Maurizio Blondet
22/01/2007

Alcuni lettori chiedono cosa pensare dell’esperimento di Pechino, il missile che ha distrutto un satellite (del volume di un paio di metri cubi) a 700 chilometri di distanza nel cielo.
A questo proposito, mi pare interessante, più del mio parere, la reazione melliflua o flemmatica dei giornali inglesi di fronte alla reazione allarmata o indignata degli americani.
Il Financial Times (1) ricorda che Russia e Cina hanno fatto di tutto per convincere gli USA a non militarizzare lo spazio; ma che Washington, «con un bilancio militare che supera quasi quello del resto del pianeta messo insieme, non si è mostrato interessato».
Inoltre, nei mesi scorsi Bush ha preso due iniziative cruciali.
Prima: la cooperazione nucleare con l’India, «chiarissima indicazione della volontà di Washington di creare un contrappeso alla Cina in Asia».
Seconda iniziativa, più grave: l’estate scorsa, Bush ha emanato una nuova dottrina militare in cui afferma esplicitamente che gli USA considerano lo spazio «altrettanto importante che le forze aeree e navali per la sicurezza nazionale».
Insomma, gli americani hanno detto: lo spazio è nostro e lo militarizziamo come vogliamo.
Pechino ha risposto dimostrando di avere i mezzi per la corsa militare allo spazio.
Commenta il Financial Times: «Si spera che l’America si renda conto che il suo eccezionalismo, ossia il suo arrogarsi diritti che non concede a nessun altro alleato, per non dire ai competitori, ha un costo».
Washington sta solo raccogliendo gli effetti del suo unilateralismo rozzo ed arrogante, del suo rifiuto di trattare (carattere nuovo e molto «israeliano»), e del suo disprezzo per i trattati internazionali di riduzione bilanciata degli armamenti.
Gli esperimenti di guerra spaziale ordinati da Reagan (che furono in parte un geniale bluff, che portò al crollo dell’URSS, incapace di impegnarsi in un nuovo riarmo siderale) erano terminati nel 1985, non da ultimo per i rottami orbitanti che creavano, e che mettevano in pericolo i satelliti d’ogni genere che ormai coprono il cielo.
Bush ha ripreso il progetto, nonostante le obiezioni di Putin.
Pechino ha dimostrato che se Bush vuole la guerra spaziale, l’avrà.



Ed è l’America che ha più da perdere da questa corsa, in quanto le sue forze armate sono quelle che si sono rese più dipendenti dai satelliti per funzionare: sorveglianza, spionaggio, osservazione dei teatri di guerra, teleguida di missili e bombe intelligenti, posizionamento di navi e aerei; tutta la sua iperpotenza dipende dalla integrità della sua rete satellitare.
La Cina ha sviluppato metodi appunto per accecare o disintegrare questa rete: pochi mesi prima di colpire il suo satellite con il suo missile, aveva «illuminato» con un laser basato a terra un satellite americano.
I suoi strateghi hanno attentamente studiato l’effetto di piccole esplosioni all’idrogeno per «azzerare» con l’impulso elettromagnetico che ne nasce, le comunicazioni spaziali.
L’esperimento cinese provocherà una nuova corsa agli armamenti e una nuova guerra fredda con Washington?
Probabilmente no.
Gli USA, impantanati nella loro politica fangosa in Medio Oriente, non possono permetterselo.
Almeno, questo è ciò che pensa (o pensava) John Negroponte, quando era ancora il capo di tutta l’intelligence.
Nel suo «Valutazione Annuale delle Minacce» (Annual Threat Assessment), Negroponte ha sostenuto che la Cina non deve preoccupare, perché «essa pone la priorità nello sviluppo di relazioni positive con gli Stati Uniti».
Il rapido e massiccio riarmo cinese? E’ una comprensibile manifestazione «delle sue aspirazioni allo status di grande potenza, alla percezione delle minacce e alla strategia della sicurezza».
Insomma, gli USA dimostrano una fin troppo evidente buona volontà di considerare la Cina una potenza «ragionevole», un fattore di stabilità nel Pacifico e un legittimo attore della politica asiatica.
Non è nemmeno il caso di ricordare fino a che punto i due Paesi siano legati alla stessa corda: la Cina è il massimo detentore di dollari USA in forma di Buoni del Tesoro, l’America è il massimo compratore delle merci cinesi.
Un clima di guerra fredda o calda sarebbe la rovina economica per entrambi.



Pechino valuta freddamente il calo di potere, prestigio e credibilità USA, e sta esaminando come trarne vantaggio, senza provocare una crisi che sarebbe contraria ai suoi interessi.
Abbiamo detto come i cinesi abbiano ricevuto in pompa magna Ehud Olmert.
Ma va segnalato il commento pubblicato poi dal Quotidiano del Popolo:
«Israele non ha solo sottovalutato la forza di Hezbollah, ma anche la forza di Siria e Iran… la sua potenza non è all’altezza di tenere le sue attuali posizioni. Piccola com’è, Israele si trova in mezzo ad un ambiente strategico truce, e ha di fronte rischi crescenti. La sola via giusta per essa è di tornare sul sentiero dell’accordo politico, immediatamente e incondizionatamente». (2)
Mente fredda contro messianismo idiota.
Politica sottile contro rozzezza alla Bush.
La Cina accompagna il declino americano mondiale verso un atterraggio morbido.
Sa che il tempo lavora a suo favore.
Di fronte a questa lucidità, contrasta con la forza di un apologo quanto segue: i media americani agitano la questione se Barak Obama, un candidato presidenziale, sia qualificato ad essere presidente, dato che ha ammesso di aver fumato spinelli.
Gli stessi media si sono fatti trascinare in guerre disastrose da un presidente che è un alcolista dichiarato, con evidenti danni psichici permanenti.
Questa ipocrisia non è la minore delle vergogne dell’Occidente.

Maurizio Blondet




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Note
1) «China set off a new round of Star Wars», Financial Times, 20 gennaio 2007. Editoriale non firmato.
2) M.K. Bhadrakumar, «China begins to define the rules», Asia Times, 20 gennaio 2007.




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