Sulle caste
Maurizio Blondet
23/01/2007

Un lettore che immagino giovane mi scrive una cosa curiosa: «Mi rivolgo a Lei perchè forse Lei sa darmi una risposta a questa domanda: perchè più conosco la democrazia più sono attratto dal sistema delle caste? Mi sono preso il libro di Thibon 'Ritorno al Reale' che ho trovato molto bello…».
La cosa curiosa è che anch'io da ragazzo ebbi questa illusione: che fosse possibile la restaurazione, se non del sistema di caste ossificato in India, il sistema del «rango», degli «ordini», o dei tre «Stati» che hanno ordinato le società indo-europee per millenni: sacerdoti, nobili, «mercanti»- e - produttori.
C'è un errore in questo, ed è di credere che il sistema degli ordini sia una istituzione, qual'è la democrazia, e che possa legalmente essere sostituito alle istituzioni democratiche in modo positivo. E come? Con il voto, non avrebbe mai la possibilità di passare.
Imporlo con la forza, ove pur fosse possibile, sarebbe falsarlo alla radice.
Perché? Perchè per millenni, l'ordine castale fu sentito non già come qualcosa di imposto o sovrapposto alla società, bensì come «la natura delle cose».
In India, le caste sono dette «varna», «colori», e non in senso razziale.
S'immagina che ogni uomo sia come un tessuto colorato, perché formato dall'intreccio di tre fili (guna).
Uno è bianco, «sativa», ed è la pulsione ascendente, spirituale; l'altro è rosso, «rajas», e indica la tendenza espansiva, iraconda e generosa. Il terzo filo è nero, «tamas», e simboleggia la pulsione discendente, volta alla soddisfazione del ventre e del sesso.
In ogni uomo prevale per natura uno dei tre fili del tessuto: nel brahmano è ritenuto prevalere il «sativa», negli kshatrya (re, guerrieri e giudici) il «rajas», nei vaisha (mercanti) e nei sudras il nero «tamas», sempre più abbondante.
Platone non pensava altrimenti, quando immaginò l'uomo come un carro spinto da tre cavalli focosi, tendenti verso l'alto o verso il basso.
San Tommaso d'Aquino parla ugualmente di anima «spirituale» (sattva), «irascibile» (rajas), «concupiscibile» (tamas).
E con bella spiegazione del «rajas», sostiene che il giudice, per far giustizia, deve saper adirarsi.

Da qui la gerarchia degli uomini; ma questa gerarchia si auto-imponeva naturalmente perché l'umanità indo-europea viveva in una temperie metafisica oggi perduta.
Risaliamo a tempi antichissimi.
Dumézil ha riconosciuto nel «flamen», nome maschile di forma neutra, la derivazione da «brahman».
I collegi dei sacerdoti detti «flamines» avevano cura ciascuno di Giove, Marte e Quirino, divinità tutelari dei tre «Stati», i sacerdoti, i guerrieri e i produttori.
Parimenti, nella guerra e poi nella fusione di Romani e Sabini, è dato intravvedere l'epica scandinava degli Asi e dei Vani, divinità prima nemiche poi unite per sempre e divenute indistinguibili.
Del resto, in eroi «storici» della storia romana primitiva, Orazio Coclite e Muzio Scevola, si celano figure della mitologia scandinava: Odinn l'Orbo (1), e Thor il Monco.
I Sabini portano alla banda guerriera di Romolo le donne e le «ricchezze», opes, della produzione agricola e dei tesori: sono i produttori, sotto il segno della fecondità.
Parimenti, fra gli Osseti, la società era divisa tra gli Intelligenti (Alaegatae), i Forti (Aehasaergkatae) e i Ricchi (Boratae).
In Roma, l'ordine duale può risalire alla realtà più primitiva in cui i due «stati» superiori, quello addetto ai riti e l'addetto alla guerra, erano ancora indistinti e si identificavano nel «rex» (raja), capo bellico e anche divinatore in contatto col divino, funzione ancora detenuta in età repubblicana dal «rex sacrorum».
Più tardi avvenne la distinzione.
In India, un richiamo nordico-ario assegna come animale sacro dei brahmani il Cinghiale, forse solo perché il nome indiano del facocero è «varaha», analogo del greco «borea» (che si pronunciava «vorea»), ossia «Nord»: ricordo della beata isola settentrionale sveta Dvipa, dove vigeva eterna la primavera e tutti gli uomini appartenevano alla sola casta più alta (dediti cioè esclusivamente alla contemplazione).
Alla casta guerriera spetta l'Orso, «Arcthos» (altro animale nordico), da cui il nome di re Artù.
In India gli kshatrya risultano eliminati da un evento enigmatico e tragico, forse storico, contenuto e celato nel mito di Parashurama (Rama con l'ascia), e da qui la prevalenza dei bramani, in qualche modo la clericalizzazione-ossificazione della società (anche se potenti gruppi di contadini poterono col tempo assurgere a kshatrya, come i Maura).
Nelle società indo-europee occidentali prevalse l'elemento guerriero, divenuto aristocrazia, patriziato, nobiltà.

Questo ordine imponeva alla società una tendenza pedagogicamente «ascendente».
Proprio le figure di Coclite e Scevola, divinità umanizzate, indicano bene questa pedagogia: sono «exempla», proposti ai giovani per incitarli ad azioni eroiche, disinteressate e «belle», al sacrificio di sé oltre il dovere.
Il brahmano non si definisce per dei privilegi, ma per degli obblighi, la frugalità estrema della vita, la povertà serenamente vissuta.
Allo stesso modo, il generale romano era sempre disposto a compiere il rito della «devotio», dove accettava la morte per la salvezza del proprio esercito minacciato dalla rotta e dal panico. Significativa, nella formula della «devotio», la richiesta agli dei: «peto feroque», ossia non solo chiedo ma già «ottengo» (fero), perché sono pronto a morire insieme all'esercito nemico.
Atteggiamento patrizio, esemplare, incitante gli inferiori.
Nella società gerarchica e tripartita, anche i sudras tendevano, non fosse che per costrizione, all'ordine superiore.
Questo è il punto.
Il nobile e il sacerdote passavano, come dice il Vangelo, per la «porta stretta».
Solo in parte il loro rango era determinato dalla «natura» e dall'eredità genetica; essi dovevano, ciascuno, diventare quello che erano.
Essere brahmani o kshatrya era insieme un modo d'essere ed anche un compito.
Voleva dire formarsi un carattere, una tempra.
Ancora Goethe dirà: «Vivere a proprio gusto è da plebeo. Il nobile aspira a un ordine e a una legge» a cui si sottopone volontariamente, ed è una legge assolutamente esigente. (2)
In questo senso, oggi, siamo tutti sudras, intoccabili.
Ci contentiamo di essere quello che già siamo, senza sforzo, edonisticamente: e così cadiamo sempre più nella sfera discendente del tamas, nero come Kalì.
La «democrazia» e le sue patologie terminali non sono, in fondo, che questo.
Ancora nell'India moderna, etnologi britannici videro in atto un fenomeno curioso, chiamato «la brahmanizzazione delle caste».
E' il caso di una sottocasta di barbieri, le cui mogli facevano le levatrici; il contatto con i peli e il sangue, realtà corporee «impure», ne rendeva basso il rango, quasi da intoccabili.
Il consiglio della sottocasta, gli anziani, decise da un certo punto in poi di «brahmanizzarsi», vietò alle donne il mestiere di levatrice, gli uomini smisero di fare i barbieri per un mestiere più «puro», quello di vasai, e studiarono i Veda.
In poche generazioni, la società circostante li accettò - non come individui ma come gruppo - come brahmani.
Ecco un esempio della tensione ascendente che ancora poteva esercitare l'esemplarità delle caste superiori, il loro essere «imitate».

Nell'Europa moderna Herman Berl identificò il fenomeno contrario, della «regressione delle caste».
Si tratta dell'emergere e del diventare egemoni degli «Stati» via via più bassi.
Nella lotta medioevale per le investiture, si vide la rivolta dell'elemento aristocratico e guerriero, imperiale, contro il clero (peraltro sempre meno adeguato al suo compito, parassitario: da qui nasce l'insubordinazione).
Poi, nella Rivoluzione Francese, è il dominio tirannico del «Terzo Stato» - la borghesia - ad imporsi, con le sue avidità e i suoi calcoli economici.
Con la rivoluzione bolscevica, è la volta del quarto Stato, gli operai, i sudras di aspirare al dominio.
Oggi, nella sfatta anarchia edonistica trionfante, si deve deplorare l'emergere di un «quinto Stato»: i frequentatori di stadi e discoteche che impongono la «loro» visione del mondo, che vogliono essere amministrati anziché governati, che vogliono soprattutto godere (significativamente, un gruppo sessantottino lanciò lo slogan «Godere operaio» al posto di «Potere operaio»).
Nella visione castale, costoro sono «chandala», sotto-uomini, puro «tamas», incapaci di sacrificare un poco l'oggi al domani, e dunque incapaci di reggere la civiltà.
Nelle loro mani, la civiltà decade, la democrazia diventa criminalità, la religione è abbandonata, la tempra morale si liquefa (e chi ne ha viene deriso).
Persino ogni forma d'arte - come constatiamo - deperisce e muore, sostituita da un «mercato dell'arte» con aste e denaro.
Costoro che credono di essere liberi perché «vivono a loro gusto», infatti, sono soggetti alla più dura delle «leggi» impersonali, l'economicismo, il «libero mercato globale» che fa di ciascuno di loro (e di noi) i suoi zimbelli.
Costoro imitano non già gli «exempla» nobili, ma i peggiori e più ripugnanti: con gli orecchini e i tatuaggi, si vogliono simili allo zingaro, al ladro di cavalli, al pirata e al galeotto.
Persino la sessualità - non essendo più assunta come compito - diventa intercambiabile e incerta: si glorifica il travestitismo, si lodano come «normali» le perversioni.
Sono personalità larvali, a-razionali, spinte da impulsi primari.
La ragione sparisce, sostituita da una violenza idiota e corpuscolare, da un arraffare generale, da una guerra molecolare di tutti contro tutti.
Secondo l'antica sapienza indo-europea, questo disordine estremo indica l'estremo limite della decadenza, del Kali Yuga.

E' possibile un rovesciamento, in queste condizioni? Un ritorno all'ordine gerarchico «naturale»?
Non ci illudiamo.
Nell'India d'oggi le caste persistono, e sono diventate veleno.
Erano funzionali e pacifiche nell'antica cultura contadina, quando l'India non aveva città, non conosceva il denaro e ignorava la «produttività» come imperativo.
Oggi, nella cultura urbana e vaysha (borghese) dominante anche là, rompono il tessuto sociale anziché rafforzarlo.
Le caste sono nemiche fra loro.
Ogni visitatore straniero resta colpito dalla crudele insensibilità con cui l'indiano fortunato guarda al miserabile affamato e scheletrico sul marciapiede: non è tenuto alla carità perché quell'uomo non è della sua casta, è radicalmente a lui estraneo, come uno straniero.
Conosco l'India d'oggi.
La insopportabile volgarità esibizionista del vaysha arricchito.
La televisione indiana è di una bassezza sensuale quasi intollerabile, persino peggio della nostra. Anche l'India è entrata nella «civiltà globale», e le caste non l'hanno protetta, anzi ne incrudeliscono le iniquità.
Dunque non è possibile una restaurazione? Nella visione tradizionale, essa non solo è possibile.
E' ineluttabile. Poiché l'ordine sociale gerarchico è «la natura delle cose», e l'attuale disordine è contro natura, esso non può reggersi.
Non sarà però una restaurazione e contro-rivoluzione politica a rovesciarlo.
Sarà una catastrofe cosmica a spazzarlo via, come è già accaduto nel Diluvio, ad Atlantide e alle mille Atlantidi che ciclicamente ci hanno preceduto.
La natura umana che si guasta infatti, per corrispondenza sottile tra il microcosmo e il macrocosmo, guasta l'intera natura.
Ieri «mineralizzata» dal dominio borghese e poi operaio, con le sue retoriche costruzioni d'acciaio e d'alluminio, oggi la natura manifesta essa stessa un disordine anarchico, si disfa.
Gli ignari lo chiamino pure «effetto serra», riscaldamernto climatico e via elucubrando, e sostenendone responsabile l'industria umana: intuizione insufficiente ma non errata.

Ciò non è superstizione.
San Paolo stesso dice che la natura intera grida di essere salvata - e salvata dall'uomo, il solo che può farlo.
Venuto meno al suo compito («sforzatevi di passare per la porta stretta, perché è larga la via della perdizione»), l'uomo non può aspettarsi che la rivolta della natura, quella dei cui ritmi vive, e che crede - cieco idiota - garantiti.
E' questo che dobbiamo attendere, senza augurarcelo.
Perché sarà spaventoso, e probabilmente milioni di uomini che stanno vivendo «a proprio gusto» moriranno, insieme ai giusti che vegliano.
I primi, del resto, hanno anche questo difetto: che sono ermetici ai «segni».
Impareranno solo sulla propria carne.

Maurizio Blondet