghi colpevoli silenzi sui nostri caduti. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.13)



    E' difficile credere che i campi di prigionia sovietici al tempo di Stalin non fossero finalizzati all'eliminazione dei reclusi [...] Ne conseguiva il disegno di annientamento di quella massa, praticato certamente fino al maggio 1943, che si sarebbe differenziato da quello dei nazisti solo per il metodo, il cui esito era prodotto dalla denutrizione, dalla malattia e dal congelamento. Le stesse marce di deportazione, sotto temperature assurde per gli organismi mediterranei, faceva parte del processo d'eliminazione fisica; né può reggere lo stereotipo di taluni storici secondo cui le migliaia di morti sarebbero avvenute per l'asprezza delle battaglie, con i sublimi eroismi e la resistenza ad oltranza di interi reparti. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.81)



    Dei duecentotrentamila soldati italiani poco meno di novantamila rimasero chiusi nella grande sacca. Di questi rivedranno la patria poco più di diecimila. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.86)



    Dopo la resa e le estenuanti marce sulla neve, i prigionieri subivano una prima falcidia per causa delle basse temperature [...] Durante le marce del dawai, incitamento gutturale che chi ha sentito non dimenticherà mai, a migliaia furono colpiti da congelamento e dalla cancrena [...] Oltre il Don, nei centri ferroviari, si smistavano i prigionieri che, contati, venivano caricati e stipati entro vagoni, senza cibo, né acqua [...] I convogli a volte rimanevano fermi in binari morti per giorni e giorni perché le linee erano occupate per i transiti che andavano al fronte [...] vi sarà chi orinerà nella gavetta, per bere dopo che il liquido si fosse un po' raffreddato.
    [...] Una seconda falcidia avveniva già nei vagoni, che per i suoi orrori ricorre in tanti racconti dei superstiti [...] Giunti a destinazione ai prigionieri veniva intimato di scendere; i più validi vi riuscivano, gli altri, moribondi rimanevano accucciati e lamentosi. Allora le guardie saltavano sui vagoni e col calcio dei mitragliatori spingevano gli infelici che gementi trattenevano le urla [...] Una terza falcidia si avrà nella lunga marcia verso il lager, lungo la quale perderà i più deboli. Quelli che si accasciavano, stremati, erano finiti coi parabellum dei soldati di scorta [...] Durante la marcia del davai perirono altre trentamila militari italiani. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.93-96)



    A Komorowka avvenivano le esecuzioni di massa per via delle foreste vicine, nelle quali era agevole occultare i cadaveri; Suslanka era un campo di punizione, i prigionieri finnici colà reclusi, tra stenti e freddo vi morirono tutti; la temperatura gravava sempre dai quaranta ai cinquanta gradi sotto zero. Anche a Vorkuta si moriva, nelle sue miniere di carbone, per cui questo grande campo sarà chiamato campo della morte [...] Quello di Kolyma era attivo già al tempo dei grandi processi di Stalin [...] E' questo, probabilmente uno dei più vecchi campi ancora esistenti e dei più grandi se negli anni Trenta deteneva più di ottocentomila infelici.
    [...] Lì, tutti i prigionieri che per qualche motivo non potevano produrre la loro norma erano consegnati a speciali squadre composte da tre individui, dette troikas, che generalmente li condannavano alla fucilazione sotto l'accusa di sabotaggio, eseguivano la sentenza, oppure prolungavano la pena [...] Ogni anno 100.000 prigionieri erano inviati al campo di Kolyma e soltanto circa 10.000 ne ritornavano [...] Il più orribile tuttavia, quello che verrà ricordato con più raccapriccio, era il campo di Krinowaja [...] Il solo nome ancor oggi terrorizza i pochi superstiti: questo lager non era secondo al più famigerato campo di sterminio della Germania nazista [...] E qui un alto ufficiale prigioniero, un italiano, a nome di tutti pregherà il comandante russo di essere fucilato assieme agli altri prigionieri [...] All'interno delle baracche del campo di Susslanka la temperatura scendeva a meno quarantasette: pochi furono i superstiti. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.97-99)



    Era questo un campo (Susdal) per ufficiali, tra i quali tutti i cappellani superstiti: cinque. Alcuni di questi riuscirono a celebrare la messa: sempre in tempo di notte, tra il gelo mortale e il rischio di venire fucilati se sorpresi. La mortalità, comunque, superò il 90 per cento. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.121)



    Dichiarare d'esser antifascisti non era sufficiente, bisognava essere comunisti. E ancora: in più di quattro anni di prigionia non ho mai visto un commissario del popolo, ed erano italiani come noi, avere una parola, un gesto, uno sguardo di commiserazione per noi, che morivamo a migliaia. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.127)



    Ricordo che durante i primi bagni, continua Gherardini, dopo essermi spogliato in una stanzaccia sudicia entrando nel calidarium, svenivo in media dalle dieci alle quindici volte [...] Chi aveva la dissenteria sentiva improvvisamente acuirsi gli spasmi; c'era un buco in un angolo ed era una corsa frenetica, uno spingersi a vicenda, uno schifoso ribollire di escrementi liquidi [...] I corpi nudi erano spaventosi. La testa, rasata a zero, sembrava un teschio che avesse conservato la pelle, tra costola e costola apparivano dei solchi profondi, le ossa del bacino erano visibili sotto l'epidermide, tra le cosce passavano i due pugni congiunti [...] A Oranki su novecentotrentatrè prigionieri italiani, ne sopravvissero duecento. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.140-141)



    Al centro della Russia, fra Mosca e Stalingrado, s'apriva, nella regione di Tambov il lager 188 [...] La morte s'affacciava al lager in ogni momento, e a decine si contavano i cadaveri in un crescendo che raggiunse e superò i cento decessi quotidiani. Portavano la morte, il freddo, la denutrizione e, conseguentemente, le malattie. Le calorie conferite al prigioniero non erano mai più di 600 (nei campi di concentramento hitleriani le calorie distribuite quotidianamente ad ogni prigioniero di guerra non erano inferiori alle 800 e difficilmente superavano le 1200) [...] E' fuor di dubbio l'intenzione del governo sovietico d'annientare i prigionieri di guerra. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.144)



    La dissenteria fa strage [...] la dissenteria si estende in maniera impressionante, diventa quasi sempre sanguigna con effetto letale [...] Nessuno a un certo momento vorrebbe più essere ricoverato ai lazzaretti donde non si ritorna vivi [...] C'è chi arriva al punto, che la fame, per quanto grande e antica possa essere, non giustifica, di raccogliere il grano non digerito degli escrementi, per rimetterlo nella zuppa dopo la passatina con l'acqua fresca [...] Nel lager di Tambov su ventimila prigionieri, ne sopravvissero mille. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.147-151)



    Il campo di Krinowaia era considerato da tutti coloro che ebbero la sventura di transitarvi e la sorte d'uscirne, un vero e proprio luogo di sterminio, non certo secondo al peggiore dei lager nazisti [...] Solo in questo campo, nell'arco di quindici giorni, s'ebbero più decessi che in tutti i campi dell'Unione Sovietica: si contarono ventisettemila morti. Per favorire lo sterminio ai prigionieri veniva negato il cibo per i primi sette giorni dal loro arrivo, poi si distribuiva la zuppa che era costituita da acqua calda con qualche buccia di patate e alcuni pezzi di bietola.
    [...] I decessi avvenivano in continuazione, tanto che non si riusciva a sgomberare i cadaveri se non con l'allucinante espediente di legarli al collo ed alle caviglie, formando lunghe catene che venivano trascinate da muli [...] A Krinowaja la morte giungeva anche attraverso le fucilazioni, le eliminazioni camuffate e lo scempio del cannibalismo sui moribondi: era praticata l'antropofagia. Anche gli italiani, come avevano fatto gli ungheresi, resi pazzi dagli stenti mangiavano i cadaveri. Il cannibalismo di Krinowaja, è scritto, è una macchia che rimarrà un incancellabile atto d'accusa contro il governo sovietico e contro i comunisti fuoriusciti, testimoni indifferenti della degradazione dei loro connazionali. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.152-153)



    I prigionieri furono lasciati senza cibo... alcune migliaia morirono nel giro di poche settimane per mancanza di cibo, per assideramento, per intossicazione. Altri per eccessiva fame si diedero al cannibalismo: i cadaveri appena morti o in fin di vita venivano squartati; qualche pezzo di muscolo ancora conservato del dimagrimento, il fegato, le cervella estratti e mangiati crudi o semiarrostiti al fuoco di sterpi e di paglia. Alcuni in qualche gavetta facevano cuocere un po' quella poltiglia di carne umana [...] Le teste venivano aperte, i costati divelti, un fuocherello alcuni sorvegliavano che non venisse nessuno e la cosa era fatta. Non si curavano neppure di ricomporre i cadaveri, io stesso vidi slitte cariche di corpi mutilati [...] L'odore del cadavere attirava i mangiatori di carne umana e appena qualcuno mostrava i sintomi della fine prossima gli erano già intorno, pronti a farlo a pezzi; le squadre, messe insieme per impedirlo, non sempre arrivavano a tempo. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.153-154)



    Negli archivi del KGB, l'erede dell'infausta Enkevedè, solo quest'anno aperti agli storici e ai giornalisti di tutto il mondo, sono emersi i fascicoli compilati con meticoloso zelo sui prigionieri di guerra. Quello che sembrava un olocausto dovuto a cause contingenti risulta oggi inequivocabilmente essere stato un disegno perfettamente pianificato. Vi sarebbe persino un numero esatto di militari italiani censiti dalla polizia segreta: 48.957. Da ciò si arguisce che nelle disperate marce del davai morirono trentaduemila prigionieri: era quella la prima fase dello sterminio programmato [...] I prigionieri dell'ARMIR che erano stati rimpatriati, furono circa diecimila, gli ultimi dei quali, in contrasto con le leggi internazionali, lo furono dopo ben dodici anni di deportazione e nove dalla fine della guerra. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.161)



    La guerra era finita ma per coloro che avevano calpestato il suolo russo i conti erano ancora aperti. Non parliamo dei tedeschi e del raggruppamento di Camicie nere e di tanti bersaglieri i quali, troppo spesso, non venivano fatti prigionieri. Il solo riconoscimento costituiva una sentenza di morte. Risulterà poi che i prigionieri risparmiati avevano di che pentirsi di non essere stati subito uccisi. Li attendeva la marcia del davai, li attendevano i vagoni della morte e poi i campi d'annientamento. I sovietici, uccidendo, appena catturati, le camicie nere e i tedeschi, finivano così per privilegiarli perché con la morte avrebbero loro evitato le immense torture del gelo e della fame [...] L'eliminazione pianificata, oggi chiaramente dimostrata, era nei disegni del governo sovietico. E bene lo sapevano i fuoriusciti comunisti italiani che cercarono di recuperare, tra quella massa inebetita, coloro che avrebbero potuto diventare comunisti.
    Ancora nel 1948, in occasione del grande appuntamento elettorale italiano, il governo sovietico si disse disposto a liberare tutti i prigionieri dell'ARMIR qualora il signor Togliatti fosse andato al potere. Ricorda Enrico Reginato che quando si diffuse questa notizia i sovietici palesarono la certezza della vittoria comunista in Italia tantochè già da mesi prima di quell'aprile fervettero i preparativi per i rimpatri degli italiani [...] Nessuna Norimberga per i sovietici che hanno calpestato la convenzione di Ginevra e il diritto delle genti, e nessuna Norimberga per i sovietici che avevano voluto eliminare l'intellighenzia polacca con quindicimila ufficiali soppressi nelle fosse di Katyn [...] L'Unione Sovietica con i suoi lager di eliminazione, nei quali erano accomunati dissidenti e prigionieri di guerra, non ha mai saldato i conti verso l'umanità. Né più li salderà poiché il regime fallimentare del suo governo, retto dalla mostruosa ideologia comunista, proprio in questi tempi ha chiuso bottega. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.171-172)



    Eppure l'Italia, dopo l'8 settembre, era passata dallo stato di nemico a quello di alleato e alla fine della guerra era stata firmata un'intesa con l'URSS, sulla base della convenzione di Ginevra, per il rimpatrio di tutti i prigionieri o delle loro salme, come è avvenuto in tutti i paesi del mondo, anche nei più lontani o ritenuti più incivili. Dalla Russia solo dopo cinquant'anni, dopo il crollo del comunismo si viene a sapere di oltre 60.000 nomi ben catalogati negli schedari del KGB, mentre per anni i dirigenti sovietici e i comunisti italiani hanno sempre sostenuto che non c'erano più notizie. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.197)



    Il soldato italiano caduto nelle mani dei sovietici era meno di zero. I piccoli gruppi venivano passati per le armi col seguente ordine di precedenza : tedeschi, camicie nere, cappellani militari. Chi si salvò lo dovette al fatto di essere stato catturato con reparti di una certa consistenza. Il soldato russo di guardia alle colonne, i partigiani e le compagne della scorta sparavano sui prigionieri quando volevano, per qualsiasi capriccio, e di ciò non dovevano rendere conto a nessuno. Le truppe autocarrate che, si incrociavano durante il davai sparavano a loro volta con mitragliatrici, parabellum e fucili contro le colonne e quel macabro tiro al bersaglio apriva sempre vuoti paurosi tra i prigionieri.
    A chi toccava toccava. Tutti coloro che cadevano prostrati lungo il cammino, stroncati dalla fatica, dalla fame, dal congelamento o dalle ferite, venivano immediatamente eliminati col classico colpo di fucile alla nuca. Quelli che scampavano al colpo alla nuca perché la scorta non avrebbe materialmente potuto liquidarli, erano condannati a morte dal freddo. I sopravvissuti al piombo dei sovietici furono uccisi dalla sete e dalla fame. Di fame e di sete morirono i primi compagni e di tutte le malattie connesse alla totale mancanza di vitto. Collassi cardiaci, paurosi edemi fulminanti e via dicendo aumentarono la strage. Chi riusciva ad arrivare alla fine della marcia del davai si trovò a tu per tu con le epidemie: tifo petecchiale e dissenteria [...] Nella steppa e non sul fronte del combattimento restarono effettivi, secondo calcoli ufficiali, varianti dall'ottantatre al novantasei per cento. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.203-204)



    La sofferenza fisica non bastava, c'era il tormento politico! Commissioni di ufficiali dell'NKVD irrompevano ogni tanto all'interno delle celle e sottoponevano ad interrogatori di ore ed ore, accusando di crimini, mai commessi, pretendendo notizie di carattere militare segreto, raddolcendosi promettendo protezione e benessere per il presente e per il futuro in Italia a patto dell'iscrizione al gruppo [...] Gl'interrogatori ai quali venivamo sottoposti erano estenuanti: in essi si voleva conoscere la posizione professionale e condizione dei nostri parenti ed amici in Italia, le nostre e le loro idee politiche, l'opinione nostra e dei nostri compagni di prigionia sull'Unione Sovietica e sul comunismo. (da "Prigionieri italiani nei campi di Stalin", pag.225)



    Poi, all'improvviso decisi di togliermi i distintivi di grado. Nella mia mente spossata si aggrovigliavano considerazioni e ricordi: gli ufficiali di fanteria che - come avevo visto - andavano spesso all'attacco senza gradi, ma soprattutto certi racconti di atroci supplizi inferti dai bolscevichi ad ufficiali italiani prigionieri. (da "I più non ritornano", pag.55)



    A costui il soldato ripeté d'essere stato effettivamente prigioniero dei russi. Faceva parte di un'enorme colonna d'italiani catturati [...] cui i russi avevano dichiarato che li stavano portando a Millerovo, per caricarli sui treni e spedirli a lavorare nelle retrovie. [...] Il soldato proseguì: improvvisamente i guardiani della colonna avevano cominciato a far fuoco coi loro mitra sugli italiani. (da "I più non ritornano", pag.97)



    Appena catturati subimmo la prima perquisizione; capi di corredo necessarissimi per quel clima ci furono tolti. Successivamente i feriti più gravi, circa 150, furono divisi dal resto, ammassati contro una vecchia capanna e mitragliati. I cingoli dei potenti T.34 completarono il misfatto stritolando quelle povere carni. La scena fu così fulminea che al momento restammo allibiti e quasi increduli di fronte a tanta crudeltà. Subito dopo un altro episodio ci fece chiaramente in quali mani eravamo caduti. Una trentina di ufficiali e soldati, non in grado di reggersi, che si trovavano ancora ricoverati in un'isba, furono barbaramente trucidati e l'isba stessa data alle fiamme. I mitra russi non dovevano però averli uccisi tutti perché non appena si levarono le prime fiamme si udirono grida di disperazione che si tramutarono in spasmodiche urla di dolore quando le fiamme stesse giunsero a mordere questi poveri corpi già straziati dalle ferite. (da "I più non ritornano", pag.233)



    Soltanto nel 1977, dopo la pubblicazione delle cifre dettagliate da parte dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore ci fu possibile concretare in cinquanta-sessantamila il numero degli italiani autosufficienti caduti in mano russa. Di essi ne rimpatriarono a guerra finita 10.030. Per gli altri non ci rimangono che le stime fatte dagli stessi prigionieri, secondo le quali il 40% circa dei catturati dovrebbe essere morto di fame e sfinimento, oppure ucciso perché non più in grado di camminare, durante le terribili marce del "davai!" verso i luoghi di radunata al di là del Don; dei sopravvissuti, pure un 40% circa (cioè il 25% del totale catturati) dovrebbe essere morto sui treni glaciali che a piccola velocità li trasportavano verso i lager; infine un altro 40%, sempre dei sopravvissuti (cioè il 15% dei catturati) dovrebbe essere morto nei lager durante i primi quattro mesi di prigionia: ancora per stenti, ma soprattutto per epidemie di tifo petecchiale. (da "I più non ritornano", pag.233-234)



    Ai caduti in combattimento si devono poi aggiungere purtroppo i tanti, i troppi caduti in prigionia. Si dimentica spesso difatti, volutamente o no, che nei campi di concentramento sovietici oltre il 90 per cento dei prigionieri, di ogni nazionalità, perse la vita per le disumane condizioni alle quali vennero tutti sottoposti. (da "Fronte russo : c'ero anch'io", volume 1, pag.151)



    A Valuiki assieme al mio generale Battisti, senza munizioni davanti ai cosacchi russi. Siamo costretti: o prigionieri o morire. Dopo alcuni giorni di peregrinare per vari paesi e isbe, siamo arrivati a Rossosch, sempre a piedi. [...] Allora mi sono messo io a caricare in spalla feriti e congelati, e caricarli sul treno. [...] Siamo partiti di lì in 1300, dopo 15 giorni siamo arrivati a Talukow, siamo rimasti vivi 370, gli altri tutti morti durante il viaggio. Dei 370 a marzo, in settembre stesso anno siamo rimasti vivi 65. (da "Fronte russo : c'ero anch'io", volume 2, pag.526-527)



    Tenente medico Enrico Reginato, medaglia d'oro al V.M. Battaglione Sciatori Monte Cervino, Corpo d'Armata Alpino: "Io non ero presente alla giornata e alla battaglia di Nikolajewka; ero già, da tempo, in prigionia in mano dei russi. Ma appunto per ciò fui testimone delle estreme conseguenze della ritirata degli alpini (e di tutta l'armata italiana) in quell'inverno 1942-43, quando a conclusione della ritirata stessa per molte decine di migliaia di italiani si apri l'appendice e il periodo della prigionia russa. Sono stato testimone delle sofferenze che prolungarono a innumerevoli alpini le sofferenze della ritirata: gli innumerevoli e quasi sempre mortali patimenti di quanti fra gli alpini non riuscirono a varcare il cancello di libertà di Nikolajewka. Da allora penso che ritirata e prigionia costituirono un tutt'uno, la completezza di un calvario cosi irto di dolori e cosi prolungato nel tempo e nell'infinita varietà di patimenti da non consentire alla mente umana di concepirlo.
    Io ho visto soffrire e morire, in modo inenarrabile, e ne do qui inadeguata testimonianza, affinchè il ricordo appassionato almeno permanga e sia di insegnamento al giorno d'oggi, e tutto sia fatto nel campo della dignità e della tutela dell'uomo al fine di tenere lontana la gioventù attuale dal ripetersi dei patimenti allora sofferti dagli alpini, e da quanti ebbero la suprema sventura di cadere in una prigionia quale fu quella che subimmo in mano dei russi. Abbiamo visto colonne di prigionieri sospinti per giorni e settimane da urli, spari e percosse andar sempre più assottigliandosi perché chi non si reggeva per la stanchezza veniva finito con le armi. Abbiamo sentito levarsi invocazioni disperate "dottore aiutami, non ne posso più", ma anche i dottori non ne potevano più; si coprivano le orecchie con le mani per non udire quelle voci e in quell'istante avrebbero voluto morire per non sentire scaricare le armi sul caduto.
    Abbiamo visto le strade segnate da cadaveri che genti e corvi profanavano: le prime per recuperare le vesti, i secondi per sfamarsi. Abbiamo assistito a spogliazioni di scarpe, di vesti, di oggetti di ogni genere, appartenenti a uomini sfiniti che non potevano reagire di fronte alla violenza. Abbiamo visto uomini disperati per fame tentare di eludere la sorveglianza per cercare del cibo, e venir abbattuti come cani. Abbiamo visto esseri umani abbnitirsi per l'infinita stanchezza, un'umanità degradata nella quale pochi si sentivano ancora fratelli al vicino o sentivano ancora pietà per il debole o il morente. Lo spirito di cameratismo che aveva legato, un tempo, i combattenti tra loro, sembrava finito con l'abbandono delle armi.
    Abbiamo visto entrare in campi di raccolta migliaia di uomini di molteplici nazionalità e uscirne vive poche centinaia nel breve arco di tempo di 30 giorni e, in quei trenta giorni, il dolore toccare il vertice dell'inumano. I ricoveri, esposti ai rigori del clima, erano gremiti fino all'inverosimile di uomini doloranti: l'odore acre della cancrena ristagnava ovunque; la fame distruggeva i corpi, la dissenteria completava l'opera di disfacimento di esseri umani martoriati da fame e sete e da parassiti che brulicavano nelle barbe incolte e sotto le vestì sudice e lacere. Un buio tragico e ossessionante scendeva su questi orrori fin dalle prime ore della sera, interrotto ogni tanto da torce agitate da figure umane urlanti che prelevavano uomini per il lavoro; poi tornava un cupo silenzio dì morte interrotto da grida di dolore, da gemiti, da invocazioni pronunciate nelle più diverse lingue, da preghiere elevate al ciclo ad alta voce da qualche cappellano.
    Abbiamo visto uomini diventare, per fame, feroci come lupi. Alle prime distribuzioni di cibo, come colti da improvvisa follia, spettri umani si levavano e si precipitavano urlando e schiacciandosi, rovesciando a terra ogni cosa, buttandosi al suolo per succhiare il fango impastato con il cibo sparso. Guardiani armati di spranghe di ferro dovevano far scorta al pane per difenderlo dai branchi di uomini in agguato che si avventavano per impossessarsene. Finalmente vennero convogli ferroviari a caricare e portare altrove questo resto di umanità carica di dolore e di parassiti: i convogli scaricavano i superstiti in altri campi che li accoglievano per rigettarli in fosse comuni; in essi li attendeva non la salvezza, ma il tifo, la tubercolosi, la difterite, la pellagra e ogni altro male. I lazzaretti (cosi venivano chiamati i luoghi dove si moriva], erano uno spettacolo drammatico e straziante; corpi discesi su pancacci di legno o sulla nuda terra si sfasciavano per morbi sconosciuti.
    La morte passava come un'ombra senza requie: ogni giorno volti nuovi, nuove sofferenze; cervelli sconvolti dalla pazzia, deliri, dissenterie, arti deformati dagli edemi, ferite corrose dalla cancrena. I medici e i sanitari si trascinavano fra quegli infelici fintante che il male portasse via anche loro. Ricorderò per sempre che un giorno, in un campo di concentramento, durante l'infuriare di una epidemia che giorno e notte mieteva innumerevoli vite umane, mi si avvicinò un giovane ufficiale medico austriaco, che parlava correntemente l'italiano. Egli mi espresse il desiderio di uscire dalla zona non infetta del campo per assistere gli ammalati, quasi tutti italiani. Lo sconsigliai per il grande pericolo al quale si esponeva; ma insistette con queste parole: "Collega, la prego, io non voglio perdere questa grande occasione di essere medico e cristiano". Profuse generosamente la sua arte e le sue energie per i contagiati; contagiato lui stesso, non trovò più in sé la forza di vincere il male che con parole semplici e grandi si era prefisso di combattere.
    Si spense con la serena dolcezza di chi è consapevole di non aver perduto né di fronte a Dio né di fronte agli uomini la grande occasione. Era difficile fare il medico, in quelle circostanze. I medicinali scarseggiavano, le poche fiale di analettici, per lo pili canfora, dovevano essere utilizzate solo nei casi estremi. Bisognava dosare tutti i farmaci con assoluta parsimonia, valutare lo stato di gravita di ciascun malato, decidere chi doveva avere la precedenza, stabilire una inutile graduatoria e talvolta si trattava di scegliere tra un paziente che invocava il medico nella sua stessa lingua e un altro sconosciuto figlio di Dio. I superstiti di tutti questi mali, uscirono dai lazzaretti con passi incerti e vacillanti. Quelli che alcuni mesi prima erano soldati pieni di vitalità e comandanti autorevoli, apparivano scheletri tenuti assieme da pelle ruvida e squamosa.
    Le fisionomie erano irriconoscibili; i capelli aridi, incanutiti; gli occhi immersi nelle occhiaie profonde; la cute del viso raggrinzita in minime rughe, il sorriso una smorfia che lentamente si ricomponeva; i denti vacillanti su gengive brune e sanguinanti, le unghie delle mani e dei piedi segnate da un solco trasversale che pareva segnasse l'inizio della sofferenza. Molti avevano perduto fino al 40-50% del loro peso; attoniti, assenti, dovevano pensare a lungo prima di ricordare il loro nome; sembravano esseri spettrali usciti da un mondo irreale, insofferenti ed indifferenti a tutto che non fosse la distribuzione del cibo. I mesi, gli anni di detenzione, non furono che tappe di un lungo calvario di rovina e di morte. Morte per esaurimento fisico, per interminabili marce, per i colpi spieiati degli uomini di scorta, per epidemie incontrollabili, per inanizione. I superstiti, smarriti dal crollo repentino di ogni illusione, tormentati dalla fame, dalla miseria, dalla paura, rimasero, costretti ai più duri lavori, per anni in balia del nemico, il quale, con abilità e perseveranza, cercò di catturarne anche l'anima ed imporre la propria ideologia.
    I detentori che avevano i corpi di quei vinti volevano il trofeo delle loro anime per vincerli due volte usando l'arma della propaganda e del ricatto: "tu devi cambiare opinione altrimenti non rivedrai né la patria né la madre, né la sposa e i figli". Questo fu l'infame ricatto: cedere dignità, coscienza e fede in cambio di ciò cui i prigionieri avevano diritto senza concessioni e senza compromessi. Finalmente, un giorno arrivò un ordine nei campi: i prigionieri non dovevano più morire; i medici dovevano attenersi ad esso sotto minaccia di gravi punizioni. Che cosa significava questa nuova disposizione? Invero la morte non si lascia impartire comandi. L'ordine voleva dire semplicemente che le restrizioni che determinavano la morte dei prigionieri dovevano cessare.
    Venne, allora, concesso un miglioramento di vitto, modesto ma pure essenziale; vennero presi provvedimenti che crearono condizioni possibili di vita, la lotta contro i parassiti si fece efficace, i medici trovarono meno arduo il loro lavoro disponendo di una quantità maggiore di mezzi, in ambienti più igienici ed adeguati. Ciò bastò per notare nei prigionieri una lenta ripresa delle forze, un miglioramento progressivo dei rapporti sociali, un ritrovamento di dignità e coscienza, un albeggiare di nuove speranze. Si riallacciarono vecchie amicizie, si riprese man mano a pensare, a parlare, a pregare, a confidarsi, a sperare, a credere nella salvezza. Ma ciò fu raggiunto quando già da tempo le fiamme della guerra si erano spente e nel resto del mondo iniziava, con la pace, una lenta resurrezione". (da "Nikolajewka : c'ero anch'io", pag.650-653)



    Chi rimase indietro o, meglio, chi sopravvisse alla cattura (poiché, fin troppo spesso, chi cadeva nelle mani dell'Armata Rossa veniva ucciso con un colpo nuca: centinaia e centinaia di soldati italiani, che pure sarebbero stati in grado di procedere verso i campi di raccolta, finirono cosi e con loro, a maggior ragione i feriti intrasportabili e i congelati), chi sopravvisse alla cattura dunque (e gli italiani avevano maggiori probabilità di riuscirvi dei tedeschi), veniva costretto ad estenuanti marce forzate che duravano anche settimane. Durante queste marce i prigionieri morivano come mosche, falcidiati dalla fatica, dalla fame, dal freddo o dalle guardie, che uccidevano tutti loro che si accasciavano spossati. Quando poi i superstiti riuscivano a raggiungere i campi di raccolta, rischiavano in questi la morte per sete o per fame: quasi sempre solo il cannibalismo a danno dei defunti permise loro superare quello spaventoso periodo. Solo con il maggio del 1943 la situazione dei superstiti prigionieri italiani (meno di 11.000 sui circa 60.000 catturati dopo la battaglia del Don) potè dirsi migliorata. (da "In nome della resa", pag.251)

    inizio

    TEDESCHI NEI CAMPI ANGLOAMERICANI.


    Le rese in massa nell'ovest contrastavano fortemente con le ultime settimane sul fronte orientale dove le unità superstiti della Wehrmacht combattevano ancora contro l'Armata Rossa avanzante, per permettere al maggior numero possibile di camerati di sfuggire alla cattura da parte dei russi. Questa era l'ultima strategia del comando supremo tedesco agli ordini del grand'ammiraglio Donitz, che era stato nominato comandante in capo da Adolf Hitler dopo la resa all'ovest del maresciallo del Reich Goring. Dal punto di vista tedesco questa strategia consegnava milioni di soldati tedeschi nelle mani che essi credevano più pietose degli Alleati occidentali, sotto il supremo comando militare del generale Dwight Eisenhower.
    Tuttavia, dato l'odio feroce e ossessivo del generale Eisenhower non solo per il regime nazista, ma anche per tutto quanto fosse tedesco, questo credo risultava nel migliore dei casi un azzardo disperato. Più di cinque milioni di soldati tedeschi nelle zone americane e francesi erano costretti nei campi, molti letteralmente spalla contro spalla. Il terreno attorno a loro presto divenne una palude di sporcizia e malattie. Esposti alle intemperie, mancando anche delle più primitive strutture sanitarie, sottonutriti, i prigionieri cominciarono presto a morire di fame e malattia. A partire dall'aprile 1945, gli eserciti americano e francese annientarono con indifferenza circa un milione di uomini, per la maggior parte nei campi americani. (da "Gli altri lager", pag.13)



    Cercando, arrivai alla porta del colonnello Philip S. Lauben, il cui nome appariva nella lista di circolazione dei documenti dello SHAEF (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force). Era stato il capo del German Affairs Branch dello SHAEF con l'incarico di rimpatriare e trasferire prigionieri per molti mesi critici, quindi sapevo che egli avrebbe dovuto sapere. Nel suo soggiorno, srotolai le fotocopie dei documenti cercando di stare calmo. Quello che avrebbe detto nei pochi minuti seguenti avrebbe vanificato tutto il lavoro fatto per oltre un anno o provato che avevamo fatto una scoperta storica importantissima. Lauben e io controllammo i titoli uno a uno, finché trovammo "Altre perdite". Lauben disse: "Ciò significa morti e fughe". "Quante fughe?" chiesi. "Molto, molto poche" disse. Come scoprii più tardi, le fughe erano meno dello 0,10 per cento. (da "Gli altri lager", pag.16)



    É fuor di dubbio che un enorme numero di uomini d'ogni età, assieme a donne e bambini, morì di fame, congelamento, condizioni malsane e malattia, nei campi americani e francesi in Germania e Francia, a partire dall'aprile 1945, fine della guerra in Europa. Le vittime ammontano indubbiamente a più di 800.000, quasi certamente a più di 900.000 e molto probabilmente a più d'un milione. Le loro morti furono intenzionalmente causate dagli ufficiali dell'esercito che avevano risorse sufficienti per mantenere in vita i prigionieri. Alle organizzazioni assistenziali che tentavano di portare soccorso ai prigionieri nei campi americani era rifiutato il permesso da parte dell'esercito. Tutto ciò venne nascosto al tempo e poi si mentì quando la Croce Rossa, "Le Monde" e "Le Figaro" tentarono di rendere pubblica la verità. I documenti sono stati distrutti, alterati o tenuti segreti. (da "Gli altri lager", pag.16)



    Nel maggio 1943, Eisenhower s'era lamentato con Marshall delle difficoltà di occuparsi di parecchie centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi catturati dagli Alleati in Tunisia. "E' un peccato che non abbiamo potuto ammazzarne di più" scrisse in un poscritto a una lettera che é stata soppressa da varie edizioni ufficiali delle memorie di Eisenhower. (da "Gli altri lager", pag.33)



    In marzo, molte volte le guardie americane, aprendo carri ferroviari di prigionieri provenienti dalla Germania, li trovarono morti all'interno. Il 16 marzo a Mailly le Camp ne furono trovati morti 104, e altri 27 a Attichy. Eisenhower era irritato di doversi occupare di questi casi, perché significava scusarsi con i tedeschi. "Detesto di dovermi scusare con i tedeschi" egli scrisse a Marshall, a Washington, riferendo sulla sua inchiesta in merito alle morti dei tedeschi che erano morti "soffocati accidentalmente" nei carri merci durante il trasporto. (da "Gli altri lager", pag.34)



    Il 26 aprile 1945, un messaggio dei capi degli Stati Maggiori riuniti ticchettò sulle macchine dello SHAEF a Reims in risposta al messaggio di Eisenhower del 10 marzo che creava lo status di DEF (Disarmed Enemy Forces). I CCS approvavano lo status DEF soltanto per prigionieri di guerra in mano degli americani. I membri inglesi dei CCS rifiutavano di adottare il piano americano per i loro prigionieri. Le principali condizioni fissate da Eisenhower erano le seguenti: [...] Non vi sarà alcuna dichiarazione pubblica riguardante lo status di forze armate tedesche o di truppe disarmate. Con quest'ultima clausola, la violazione della Convenzione di Ginevra era tenuta segreta. [...] Tanto gli americani che gli inglesi sapevano che i tedeschi soggetti allo status DEF non sarebbero certamente stati adibiti al lavoro. Molto probabilmente, essi sarebbero morti. Gli inglesi dissentirono inoltre anche sull'uso del termine americano di DEF per quei prigionieri che sapevano che non avrebbero trattato secondo la lettera della Convenzione di Ginevra. Usarono il termine "surrended enemy personnel" (SEP) per distinguere i prigionieri catturati dopo la resa dagli altri prigionieri di guerra. (da "Gli altri lager", pag.39-40)



    Tutte le decisioni riguardanti il trattamento dei prigionieri venivano infatti prese soltanto dall'esercito americano in Europa, con l'eccezione di tre fondamentali, tutte in violazione della Convenzione: la decisione di impedire ai delegati della ICRC di visitare i campi americani (il divieto si applicò anche ai campi inglesi e canadesi); la decisione congiunta americana e inglese di trasferire prigionieri alla Francia come manodopera per le riparazioni, a condizione che la Francia osservasse le norme della Convenzione, e la decisione di inviare alcuni prigionieri in Russia contro la loro volontà. La più importante decisione, pure in violazione della Convenzione, era la creazione dello status DEF, ideato da Eisenhower e approvato dai CCS. (da "Gli altri lager", pag.41)



    Il 21 aprile 1945, un altro messaggio dello SHAEF firmato Eisenhower comunicava a Marshall che i nuovi campi dei prigionieri "non forniranno ripari o altre comodità ...". E aggiungeva che i campi sarebbero stati migliorati dai prigionieri stessi "usando materiali locali". I "campi" erano terreni scoperti, circondati da filo spinato, chiamati "campi temporanei per prigionieri di guerra" (PWTE). Non erano temporanei, ma erano certamente recintati, da filo spinato, fari, torri di guardia e mitragliatrici. Lungi dal permettere ai prigionieri di procurarsi dei ripari "usando materiali locali", un ordine del genio militare, emesso il 1 maggio, proibiva specificatamente di fornire ripari nei campi. (da "Gli altri lager", pag.43)



    Le tende, i viveri, il filo spinato, i medicinali scarseggiavano nei campi non perché l'esercito mancasse di scorte, ma perché le richieste di rifornimenti venivano respinte. (da "Gli altri lager", pag.44)



    Gli ufficiali addetti ai rifornimenti sul campo non potevano ottenere ciò di cui avevano bisogno per i prigionieri, perché i comandanti superiori ne rifiutavano la consegna. [...] In alcuni campi gli uomini erano tanto ammassati che non potevano neanche stendersi. La situazione in un campo era riportata nel modo seguente: "La più alta presenza di detenuti al campo n.18, Continental Central Prisoner of War Enclosure, era di 32.902 prigionieri di guerra. Si richiama l'attenzione sul fatto che la capacità del campo n.18, Continental Central Prisoner of War, non supera i 6.000/8.000 prigionieri di guerra". (da "Gli altri lager", pag.46)



    Disastroso affollamento, malattia, malnutrizione ed esposizione alle intemperie erano la regola nei campi americani in Germania, a cominciare da aprile, nonostante il notevole rischio che i tedeschi avrebbero potuto vendicarsi contro i milioni di ostaggi alleati in Germania. [...] Nell'aprile 1945, furono catturate centinaia di migliaia di soldati tedeschi assieme a civili, ausiliarie, malati e amputati tolti dagli ospedali... Un prigioniero a Rheinberg aveva ottant'anni e un altro era un bambino di soli nove anni... La fame tormentosa e la sete straziante erano i loro compagni, e morivano di dissenteria. Un cielo crudele rovesciava su di loro, settimana dopo settimana, torrenti di pioggia... Nudi sotto il cielo giorno dopo giorno e notte dopo notte, giacevano disperati sulla sabbia di Rheinberg o morivano di stenti nelle loro buche che franavano seppellendoli. (da "Gli altri lager", pag.47-48)



    Tutto quello che potevano fare, per dormire, era scavare una buca con le mani e calarci dentro, stringendoci l'uno all'altro. Eravamo ammassati in uno spazio molto ristretto. Gli uomini ammalati dovevano defecare sul terreno. Presto, molti di noi furono così deboli che non potevano neanche calarsi i pantaloni. [...] In un primo tempo, non c'era acqua per niente, tranne la pioggia, poi, dopo un paio di settimane, potemmo avere un po' d'acqua da un tubo. [...] In quella primavera, la pioggia era quasi costante nella regione del Reno. Piovve in più di metà dei giorni e in più di metà dei giorni restammo senza cibo del tutto.
    [...] Protestai con il comandante americano del campo perché stava violando la Convenzione di Ginevra, ma egli disse soltanto: "Dimenticatevi la Convenzione, perché non avete alcun diritto". Entro pochi giorni, alcuni degli uomini arrivati al campo in buona salute erano morti. Vidi i nostri uomini trascinare i cadaveri alla porta del campo, dove venivano gettati uno sopra l'altro sugli autocarri che li portavano via. Un ragazzo di diciassette anni, che poteva vedere in lontananza il suo villaggio, stava di solito presso la barriera di filo spinato e piangeva. Una mattina i prigionieri lo trovarono ucciso da una fucilata, ai piedi della barriera. Le guardie sollevarono il suo corpo e lo appesero alla barriera, lasciandovelo come avvertimento. I prigionieri erano costretti a passare vicino al corpo e molti gridarono "Moerder, moerder (assassini, assassini)!". Per ritorsione il comandante del campo tolse ai prigionieri per tre giorni le magre razioni. Per noi che già eravamo affamati e potevamo a stento muoverci perché ammalati, era terribile; per molti significava la morte. (da "Gli altri lager", pag.49-50)



    In molti campi era proibito scavare buche per farsi dei ripari. Tutto quello che avevamo da mangiare era l'erba. [...] Non era il più giovane del campo, perché tra i prigionieri vi erano donne incinte, bambini di sei anni e uomini di più di sessant'anni. Poiché non vennero tenuti elenchi nei campi dei DEF, e molti degli elenchi dei POW furono distrutti negli anni '50, nessuno sa quanti civili vi furono rinchiusi, ma i rapporti dei francesi rivelano che tra le centomila persone che gli americani trasferirono loro come manodopera, c'erano 32.640 donne, vecchi e bambini. [...] George Weiss, un meccanico di carri armati, disse che il suo campo lungo il Reno era così affollato che non potevamo neanche stenderci a terra completamente. Dovevamo passare la notte seduti e stretti l'uno all'altro. Ma la mancanza d'acqua era la cosa peggiore di tutto. Non ricevemmo acqua per tre giorni e mezzo. [...] Vidi morire migliaia di uomini. I cadaveri venivano portati via con gli autocarri. (da "Gli altri lager", pag.51)



    Wolfgang Iff disse che nella sua sezione di circa 10.000 persone a Rheinberg, venivano trascinate fuori dai 30 ai 40 cadaveri al giorno. Facendo parte della squadra addetta ai seppellimenti, Iff era ben piazzato per vedere quanto succedeva. Riceveva vitto extra per aiutare a trascinare i morti dal recinto alla porta del campo, dove venivano caricati su carriole e portati in grandi baracche di lamiera. Qui Iff e la sua squadra li spogliavano dei vestiti, spezzavano a metà le piastrine d'alluminio, li ammassavano a strati di quindici o venti, vi gettavano sopra dieci palate di calce viva, ammassando quindi altri strati, fino all'altezza di un metro. Mettevano quindi gli oggetti personali dei morti in un sacco per gli americani che se ne andavano.
    Vi erano morti per cancrena a seguito dei congelamenti sofferti nelle notti fredde d'aprile. Una dozzina circa d'altri, compreso un ragazzo di quattordici anni, troppo deboli per tenersi in equilibrio sui tronchi gettati attraverso i fossi come latrine, vi erano caduti annegando. Alcuni venivano ripescati e il sudiciume veniva lasciato su di loro così com'erano. A volte morivano fino a 200 uomini al giorni. In altri recinti di dimensioni simili, Iff vide morire da 60 a 70 uomini al giorno. "Poi gli autocarri portavano via il triste carico. Quale macabra immagine", egli disse. Non fu mai detto ai prigionieri cosa avveniva dei cadaveri, ma, operai edili tedeschi negli anni cinquanta, e addetti alle sepolture negli ottanta, hanno scoperto a Rheinberg resti umani con piastrine d'alluminio dell'esercito tedesco della seconda guerra mondiale gettati assieme in fosse comuni, senza tracce di bare o pietre tombali. (da "Gli altri lager", pag.54-55)



    Il prigioniero Thelen disse sottovoce a suo figlio attraverso il filo spinato che nel campo morivano da 330 a 770 persone al giorno. Il campo ospitava allora da 100.000 a 120.000 persone. (da "Gli altri lager", pag.55)



    Gli ufficiali di medio grado responsabili sul campo dei POW inoltravano dapprima le loro richieste di rifornimenti seguendo la via normale, ma ricevevano in risposta molto meno del necessario per mantenere in vita i prigionieri. [...] Aggiunse che non poteva fornire gli abiti e gli equipaggiamenti da campo necessari come le tende, perché il Ministero della Guerra non li approvava mai. Infatti, un gran numero di mie richieste di rifornimento é stato respinto. (da "Gli altri lager", pag.66)



    Il 6 per cento circa del surplus permanente di viveri dell'esercito in Europa avrebbe fornito cibo sufficiente a nutrire per 100 giorni (con 1.300 calorie extra al giorno) e tenere in vita 800.000 persone, che morivano di fame nei campi in mezzo all'abbondanza. (da "Gli altri lager", pag.71)



    Lo squallore dei campi derivava dallo squallore morale che contagiava gli alti gradi dell'esercito. Questi ufficiali erano così cinici verso i prigionieri che, mentre scrivevano i loro ansiosi memorandum, forse per restare esenti da critiche, se mai ve ne furono, i loro sottoposti in almeno sei casi rifiutavano di permettere ai civili tedeschi di portare viveri ai prigionieri nei campi. Molte donne tedesche dissero al tenente Fisher che era stato loro vietato di portare cibo ai loro mariti nei campi, presso Francoforte, nell'estate del 1945. [...] Il Dipartimento della Guerra aveva imposto il divieto più pesante che riguardava tutti i campi americani, alla spedizione di pacchi della Croce Rossa ai prigionieri. Il divieto era esteso perfino alle donazioni che i tedeschi prigionieri negli Stati Uniti volevano fare per contribuire alle necessità dei prigionieri in Europa. (da "Gli altri lager", pag.72)



    [...] un ordine di una sola frase firmato Eisenhower li condannò tutti alla peggiore delle condizioni. Con effetto immediato tutti i membri delle forze tedesche tenuti in custodia americana nella zona americana d'occupazione della Germania, saranno considerati come forze nemiche disarmate e non godranno più dello status di prigionieri di guerra. [...] la percentuale delle morti quadruplicò in poche settimane. [...] Ma i tedeschi morivano molto di più ora che s'erano arresi, di quanto erano morti in guerra. Nei campi francesi e americani morirono almeno dieci volte più tedeschi di quanti erano morti, dal giugno 1941 all'aprile 1945, nei combattimenti sul fronte occidentale in Europa. (da "Gli altri lager", pag.73)



    Nei campi lungo il Reno, tra il 1 maggio e il 15 giugno, gli ufficiali del Corpo Medico registrarono un'orribile percentuale di morte, 80 volte più alta di qualunque alta avessero mai osservata in vita loro. Con efficienza, sommarono le cause di morte: tante per dissenteria e diarrea, tante per febbre tifoide, tetano, setticemia, tutte a percentuali inaudite sin dal medioevo. La stessa terminologia medica era stravolta dalla catastrofe di cui erano testimoni: venivano registrate morti per deperimento ed esaurimento. Le tre maggiori causa di morte erano la diarrea e dissenteria, i disturbi cardiaci e la polmonite. Come dimostra l'ispezione condotta dai medici, altre importanti cause di morte erano quelle direttamente legate alla mancanza di assistenza sanitaria, al sovraffollamento e al congelamento. (da "Gli altri lager", pag.74)



    Entro la fine di maggio, c'erano stati più morti nei campi americani che per lo scoppio della bomba atomica a Hiroshima. Alla stampa non era giunta una parola. (da "Gli altri lager", pag.77)



    Il governo degli Stai Uniti rifiutò al comitato internazionale della Croce Rossa di entrare nei campi per visitare i prigionieri, in diretta violazione degli obblighi americani verso la Convenzione di Ginevra. (da "Gli altri lager", pag.78)



    I resoconti giornalistici dalla Germania venivano pesantemente censurati e influenzati, consentendo di condurre le cose nei campi POW e DEF in una segretezza che fu mantenuta nei confronti di tutti, tranne le vittime, per molti anni. Un altro importante diritto scomparve con la Svizzera, quello alla posta, eliminando la sola possibilità che i prigionieri avevano di avere cibo a sufficienza come pure il diritto di dare notizie di se stessi e riceverne da casa. Nessuna notizia filtrava dai campi per raggiungere osservatori imparziali. Pochi aiuti potevano arrivare nei campi. (da "Gli altri lager", pag.79)



    Ancora nel febbraio 1946, l'ICRC, come altre organizzazioni assistenziali, aveva la proibizione degli Stati Uniti a portare aiuto ai bambini tedeschi e agli ammalati nella zona americana d'occupazione. (da "Gli altri lager", pag.81)



    Curiosamente, un primo segno sinistro del futuro venne dall'America settentrionale, da dove una delegazione della Croce Rossa riferì che le razioni dei prigionieri tedeschi erano state ridotte appena erano stati rilasciati i prigionieri alleati. Quindi, nel tardo maggio o ai primi di giugno, il Comitato Internazionale della Croce Rossa caricò due treni merci di viveri tratti dai magazzini in Svizzera, dove ne aveva in deposito oltre 100.000 tonnellate. Inviò i due treni, seguendo la via normale prescritta dal governo tedesco durante la guerra, uno a Mannheim e l'altro a Augsburg (Augusta), entrambe città nel settore americano.
    I treni raggiunsero le loro destinazioni, dove i funzionari che li accompagnavano furono informati da ufficiali americani che i magazzini erano pieni e i treni dovevano tornare indietro. Tornarono indietro, pieni, in Svizzera. Perplesso, Huber, il capo del Comitato Internazionale della Croce Rossa, cominciò a indagare. Dopo una lunga inchiesta, in agosto, Huber scrisse infine al Dipartimento di Stato forse la lettera più offensiva che la Croce Rossa abbia mai inviato a una grande potenza. (da "Gli altri lager", pag.84)



    Nella zona francese, la razione ufficiale era di poco superiore a quella del campo di sterminio di Belsen. (da "Gli altri lager", pag.92)



    "É proprio come a Buchenwald e Dachau" pensava il capitano Julien, mentre camminava cautamente sul terreno devastato, in mezzo ai morti viventi in un ex campo americano. Egli aveva combattuto con il suo reggimento, il Troisiéme Régiment de Tirailleurs Algériens, contro i tedeschi perché avevano rovinato la Francia, ma non aveva mai pensato a una vendetta simile a questo terreno fangoso popolato da scheletri viventi, alcuni dei quali morivano mentre li guardava, altri nascosti sotto pezzi di cartone che tenevano stretti nonostante il giorno di luglio fosse caldo. Donne, che giacevano nelle buche con le pance gonfiate dall'edema da fame in una grottesca parodia di gravidanza, lo fissavano con occhi sbarrati, deboli vecchi con lunghi capelli grigi, bambini di sei, sette anni lo guardavano con gli occhi cerchiati e senza vita per la fame.
    Julien a stento sapeva da che parte cominciare. Nel campo di 32.000 persone a Dietersheim, egli non poté trovare viveri di sorta. I due medici tedeschi dell'ospedale, Kurth e Geck, stavano tentando di curare i tanti pazienti morenti stesi su sporche coperte sul terreno, sotto il caldo cielo di luglio, in mezzo ai segni delle tende che gli americani si erano portati via. Julien mandò immediatamente i suoi ufficiali della 7 Compagnia a ispezionare i civili e gli inabili al lavoro, per vedere chi poteva essere rilasciato subito. Le 103.500 persone nei cinque campi attorno a Dietersheim erano considerate parte della manodopera consegnata in luglio dagli americani ai francesi per riparazioni di guerra, ma i francesi vi contarono 32.640 vecchi, donne, bambini sotto gli otto anni d'età, ragazzi da otto a quattordici, malati inguaribili e amputati. (da "Gli altri lager", pag.94)



    Sembra che sotto i francesi siano aumentate le fucilazioni a caso, sebbene entrambi gli eserciti cercassero di nascondere i fatti e i dati possano risultare distorti. In ogni modo il rapporto del tenente colonnello Barnes in aprile, "27 morti per cause non naturali" era largamente superato in una notte dagli ufficiali francesi ubriachi che, a Andernach, guidarono la loro jeep attraverso il campo ridendo e gridando mentre sparavano sui prigionieri con i loro mitragliatori Sten. Le perdite: 47 morti e 55 feriti. Un ufficiale francese rifiutò il permesso alla Croce Rossa tedesca di dar da mangiare ai prigionieri su un treno nonostante il rifornimento fosse stato già concordato tra la Croce Rossa e il comandante francese del campo.
    Le guardie francesi di un campo, sostenendo di aver notato un tentativo di fuga, uccisero a fucilate dieci prigionieri nei loro recinti. [...] Nel 108 Reggimento di Fanteria la violenza raggiunse tali limiti che il comandante militare della regione, il generale Billotte, su suggerimento del comandante del reggimento, tenente colonnello de Champvallier, che aveva rinunciato a cercare di disciplinare i suoi uomini, raccomandava che il reggimento venisse sciolto. I treni che trasferivano i prigionieri dalla Germania in Francia erano talmente terribili che gli ufficiali responsabili avevano ordini permanenti di evitare soste nelle stazioni francesi, per timore che i civili potessero vedere come venivano trattati i prigionieri.
    L'allievo ufficiale Jean Maurice descrisse un convoglio che comandò nel viaggiò da Hechtsheim. Maurice scriveva che era difficile tener conto dei prigionieri perché i carri ferroviari erano scoperti e il tempo era cattivo. Molte volte il treno era costretto a fermarsi nei tunnel, dove i prigionieri fuggivano dai carri. I francesi aprivano il fuoco su di loro nelle gallerie buie, uccidendone alcuni, Maurice non poteva sapere quanti, perché i corpi venivano lasciati sul posto ai cani. A Willingen, Maurice abbandonò un morto e un morente sulla banchina della stazione. (da "Gli altri lager", pag.98-99)



    Durante le scorse settimane, molti francesi, che sono stati in passato prigionieri dei tedeschi, si sono rivolti a me per protestare contro il trattamento riservato ai prigionieri di guerra tedeschi dal governo francese. [...] La signora Dunning, ritornando da Bourges, riferisce che vi muoiono dozzine di prigionieri tedeschi alla settimana. [...] Mi ha mostrato fotografie di scheletri umani e lettere di comandanti di campi francesi che hanno richiesto d'essere sostituiti perché non possono ottenere alcun aiuto dal governo francese e non possono sopportare di vedere i prigionieri morire di fame. (da "Gli altri lager", pag.101)



    "Le Figaro" pubblicò le notizie mentre erano in corso i festeggiamenti per la vittoria degli Alleati, che le accolsero come il fantasma di Banco. Dapprima incredulo, il giornale era stato convinto dalle testimonianze equilibrate di persone ineccepibili, come il sacerdote, padre Le Meur, che aveva realmente visto gli uomini morire di fame nei campi. [...] Il giornalista Serge Bromberger scriveva: "Le fonti più attendibili confermavano che le condizioni fisiche dei prigionieri erano peggio che deplorevoli. Si parlava d'un orribile indice di mortalità, non per malattia ma per fame, e di uomini che pesavano in media 35-45 chili (80-100 libbre). Dapprima noi dubitavamo che fosse vero, ma abbiamo ricevuto appelli da molte parti e non abbiamo potuto trascurare la testimonianza di padre Le Meur, cappellano generale presso i prigionieri". (da "Gli altri lager", pag.103)



    "Le Monde" pubblicò un articolo Jacques Fauvet, che iniziava appassionatamente: "Mentre oggi si parla di Dachau, tra dieci si parlerà nel mondo intero di campi come Saint Paul d'Egiaux", dove 17.000 uomini, presi in custodia dagli americani nel tardo luglio, stavano morendo così rapidamente che in poche settimane erano stati riempiti due cimiteri di duecento tombe ciascuno. Alla fine di settembre, l'indice di mortalità era di 10 al giorno, ossia oltre il 21 per cento all'anno. (da "Gli altri lager", pag.108)



    Nel gennaio 1946, poco più di mezzo milione di uomini erano nominalmente al lavoro per l'esercito o l'economia civile. Quasi tutti denutriti, mal vestiti, deboli, lavoravano molto al di sotto della normale capacità. Altri 124.000 erano così ammalati che non potevano lavorare. Quando, durante l'estate del 1945, 600 uomini morenti scesero dal treno a Burglose, presso Bordeaux, sotto gli occhi degli abitanti del villaggio stupefatti, 87 di loro erano in condizioni così cattive che la marcia di due chilometri fino al campo li uccise. (da "Gli altri lager", pag.119)



    Non vedemmo mai la Croce Rossa, né venne qualcuno a ispezionarci, fino a due anni più tardi, quando ci portarono delle coperte. Quella fu la prima volta che vennero e fu nel 1947. Noi stavamo mangiando l'erba tra le baracche. I francesi non erano i soli responsabili per quanto avvenne nei campi in Francia, perché un'enorme numero di tedeschi era già malridotto dal cattivo trattamento ricevuto in Germania. Quando si raccolgono centinaia di migliaia di uomini in un'area senza preoccuparsi del modo di dar loro da mangiare, é una tragedia. [...] Ogni giorno, tre o quattro o cinque uomini morivano nella sua baracca di circa 80 uomini. C'erano giorni in cui egli aiutava a trascinare fino a venti cadaveri all'ingresso del campo. (da "Gli altri lager", pag.122-123)



    Il comandante Zalay disse in agosto a Pradervand che almeno 2.000 uomini erano così malandati che non c'era più alcuna speranza per loro. Una lista tenuta da un prigioniero tedesco documenta i nomi di oltre 400 morti nel periodo da agosto a ottobre in una sola sezione del campo. La guardia Robert Langlais di Thorée, che, per sei mesi, fu addetta a scavare tombe a Thorée, aiutò a seppellire una media di 15 cadaveri al giorno, nel periodo da agosto ad ottobre. Dei 200.000 uomini che, secondo Pradervand, stavano per morire, circa 52.000 furono restituiti agli americani, mentre 148.000 restarono nei campi francesi. Non vi furono miglioramenti nei campi francesi quell'inverno, come sappiamo dagli americani, dalla Croce Rossa e anche da alcune fonti francesi, perciò sembra certo che tutti i 148.000 rimasti morirono come previsto. (da "Gli altri lager", pag.125-126)



    A questo punto il pamphlet del governo francese, forse inavvertitamente, usa un linguaggio stranamente simile alla fraseologia USFET, perché 167.000 dei dispersi non contati sono definiti perdus pour raisons diverses, dispersi per varia ragione. Una buona chiave per decrittare questo perdus pour raisons diverses é la previsione di Pradervand che 200.000, dei 600.000 uomini che egli aveva ispezionato, erano certamente destinati a morire durante l'inverno, se le loro condizioni non fossero migliorate. [...] La sola ragione per non riportare il totale dei rimpatriati, mentre tutti gli altri totali parziali venivano assiduamente aggiornati, é quella di nascondere i veri totali. E la sola ragione credibile é quella di nascondere le morti, il cui numero perciò deve essere stato tanto alto, che era meglio nasconderlo. E quindi, sebbene sia impossibile dire con grande esattezza quanta gente morì nei campi, é certo tuttavia che era tanta da causare preoccupazioni e imbarazzo ai francesi. [...] Un gruppo assistenziale di quaccheri scoprì che, nel gennaio 1946, in un campo di 2.000 uomini presso Toulouse i morti erano stati 600 in tre settimane. (da "Gli altri lager", pag.128-130)



    Non c'erano tende nel campo DEF di Gotha, ma solo il solito filo spinato attorno a un terreno subito trasformato in fango. Il primo giorno ricevettero una scarsa razione di cibo, che fu poi ridotta alla metà. Per riceverla, erano costretti a passare le forche caudine, correndo curvi tra due file di guardie che li picchiavano con i bastoni mentre passavano. Il 27 aprile, furono trasferiti in un campo americano a Heideshelm, più a ovest, dove non ci fu cibo per niente, per diversi giorni e poi molto poco. Esposti alle intemperie, affamati e assetati, gli uomini incominciarono a morire. Una notte di pioggia, Liebich vide le sponde della buca, scavata in terra soffice e sabbiosa, franare sugli uomini che erano troppo deboli per uscirne.
    Tentò di tirarli fuori, ma erano troppi. Soffocarono prima che gli altri potessero raggiungerli. [...] Vide dai 10 ai 30 cadaveri al giorno trascinati fuori dalla sua sezione, Campo B, che conteneva in principio 5.200 uomini. [...] Quando infine arrivò un po' di cibo, era guasto. Gli uomini dicevano che, a Rheinberg, avevano avuto 35 giorni di fame e 15 giorni di digiuno assoluto. L'indice di mortalità in campi come quello di Rheinberg, nel maggio 1945, era di circa il 30 per cento all'anno. In nessuno dei campi che aveva visto c'era un qualche riparo per i prigionieri. [...] Secondo le testimonianze degli ex prigionieri di Rheinberg, l'ultimo atto degli americani prima di consegnare il campo agli inglesi, verso la metà di giugno, fu quello di spianare con i bulldozer una sezione del campo dove c'erano ancora degli uomini vivi nelle loro buche. (da "Gli altri lager", pag.133-134)



    (I prigionieri) considerano un'ingiustizia, un crimine contro l'umanità il fatto d'essere trattati inumanamente, di morire di fame in pessime condizioni di vita e d'essere maltrattati... ciò li mette sullo stesso piano delle vittime dei campi di concentramento. E ciò porta alla conclusione che gli altri fanno le stesse cose per le quali essi sono biasimati. (da "Gli altri lager", pag.137)



    La politica inglese non nasceva da pura devozione a principi umanitari, o dalla leale difesa d'un valoroso nemico sconfitto. Preservando la forza dei tedeschi, ora sotto il comando alleato, gli inglesi agivano soltanto per cinico interesse. Gli inglesi sapevano, come il generale George S. Patton, che avrebbero potuto trovarsi nella necessità d'allearsi essi stessi con i tedeschi, contro la Russia, nella prossima guerra per l'Europa. E, come Patton, che liberò alla svelta i suoi prigionieri tedeschi nel maggio 1945, gli inglesi fecero lo stesso con i loro, finché ne rimasero soltanto 68.000, nella primavera del 1946. Gli inglesi agirono ancora una volta come Patton: per molti mesi mantennero intatti nelle loro formazioni, e armati, da 300.000 a 400.000 tedeschi catturati in Norvegia. Stalin protestò per questo con Churchill, a Potsdam. Falsamente, Churchill disse di non saperne niente. (da "Gli altri lager", pag.138)



    Non c'era fatale scarsità di viveri nel mondo occidentale, tranne che in Germania. La scarsità in Germania era causata, in parte, dagli Alleati stessi, con le requisizioni di cibo, la scarsità di manodopera derivante dall'imprigionamento di operai e l'abolizione della produzione industriale per l'esportazione. [...] Non solo la quantità di viveri nei magazzini alleati, ma anche la sbalorditiva ricchezza del Nord America, specialmente degli Stati Uniti, avrebbero reso assurda la notizia di fatali scarsità. [..] Una volta creato il mito della scarsità mondiale di viveri, le piccole quantità di viveri che raggiungevano i campi francesi e americani potevano ben essere definite come il massimo possibile nelle "caotiche condizioni del tempo". (da "Gli altri lager", pag.142-143)



    Gli americani fornivano lo stesso genere d'amenità, diffondendo la storia che alcuni loro comandanti di campi in Germania dovevano mandare via i prigionieri rilasciati, che tentavano di rientrare di nascosto nei campi per avere cibo e riparo. [...] Robert Murphy, che era consigliere politico civile di Eisenhower, quando fu, per pochi mesi, Governatore Militare, "fu sconvolto nel vedere" durante la visita a un campo, "che i nostri prigionieri erano tanto malridotti e emaciati quanto quelli che avevo osservato in un campo di concentramento nazista". (da "Gli altri lager", pag.147)



    Gli americani cercarono, in un primo tempo, di deviare il biasimo sulle larghe spalle dei francesi. Il senatore Knowland, parlando al Senato degli Stati Uniti, nel 1947, andò molto vicino alla pericolosa verità, quando, parlando dei campi francesi, disse: "Se non stiamo molto attenti, potrà arrivare ad imbarazzarci nei prossimi anni, una situazione in cui si potrà vedere come i prigionieri catturati dalle forze americane venivano trattati non molto meglio dei prigionieri che venivano gettati nei campi di concentramento della Germania nazista". Il senatore Morse citò poi un articolo della famosa giornalista Doroty Thompson, che pure esprimeva sorpresa e orrore per la situazione dei campi francesi: "Quel paese, con il nostro consenso o la nostra connivenza, e sfidando la Convenzione di Ginevra ha usato (prigionieri) come manodopera coatta proprio nello stesso modo in cui fu usato da Herr Sauckel (che fu giustiziato) a Norimberga...". Pochi si curano di ricordare che il presidente Roosevelt diede una specifica garanzia al popolo tedesco nel settembre del 1944: "Gli Alleati non trafficano in schiavitù umana". (da "Gli altri lager", pag.150)



    Anche l'ICRC aveva dato informazioni fuorvianti che portavano i tedeschi fuori strada. A seguito delle richieste delle famiglie tedesche, l'ICRC aveva chiesto all'esercito degli Stati Uniti documenti sui dispersi, ricevendo in risposta la comunicazione che erano stati presi soltanto 3.500.000 DEF e circa 600.000 POW. Questi dati trascuravano circa 1.800.000 prigionieri catturati dagli americani durante la guerra. Assieme a quelli dell'indagine del 1947, creavano un sospetto mortale che andava a cadere come pioggia radioattiva sui russi. [...] Così si diffondeva a Knowland, al Senato americano, all'ICRC e al mondo, l'impressione che gli americani avessero catturato da 1.800.000 a 3.100.000 prigionieri meno del vero totale. [...] Ma le famiglie dei morti parlavano.
    Dopo la costituzione del governo della Repubblica federale tedesca, la loro voce collettiva cominciò a farsi sentire. Nel 1950 il cancelliere Konrad Adenauer fece una dichiarazione al Bundestag sull'argomento. 1.407.000 soldati risultavano ancora mancanti dalle loro case nella Germania occidentale dopo la guerra e la loro sorte era sconosciuta. Adenauer disse che c'erano "1.407.000 persone registrate come prigionieri di guerra o dispersi, 190.000 civili dispersi e 69.000 prigionieri dichiarati ancora in mano agli Alleati nei campi per criminali di guerra". Mentre, negli anni 1950, cresceva il clima della Guerra Fredda, diventava molto più importante l'occultamento compiuto originariamente dagli ufficiali di SHAEF-USFET. Seppellite le colpe nazionali assieme a quelle personali, Francia e Stati Uniti potevano ora rovesciare le loro atrocità sui morti dei gulag russi. [...] Nel 1972, il senatore James O. Eastland prese la parola al Senato accusando i russi d'aver tenuto segretamente milioni di POW tedeschi in condizioni "orribili". (da "Gli altri lager", pag.150-151)



    Stalin diceva a Hopkins, a Mosca, nell'estate del 1945, che i russi avevano circa 2.000.000 di prigionieri adibiti al lavoro. Stalin non aveva bisogno, a quel tempo, di ridurre il dato vero, perché ogni parte stava tentando di ottenere la maggior parte possibile del credito della sconfitta di Hitler. Tuttavia, un articolo citato da molti scrittori americani e attribuito alla Tass, senza data o citazione precisa della fonte, si diceva attribuisse ai russi una cattura totale di 3.000.000 di prigionieri. Se ciò fosse vero, usando il dato di 837.828 di rilasciati, accettato dagli Alleati nel 1947, risulterebbe che i russi hanno mancato di "tener conto", che, nel linguaggio della guerra fredda, significava liquidare, circa il 73 per cento dei prigionieri in mano loro in tempo di pace. (da "Gli altri lager", pag.150-151)



    Anche nei libri americani furono cancellate le verità imbarazzanti. Il poscritto di Eisenhower a Marshall nel maggio 1943, che diceva "é un peccato che non ne abbiamo uccisi di più" riferendosi ai tedeschi, veniva tagliato, probabilmente per ordine del Dipartimento della Difesa, dalla versione delle lettere data alla stampa nell'apparentemente autorevole Papers of Dwight David Eisenhower. La frase era cancellata anche dal libro di corrispondenza di Eisenhower con Marshall intitolato "Dear General". (da "Gli altri lager", pag.153)



    Mancando della verità, i tedeschi incominciarono molto presto a credere ai miti. Uno era quello che la fame, che in ogni caso era non intenzionale e causata dal caos e dalla scarsità di cibo, veniva alleviata il più possibile dai generosi americani, che facevano del loro meglio in condizioni impossibili. Uno storico e archivista tedesco diceva all'autore che gli americani non avevano cibo sufficiente per loro stessi, ammettendo però di non aver visto alcun libro o documento in materia. [...] Il solo aspetto utile di tutta questa creazione di miti é stato quello di inserire profondamente nella coscienza tedesca un senso di colpa per il male fatto da quella nazione. Ma il senso di colpa per i campi nazisti era inevitabilmente associato, nella mente dei tedeschi, con l'odio per i campi degli Alleati.
    I tedeschi che sapevano com'erano quei campi, per esservi stati, trovarono le loro giustificazioni in ciò che facevano gli americani e i francesi. Accettando che gli Alleati fossero giustificati nel punirli per i loro crimini, giustificavano se stessi, cercando vendetta per i crimini di guerra impuniti degli Alleati. Questo desiderio di vendetta é impossibile da soddisfare e cerca perciò dei capri espiatori, manifestandosi nel neonazismo e nell'antiamericanismo. Molti tedeschi pensano oggi che i campi non furono una giusta punizione dalla quale impararono una dura lezione, ma piuttosto una ingiusta punizione contro la quale non osarono protestare. [...] "Gli altri (gli Alleati) fanno le stesse cose delle quali i (tedeschi) sono incolpati", dicevano i prigionieri che tornavano dai campi alleati. (da "Gli altri lager", pag.154-155)



    Queste morti furono causate volontariamente, o era proprio impossibile per gli Stati Uniti e la Francia salvare le vite dei prigionieri? Se era impossibile, perché non li rilasciarono immediatamente? Il messaggio DEF del 10 marzo 1945 dimostra che la politica americana era pianificata in anticipo e ben prima che venissero catturate le grandi masse di prigionieri. Privare i prigionieri di riparo e delle razioni militari appena finita la guerra era una scelta politica dell'esercito americano. La privazione di cibo, acqua, tende e così via era incominciata settimane prima della fine delle ostilità, come notavano con sgomento Beasley e Mason.
    Già il 1 maggio si costruivano i recinti per prigionieri PWTE senza ripari, sebbene ci fosse un grande surplus di tende militari americane, e i primi prigionieri venivano privati dello status di POW il 4 maggio, quattro giorni prima del VE Day. In maggio si generalizzò la politica di privare i prigionieri di guerra del loro status e quindi del cibo che stavano già ricevendo. Fu una scelta politica quella che privò del loro status i rimanenti prigionieri, il 4 agosto, e fu ancora politica quella che impedì alle organizzazioni assistenziali civili di aiutare i prigionieri di guerra, i DEF e i civili in Germania.
    [...] Senza dubbio i DEF morirono in gran numero soprattutto a causa della fame, ma furono la mancanza di assistenza sanitaria e il sovraffollamento che causarono il maggior numero di morti tra i DEF e i POW. Una percentuale relativamente piccola, circa il 10 o il 15 per cento, morì per "esaurimento o deperimento", mentre un numero molto alto per malattie direttamente associate con le condizioni malsane e il congelamento, come polmonite, dissenteria, diarrea, malattie respiratorie e così via. Cosa può spiegare il rifiuto di fornire beni e servizi prontamente disponibili che avrebbero potuto evitare tutto ciò?. (da "Gli altri lager", pag.158-159)



    L'esperienza dei 291.000 prigionieri tedeschi in mano all'esercito degli Stati Uniti, comandato dal generale Mark W. Clark, in Italia, dimostrava che era possibile, nel 1945, per i comandanti americani in Europa tenere in vita i prigionieri senza "maltrattarli". Nessuno ha mai denunciato maltrattamenti di quei prigionieri che, pesati in un campo americano in Germania subito dopo il loro ritorno dall'Italia, non risultarono sottopeso, mentre quelli tenuti in Germania "erano tutti sotto peso". L'esperienza inglese e canadese dimostra che era possibile tenere in vita milioni di prigionieri in Germania, nel 1945. Non é stata mai citata alcuna atrocità in tempo di pace contro gli inglesi e i canadesi, fatta eccezione per la fame, a quanto pare non causata intenzionalmente, di circa 400 prigionieri, nel campo inglese di Overijsche, in Belgio, nel 1945-46.
    L'indice di mortalità dal 3,5 al 5 per cento tra i civili nella zona britannica, nel 1945-46, raffrontato al 30 per cento o più dei campi americani nello stesso periodo, dimostra che i prigionieri dei campi americani avrebbero avuto una sorte molto migliore, se rilasciati tra la popolazione civile. E' chiaro che l'esercito in Germania era responsabile come é chiaro che non si trattò d'un incidente. Chi dunque era responsabile nell'esercito in Germania? Il responsabile era Eisenhower. Solo l'esercito aveva il compito di imprigionare, mantenere, rilasciare e trasferire i soldati tedeschi. (da "Gli altri lager", pag.160-161)



    Ovviamente la differenza tra i campi inglesi-canadesi e quelli americani non derivava soltanto dal migliore nutrimento fornito nei campi inglesi-canadesi. E' virtualmente certo, anche se non provato, che l'alta percentuale di sopravvivenza nei campi inglesi-canadesi era dovuta a fattori che non avevano niente a che fare con la scarsità mondiale di viveri. I prigionieri nei campi inglesi-americani avevano riparo, spazio, acqua potabile sufficiente, migliori cure mediche e così via. I prigionieri nei campi americani cercavano ancora di lanciare di nascosto, durante la notte, messaggi avvolti ai sassi chiedendo da mangiare, mentre quelli nei campi inglesi già ricevevano la posta regolarmente. L'esercito canadese permise ad almeno una unità tedesca di tenere tutto l'equipaggiamento telefonico e perfino di continuare a usare una radio trasmittente.
    Dopo pochi mesi, i prigionieri dei campi inglesi e canadesi ricevevano visite. [...] La colpa di tutto ciò va principalmente a Eisenhower, assieme a Hughes e Smith. Solo concedendo agli ufficiali subalterni di ricevere ciò di cui avevano bisogno dai depositi, avrebbe consentito di salvare molte vite. Permettendo la distribuzione dei 13.500.000 pacchi viveri della Croce Rossa destinati ai prigionieri, si sarebbero tenuti in vita per molti mesi, forse più d'un anno, tutti quelli che morivano di fame. Un solo ordine di rilasciare tutti quelli non necessari come manodopera, avrebbe ridotto rapidamente la percentuale dei morti da oltre il 30 per cento all'anno a quella dei civili del 3,5 per cento. Concedere il permesso alle organizzazioni assistenziali di visitare i campi, avrebbe portato a una tempesta di proteste pubbliche contro le atroci condizioni, suscitando nello tesso tempo la volontà politica e operativa necessaria ad alleviarle. (da "Gli altri lager", pag.164-165)



    "L'intenzione del comando dell'Army per quanto riguarda i campi dei POW tedeschi dal maggio 1945 alla fine del 1947 era di sterminare quanti più POW possibile finché la cosa si poteva fare senza controllo internazionale", secondo il tenente William Crisler, che all'epoca faceva parte del Military Intelligence dell'US Army di occupazione. Crisler fu testimone delle letali condizioni imposte ai prigionieri tedeschi in molti campi, compreso Regensburg presso Monaco. Egli vide anche un ordine affisso alla bacheca del Quartier Generale del Governo Militare Americano in Baviera e firmato dal Governatore Militare della Baviera, in inglese, tedesco o polacco, che diceva che era un crimine punibile con la morte per i civili tedeschi portare cibo ai campi per nutrire i prigionieri (interviste nel 1991 e 1992, oltre a lettere di Crisler, che ha approvato le stesse per la pubblicazione).
    I prigionieri stavano allora morendo di fame. Nel grande campo per prigionieri di guerra di Bretzenheim, dove le condizioni erano migliori che in molti altri campi, il registro ufficiale delle razioni, scoperto di recente, mostra che i prigionieri di guerra - quelli trattati meglio di tutti - ricevevano da 600 a 850 calorie al giorno. I prigionieri pativano la fame sebbene "i viveri fossero ammassati tutt'attorno al recinto del campo", secondo il capitano Lee Berwick del 424 Reggimento di fanteria, che aveva in custodia il campo. Recentemente sono state scoperte anche prove che sono stati uccisi sia civili che prigionieri mentre tentavano di dare o ricevere cibo attraverso le barriere di filo spinato. E due tedeschi hanno rivelato che videro i bulldozer dell'US Army seppellire vivi dei prigionieri nelle loro buche di terra nei campi di Remagen e Bad Kreuznach. Fu solo un giorno dopo la fine della guerra, l'8 maggio 1945, che il Governo Militare di Eisenhower dichiarò che dar da mangiare ai prigionieri era un crimine capitale per i civili tedeschi. (da "Gli altri lager", pag.169)



    Il tenente William Crisler ha detto: "Ho visto l'ordine in inglese e tedesco affisso per un breve periodo alla bacheca del Quartier Generale del governo militare della Baviera. Era firmato dal capo di Stato Maggiore del governo militare della Baviera. Più tardi fu affisso in polacco a Straubing e Regensburg, perché c'erano molte compagnie di guardie polacche ai campi. L'intenzione del comando dell'Army a proposito dei campi di POW tedeschi era molto chiara dal maggio 1945 fino a tutto il 1946. Era di sterminare quanti più POW possibile finché la cosa si poteva fare senza controllo internazionale. Questa era conosciuta come la politica degli alti gradi del comando". Ex prigionieri hanno consentito anche la scoperta di prigionieri e di un civile che furono fucilati per il "delitto" di aver passato cibo attraverso il filo spinato.
    Donne e ragazze civili furono uccise, prese a fucilate e imprigionate per aver portato cibo ai campi, sebbene l'ordine di Eisenhower avesse dato implicitamente ai singoli comandanti dei campi la possibilità di fare eccezione per i famigliari che tentavano di dar da mangiare ai loro congiunti attraverso il filo spinato. Il prigioniero Paul Schmitt fu ucciso nel campo americano di Bretzenheim dopo essersi avvicinato al filo spinato per incontrare la moglie e il giovane figlio che gli portavano del cibo. I francesi seguivano l'esempio: Frau Agnes Spira fu uccisa da guardie francesi a Dietersheim nel luglio 1945 mentre portava cibo ai prigionieri. (da "Gli altri lager", pag.170)



    Il prigioniero Hans Scharf, che ora vive in California, fu testimone dell'uccisione più raccapricciante. Vide una donna tedesca con i suoi due bambini venire verso una guardia americana nel campo di Bad Kreuznach, portando una bottiglia di vino. Chiese alla guardia di dare la bottiglia a suo marito che era proprio dietro al filo spinato. La guardia si scolò la bottiglia, e, vuota, la gettò a terra e uccise il prigioniero con cinque colpi. Gli altri prigionieri urlarono, attirando l'attenzione del tenente dell'US Army Holstman di Seattle, che disse: "E' una cosa orribile. Mi accerterò che la cosa vada davanti a una corte marziale". In mesi di lavoro negli archivi dell'Esercito a Washington, non é risultata alcuna corte marziale per quest'episodio o altri simili. (da "Gli altri lager", pag.171)



    Martin Brech, professore in pensione di filosofia del Mercy College di New York, che era di guardia ad Andernach nel 1945, ha confermato che la politica del terrore di Eisenhower era duramente imposta fino ai gradi più bassi delle guardie del campo. (da "Gli altri lager", pag.171)



    A Bad Kreuznach, William Sellner di Oakville, nell'Ontario, vide un giorno dei civili che gettavano cibo oltre il filo spinato mentre le guardie guardavano con indifferenza. Ma, di notte, quelle guardie sparavano a caso raffiche di mitragliatore nel campo, sembra per divertirsi. A Bad Kreuznach, Ernst Richard Krische, amputato a un braccio, scrisse non di meno nel suo diario il 4 maggio: "Sparatoria selvaggia nella notte, proprio come i fuochi d'artificio. Dovrebbe essere la cosiddetta pace. La mattina dopo, 40 morti come vittime dei fuochi d'artificio soltanto nel nostro recinto, molti feriti. (da "Gli altri lager", pag.172)



    Quando, in luglio, gli americani si preparavano a lasciare il campo, fu detto a Buchal dai conducenti del 560 Ambulance Company che avevano trasportato cadaveri ed evacuato prigionieri ammalati, che durante le dieci settimane di controllo americano nei sei campi attorno a Bretzenheim, erano morti 18.100 prigionieri. Buchal non venne a sapere dove finivano i cadaveri. Egli udì lo stesso numero di 18.100 morti anche dai tedeschi che tenevano le statistiche dell'ospedale e da altro personale americano nell'ospedale. [...] Molti riferiscono un numero di morti superiore a 50 al giorno per un lungo periodo nel solo campo, senza contare l'ospedale. Uno riferisce di 120-180 cadaveri portati fuori dal campo ogni giorno, senza tener conto dell'ospedale. (da "Gli altri lager", pag.173)



    Il capitano Berwick aveva il comando dei capisquadra tedeschi che dovevano portare fuori dal campo ogni giorno i cadaveri. Egli valuta che da tre a cinque cadaveri al giorno venivano portati fuori da ciascuno dei 20 recinti compresi nel campo più grande, nel periodo peggiore, che durò circa sedici giorni. Ciò significa che solo dal campo, senza considerare l'ospedale, da circa 960 a circa 1.600 cadaveri vennero portati fuori in solo sedici giorni. (da "Gli altri lager", pag.173)



    Leggiamo anche a pagina 17 del rapporto della 106 che in maggio e giugno le ambulanze della 106 fecero 2.434 viaggi coprendo 193.949 miglia, evacuando 21.551 prigionieri. Come abbiamo visto nel caso delle truppe che si diceva fossero state trasferite al generale Clark nel 1945 in Austria, e che Clark riferiva non essere mai arrivate, c'è un solo modo di partire da un luogo e non arrivare in alcun altro, e questo modo é il morire. In ogni caso, un dottore tedesco, Siegfried Enke, di Wuppertal, che lavorò in una unità ospedaliera d'un campo americano, ha detto che i pazienti malati incurabili venivano trasferiti a un altro fabbricato (chiamato probabilmente ospedale d'evacuazione) e che non li vedeva più. (da "Gli altri lager", pag.176)



    Il dottor Joseph Kirsch scrive: "Mi offrii volontario al Governo Militare del 21 (francese) Regione Militare (presso Metz)... Fui assegnato all'ospedale militare "francese" situato nel piccolo seminario di Montigny... Nel maggio 1945, gli americani che occupavano l'ospedale di Legouest ci portavano con le ambulanze ogni notte barelle cariche di prigionieri moribondi in uniforme tedesca... Le ambulanze entravano dall'ingresso posteriore... Noi allineavamo le barelle nella sala centrale. Non avevamo niente a disposizione per le cure. Potevamo soltanto eseguire esami superficiali elementari (auscultazione). Soltanto per scoprire prima le cause della morte nella notte... Poi, al mattino, arrivavano altre ambulanze con bare e calce viva... I prigionieri erano in condizioni talmente cattive che il mio ruolo era ridotto a dar conforto ai morenti. Questo dramma mi ha ossessionato dalla guerra in poi; lo ricordo come un orrore". Il lettore può giudicare quale opinione avessero gli americani di quegli "ospedali" dal fatto che, assieme ai pazienti, trasportavano bare e calce viva. (da "Gli altri lager", pag.176)



    La prova che le evacuazioni erano quasi tutte morti nascoste divenne molto più forte con l'arrivo dei francesi in luglio. I francesi che rilevarono dagli americani in luglio l'intera area del Reno, compresi campi e ospedali, lamentarono il fatto che gli americani avevano detto che c'erano 192.000 uomini nei campi e negli ospedali, ma in realtà ne avevano trovati soltanto 166.000. Non solo i francesi non li trovarono, gli americani ammisero riservatamente che non c'erano. (da "Gli altri lager", pag.177)



    La più impressionante delle prove dettagliate di morti registrate da unità ospedaliere viene pure dalla 106 Divisione. Nelle unità ospedaliere della 106, escludendo "ospedali d'evacuazione", in 70 giorni, morirono 1.392 persone su un carico di pazienti di 23.095. [...] A Bretzenheim, a tre miglia di distanza, Max Dellmann, il pastore protestante del campo nel 1946, seppe dai medici tedeschi del 50° Field Hospital HQ Detachment nel campo, che vi erano morti dai tremila ai quattromila uomini quando c'erano gli americani. (da "Gli altri lager", pag.178)



    Una notte nell'aprile del 1945, fui risvegliato di colpo dal mio sopore nella pioggia e nel fango da strazianti grida e da forti lamenti. Balzai i piedi e vidi in distanza (circa 30-50 metri) i fari di un bulldozer. Vidi poi che il bulldozer stava avanzando attraverso la folla di prigionieri stesi a terra. Aveva davanti una lama che tracciava una strada nel terreno. Non so quanti dei prigionieri finirono sepolti vivi nelle loro buche. Non fu più possibile rendersene conto. Odo ancora chiaramente le grida di "Assassino!". (da "Gli altri lager", pag.184)



    Una lettera di un funzionario del Dipartimento di Stato, confermata da un funzionario del Comitato Internazionale della Croce Rossa, stabilisce inequivocabilmente, nel gennaio 1946, che "le condizioni sotto le quali i POW tedeschi sono stati tenuti nel teatro europeo d'operazioni ci espongono a gravi accuse di violazioni della Convenzione di Ginevra". [...] L'ICRC riferiva dalla Francia, e l'esercito riferiva dall'Austria e Berlino, che i prigionieri in mano agli americani morivano di fame. (da "Gli altri lager", pag.201)

    inizio

    GIAPPONESI NEI CAMPI ANGLOAMERICANI.


    Fin dal 10 agosto 1936, Roosevelt aveva emesso un ordine in cui dichiarava: "Tutti i cittadini giapponesi, che siano residenti sull'isola di Oahu o meno, che si recano all'arrivo di navi giapponesi o che abbiano rapporti con i loro ufficiali o i loro uomini, devono essere segretamente ma precisamente identificati, e il loro nome deve essere posto in una speciale lista di quelli che per primi saranno rinchiusi in campi di concentramento nel caso di problemi con il Giappone". (da "Il giorno dell'inganno", pag.107)

 

 

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